Qui non mi trovate,
io qui non ci sono.
Sto nella stanza accanto
dove non c'è nessuno.

21.8.09

DOMANI ERO

Autore: RINALDO BOGGIANI
Edizioni Associate 2008
Prefazione di Romano Biancoli
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altri titoli dello stesso autore:
- Stelle Nere - Tutti i bambini sono stelle. Alcuni brillano. Altri no.
- 2012 - La Shoah nel Pianto di un Bambino
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Limitativo ogni commento a questi libri brevi ma ad alto peso specifico, già significativamente introdotti dallo Psicanalista Romano Biancoli.
Piacevoli da leggere e ancor più rileggere.
Viaggi nelle ferite aperte del nostro ieri.
Dove il tempo diventa illusione perchè tutto è già avvenuto e il futuro sarà solo ciò che già siamo stati.
Il passato ci imprigiona condannandoci ad "un'attrazione magnetica per il già vissuto. Le passioni si fissano e rendono illusorio il movimento in avanti che sembra retta e invece è circolo".
Evasione da questo carcere? Possibile forse, se traduciamo in poesia la prosa insostenibile delle nostre paure.


Futuro. Ma è solo il passato che conta, non viene a galla, è sempre presente. Quello che diciamo in questo momento è la risultanza di milioni di visioni, sogni libri incubi amori pianti quadri film mamma e papà.
Nonna uccideva i passeri con l’inganno. Li portava in tavola con sugo e polenta. Una polenta rossa d’inganno. Papà andava a caccia e quando feriva una lepre la finiva con le mani e anche lui, povero papà “ ai miei tempi sì che valevano i principi, oggi invece…” Papà io non uccido neanche una mosca, se entra apro la finestra perché la mosca vuole la luce e così esce dalla finestra più luminosa della stanza buia…tu avevi le mani insanguinate. Quella lepre non voleva morire, te lo credo, aveva sei cuccioli da allattare. A quelle anatre avevi rubato il volo. Erano così tristi che avevano piegato il capo.

La mamma tirava il collo alle galline perché le allevava per questo. Tremavano dalla paura prima durante e dopo la morte. Per altri dieci minuti.
Il maiale l’uccidevano che non dormiva la notte prima perché sapeva di morire il giorno dopo.
E cominciava a piangere alle cinque per diventare gocce di carne attaccata a un palo prima di sera.
Quella notte non dormiva più. L’ultima notte.
Quella notte non dormivo più. Quanto sangue.
Cosa darei per ridare vita ai passeri alle lepri alle anatre-alle galline al maiale e a tutti i morti ammazzati in guerra avevano la mia età per morire senza un perché ----------
cosa darei per ridare loro qualcosa.
(Domani ero)
/
Sono nata in campagna dove il tempo si misura col sole la pioggia il grano l’odore dell’erba il canto dei grilli. La famiglia era numerosa: il nonno il papà lo zio il cugino Antonio. Poi le donne. Nonna zia Erminia mamma mia sorella Simonetta Non fu facile all’inizio capire chi erano mamma e papà perché era zia che mi accarezzava, mi puliva mi vestiva e papà lo vedevo solo la sera quando ero molto stanca. Ma non era un problema. Mi sentivo bene. Volevo bene a tutti e in quasi tutti c’erano anche mamma e papà.
I grandi che mi stavano attorno erano veramente grandi. Giganti. Spostavano con facilità oggetti enormi. Guardavano tutto e tutti dall’alto in basso. Li temevo e allo stesso tempo mi sentivo protetta. ….
Più passava il tempo e più mi convincevo che i grandi erano sempre stati grandi e che noi saremmo stati sempre piccoli. Il mondo era semplicemente fatto così.
Quando i pulcini diventavano grandi i dubbi mi tenevano sveglia.
“Ma noi - mi dicevo – siamo bambini, mica pulcini.” Antonio era d’accordo. Quello che pensavano di noi gli altri non mi interessava.
(Stelle nere)
/
Non perdere tempo! mi diceva sempre mio nonno.
Non perdo tempo nonno, nemmeno un pochino, ce l’ho tutto qui dentro a dettarmi il futuro.
Non perdo tempo nonno…
Così ricordo i tramonti in campagna, le tue bevute le mie risate.
Il grano maturo il tuo quarto bicchiere.
Rosso tramonto “perché quest’anno è piovuto poco”.
Mi mostravi il cielo di tutti i colori. Giallo attraverso un bicchiere di bianco. Rosso al di là di un merlot.
Non perdo tempo nonno nemmeno un pochino.
Vedo la terra da arare la brina sui campi. La nebbia sul fiume il ghiaccio sull’aia.
Il nonno è morto portandosi via tutto il tempo. Una giovinezza in divisa dentro a una guerra malata. Come tutte le guerre.

Una malattia curata male, così il male se l’è portato via.
Ha portato con sé un vestito le scarpe una corona fra le mani che non conosceva. Nuova.
Comprata per l’occasione.
Il cane voleva andare con lui ma non hanno voluto.
Volevo dargli una bottiglia di merlot ma mi hanno detto che non si poteva.
Dopo un po’ anche il suo odore se n’è andato. Non ha portato via altro.
Così, corrono da lontano per avere.
Io voglio solo la scacchiera per vedermi bambino
davanti al nonno innamorato.
Fra noi il gioco della vita.
Il nonno mi faceva vincere attaccando con la torre. --------------
Voleva più bene a me che al suo Re.
Voglio solo la scacchiera. ////////------------------------------------------------------E.H.LANDSEER
(Domani ero)
/

Ricordi nonno quando mi dicevi di guardare
il cielo che tocca il mare? Non si toccavano e
forse non si toccheranno mai.
Eppure passavamo ore a guardare quello che non c’è.
Passo ore a pensare a quello che non c’è.
Forse le cose più belle non ci sono. ….

Non ti preoccupare nonno, ho tutto. Libri, carta per scrivere, pensieri da aggiustare, ricordi che mi tengono compagnia. Ho il tempo per costruirmi un passato. E poi ogni tanto piove.
Di giorno non succede niente.
Difficilmente domani accadrà qualcosa. E’ quanto mi son detto ieri. Faccio finta di vivere.
(Stelle Nere)

/

Sì sei elegante sei dimagrita
perché ti vuoi cambiare siamo in ritardo ti ho detto che sei elegante
va bene cambiati telefono che arriveremo con dieci minuti di ritardo
anche ora sei elegante ti prego non cambiare ancora d’abito dobbiamo partire
anche questo ti sta molto bene
sono passati venti minuti da quando ho chiamato per dire di un ritardo di dieci minuti ora basta chiamo che non ci andiamo perché ti senti male
siamo in macchina con il terzo vestito quello che le sta peggio
a cena un disastro
questo dice stupidaggini quell’altro mangia come un maiale questa quella quell’altro
va bene lasciali stare mica ce li dobbiamo portare a casa e poi scusa sono i miei clienti lo studio va avanti per loro
non dovevi dire questi sono ragionamenti stupidi all’ingegnere e poi al massimo erano ragionamenti che non condividevi.
Sono ragionamenti che non condivido ecco cosa dovevi dire ragionamenti che non condivido.
…e poi se devo essere sincero l’ingegnere aveva ragione non mi interessa che tu pensi che gente così non possa aver ragione l’ingegnere aveva ragione.
Sì sì buonanotte no domani non chiamare allo studio già l’idea mi dà i brividi.
Sono maleducato? Scusa verso le cinque va bene.

(Stelle nere)
/

Com’è la sua attività onirica?
Silenzio
Lei sogna?
Ma gli perdoni tutto al tuo analista perché il tuo analista lavora per darti futuro di volta in volta a mezz’ora per volta
perché tu stai attento a non dire le cose importanti nella seconda mezz’ora
ma sei contento perché le cose importanti hai imparato a dirle nella prima mezz’ora
paghi un’ora qualche telefonata e te ne vai così non vedi l’altro.
Ma tu quei soldi glieli hai dati volentieri
vuoi dargliene degli altri perché l’analisi funziona così
devi pagare volentieri
non so perché ma funziona così.
E io pago.
Volentieri.
Pago per vedere il mio passato che non volevo vedere.
A mezz’ora per volta.
(Domani ero)

/
Ho sognato il mio papà che uccideva sua moglie perché aveva trattato male i suoi figli. Subito dopo ci siamo rimessi a tavola e per la prima volta abbiamo mangiato tranquilli perché anche se uno faceva briciole beveva vino rovesciava qualcosa non mangiava proprio tutto quello che c’era nel piatto non doveva giustificarsi con nessuno non doveva scusarsi con nessuno non doveva pensare se non mangio tutto cosa devo dire.
Ma quando il pranzo è finito mia madre era sulla porta a comandare il resto della giornata.
Meglio così ho pensato
così il mio papà non deve andare in prigione.
Al risveglio ero sudato con gli occhi bagnati e le orecchie piene degli urli dei secondini che urlavano come mia madre.
….
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Ho sognato il mio cane prima della puntura per morire.
Ho rivisto i suoi occhi che mi guardavano prima del buio. -------------
Aveva sempre capito tutto e ora capiva che doveva morire.
Ho ucciso il mio cane per non farlo soffrire di un male che si mangiava le ossa così il mio cane non camminava più.
Poco male perché gli avrei portato da mangiare ma quel male non voleva solo le ossa si mangiava anche i salti del mio cane che non saltava più. Il dottore disse che era meglio così e fece la puntura al mio cane.
Quello sguardo è con me
Da dieci anni è con me.
Non voleva la puntura forse perché gli andava bene di vivere così.
Forse gli andava bene vivere.
Ma io avevo deciso la puntura perché non volevo continuare così.
Ho fatto bene? Non lo saprò mai.
Ma quello sguardo non mi lascia più //////////////////////////////Magritte 1948
da dieci anni non mi lascia più.
Bene, cosa ne pensa, che lettura da di questo sogno?
Lei non si accontentava delle ossa, si mangiava anche i salti che non saltavo più. Una notte mi dissi che era meglio così e feci la puntura al mio cane.
Devo andare a un convegno quindi ci vedremo fra tre forse quattro settimane. Magari con altri sogni.

(Domani ero)
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13.8.09

IN THE MOOD FOR LOVE

Titolo originale: 花樣年華 - I nostri gloriosi anni sono passati come fiore -
Regia: Wong Kar-Wai
Cast: Tony Leung, Maggie Cheung, -Hong Kong 2000


TRAMA

Un viaggio all'indietro nella Cina preindustriale degli anni '60, ancora in pieno degrado ambientale e legata agli insidiosi principi morali che suggeriscono per prima cosa il rispetto della facciata.
Lei, Su Li-zhen e Lui il sig. Chow, con i loro coniugi, si trasferiscono quasi contemporaneamente in due camere ammobiliate confinanti fra loro, prese in affitto in un modesto condominio di Hong Kong.
Lei e Lui s’incrociano spesso lungo i corridoi scrostati o per le scale buie, quasi sempre soli. I rispettivi coniugi, anche quando son lì, non vengono mai inquadrati, quasi a sottolineare la loro presenza-assenza.
Presenza desunta dal suono delle voci in campo, da vaghe ombre galleggianti nell’aria che da un certo punto in poi svaniscono del tutto .
Ormai l'assenza si è fatta costante per “ragioni di lavoro”.
Lei e Lui incominciano a frequentarsi. Riempiono la propria personale solitudine con la solitudine dell’altro e non tardano a scoprire di essere molto peggio che soli: sono anche traditi e beffa del destino pure in simultanea. Quando Lei finalmente nota che Lui porta una cravatta uguale a quella del marito, Lui s'accorge che Lei ha la stessa borsetta di sua moglie: ai loro reciproci coniugi è mancata la fantasia di scegliere per l’amante regali diversi da quelli fatti al consorte, dimostrando ciò nondimeno un forte senso di equità.


"Il film seduce e cattura per la verità dei mezzi toni con cui racconta le pene d'amor perdute, un passo a due sulle punte della solitudine. E così i due splendidi protagonisti mantengono l'ambiguità dei sensi, un desiderio impalpabile, come la stoffa stessa del film. Erede di Antonioni, Wong Kar-Wai simula un'attrazione fatale a tavolino e la rimpiange secondo l'etica della recherche proustiana, esprimendo l'invisibile delle emozioni con una cinepresa che sta al passo dei sentimenti e ci avvolge di calore". (Maurizio Porro, 'Il Corriere della Sera, 28 ottobre 2000)

In mancanza di nuovi film la stagione estiva ci ripropone i vecchi, il che può essere anche meglio, sotto un certo punto di vista.
Assolutamente meritevole di rivisitazione è questo film cinese del 2000 che già a tempo debito aveva ricevuto i giusti riconoscimenti al festival di Cannes.
Benché ormai reperibile in DVD, è stato riproposto in sala a Milano, a beneficio di quel pubblico dal palato fino che poco gradisce i prodotti attualmente sfornati dai grandi circuiti commerciali.
Non è un parafrasare snobistico l’ uso di termini meta-gastronomici: questo regista cult della nuova nouvelle vague cinematografica cinese pare sia arrivato a concepire questo film quasi per folgorazione, mentre si trovava alle prese con l'argomento cibo per un documentario.
Si potrebbe ipotizzare che cibo e amore abbiano creato un’inevitabile associazione d’idee nella mente del regista: non è infatti uno il nutrimento del corpo e l’altro quello dell’anima?
Il regista sembra metterli in antitesi fra loro.
Nel film al cibo viene data una valenza marginale; è per lo più un pasto d'asporto del take-away, confezionato in unti cartocci e miseri contenitori d'alluminio o preparato come rimedio ad anonimi malesseri in spettrali cucine casalinghe piene di vapori, spesso consumato in modo sbrigativo e scomodo, mentre il sentimento d’amore, considerato l' incantevole nutrimento di anime denutrite, viene lasciato sbocciare con i colori, i tempi e le fragranze del mandorlo a primavera.
Qui è l’amore ad essere concepito come il cibo raffinato che va servito sul piatto d’argento; l’invitante, irresistibile tentazione cui parrebbe impossibile poter dire di NO.
Eppure NO viene detto, perché qui l’amore è ripreso nella sua verticalità.
Non prevede scene orizzontali, niente grida e sudore in questo film in cui l'eleganza è protagonista in tutto. La passione si dispiega nella rinuncia e nell’inespresso, nel dramma dell'occasione perduta, perché non sempre, quando le occasioni capitano, ci si trova preparati ad accoglierle, non sempre è il momento giusto…
Ma non sarà proprio un amore sifatto, non agito, non consumato, a lasciare la propria impronta indelebile nella memoria di entrambi?
Il tono è intimo, sussurrato, velato di malinconia: l'ambientazione, volutamente umile, resta confinata in camere d’affitto stipate di oggetti, interni tetri e desolati di uffici e ristoranti, strade allagate di pioggia con facciate sgretolate di palazzi cadenti, anonime camere d'hotel e surreali corridoi che fanno da contenitore claustrofobico al disagio esperito e alle emozioni che si tenta sempre di non svelare .
Sentimenti trattenuti perché percepiti come inopportuni nella pena scatenata dal tradimento, ma che ugualmente si divincolano, affacciandosi in ogni sguardo, facendosi leggere nei gesti inutilmente controllati, nell’offerta silenziosa che essi fanno di sé e nella decisione che quest’offerta va respinta, per non diventare come coloro che del tradimento si sono macchiati.
Pur etichettato come romantico-sentimentale, questo non è un film d’amore.
E’ un film su un modo di vivere l’amore.
Ché di modi non ce n’è uno solo, come si crede. E nella scelta di non consumarlo si nasconde forse la formula della sua eternità. S
enza bisogno di condividere il concetto, il film è imperdibile.
Le dissolvenze in nero delle scene sembrano voler interrompere la tensione che nonostante tutto si accumula, frantumando il film in tessere che si confondono fra loro, annullando l’effetto tempo.
Ci accorgiamo che i giorni sono passati dagli abiti diversi che l’attrice indossa, con un’ eleganza che rapisce, la stessa che riesce a infondere alla propria gestualità.
La storia vibra in un clima di sospensione, cosicchè la vicenda matura principalmente nell'intimo stesso dello spettatore, che ne rimane coinvolto senza essere manovrato dalla regia.
Ah, che differenza stilistica da certi film americani che pilotano oscenamente il sentimentalismo del pubblico ignaro.
Questa è una storia che trova la sua massima espressione proprio nell’inespresso.
C’è tuttavia la musica che supplisce al dialogo e sembra raccontare da sola ciò che le parole non rivelano. Intermittenze di rumba lenta d'insospettabile fascino suggestivo
http://www.youtube.com/watch?v=bBmZ1pgYdcc s' infiltrano inprevedibili nella colonna sonora, in un'ondata di emozioni, prendendo di sorpresa lo spettatore immerso in atmosfere di profondo rosso-cina .
Ma la vera rivelazione è il main theme di Shigeru Umebayashi
http://www.youtube.com/watch?v=kXqAcmDtEXc con cui persino le volute di fumo delle sigarette del sig. Chow sembrano giocare a inanellarsi per seguirne le note con ritmo sinuoso.

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9.8.09

NUOVA BABILONIA?

Gentile Umberto Bossi,
Ho sentito al TG che è sua intenzione proporre l’insegnamento dei dialetti nelle scuole dell’obbligo.
Scusi la domanda che mi sorge ovvia: nulla togliendo alla bontà del concetto da lei espresso che i dialetti siano un patrimonio culturale che non deve andare perduto, non è che il suo progetto sia un tantino ambizioso considerato lo stato di défaillance in cui versa l'istruzione?
Mi sa che lei riponga troppe fiduciose aspettative sulle velleità intellettuali degli Italiani che già pare scalchignino in altre materie imprescindibili.. (scusi il dialettismo).
Non sarebbe augurabile innanzi tutto una perfetta padronanza della lingua madre di cui ancora la maggioranza difetta?
Non sarebbe il caso di rendere facoltativo lo studio del dialetto riservandolo a chi abbia preventivamente superato l’esame di grammatica, sintassi e analisi logica della lingua italica e mostrasse interessi concreti per la filologia?
Perché sprecar soldi per nuove orecchie d’asino?
L’ultima che ho sentito è di oggi 9 agosto 2009 da un “giornalista” del TG5: “le partenze hanno spopolato le città, rendendole UN PO’ PIU’ DIVERSE.” (SIC)
Consiglierei per il bene della Patria che la lettura di notiziari e servizi correlati venga affidata esclusivamente a coloro che abbiano prima superato il predetto esame, nonché frequentato, con buon esito, adeguate scuole di dizione della nostra lingua madre.
Ci sono stranieri che parlano l’italiano più correttamente di certi nostri giornalisti e inviati, i quali in molti casi non hanno che da limitarsi a leggere, senza peraltro riuscire a farlo in modo ineccepibile!
Perché non offrire borse di studio a chi desideri applicarsi con amore e serietà al recupero dei dialetti senza abbassare la discussione a livello di partigianismo?
Scusi l’arroganza, ma in Italia c’è già una bella baraonda di inflessioni, accenti e sgrammaticature.
Cosa succederà aggiungendo allo studio dell'Italiano ed eventuali lingue estere anche l’insegnamento dei dialetti?
La confusione dei linguaggi non fu ideata proprio da Dio come castigo agli uomini per farli ripiombare nell’arretratezza?
Il Maestro Perboni di deamicisiana memoria, con tutte le care vecchie maestre che ai loro tempi si erano dissanguate e sgolate per italianizzare il linguaggio dei nostri bisavoli, non si staranno adesso rigirando nella tomba? ..
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Grazie dell'attenzione.
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P.S. A proposito, che fine ha fatto l’Esperanto?
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----------------------------------------------------Pieter Bruegel- 1563
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2.8.09

A CORFU' TUTTO PUO' SUCCEDERE


ovvero
LA MIA FAMIGLIA E ALTRI ANIMALI

di Gerald Durrell (1935-1995)
Adelphi Edizioni 2008
Titolo originale: My family and other animals 1956
Traduzione di
Adriana Motti




Gerald Durrell era nato in India nel 1925, ultimo di quattro figli di una famiglia di origini britanniche ma, in seguito alla morte improvvisa del padre ingegnere, nel 1928 era tornato a Londra dove vi aveva trascorso i primi anni della sua infanzia.
Questo libro spassoso e accattivante, considerato formativo per gli adolescenti ma sicuramente apprezzabile anche da lettori adulti esigenti, racconta delle fortunate contingenze che hanno consentito al giovane Gerry Durrell, divenuto in seguito naturalista e romanziere di larga fama, di abbandonare la grigia e piovosa Inghilterra nel 1935 per approdare con la madre, i fratelli e la sorella Margo, nella mitica e assolata Corfù, dove passò i cinque anni più felici della sua spensierata adolescenza.
Fanno da cornice i panorami mozzafiato dell’isola greca, orlata di spiagge vellutate e scogliere bianchissime che si specchiano nel blu profondo dello Ionio, ondeggiante di argentei oliveti, solcata da sentieri pietrosi che s’inerpicano per colline verdeggianti, decorate di vigneti e orti recintati da muretti a secco.
Superato l’iniziale scoramento procurato dall’impatto con le differenze culturali, la famiglia si mette alla ricerca di un’abitazione che tenga conto delle esigenze personali di ognuno, manco a farlo apposta abbastanza dissimili fra loro, nonché quella assolutamente indispensabile di essere dotata di una salle de bain, esigenza inconcepibile per un Greco di quell’epoca, che non riusciva ad immaginarsi che uso poter fare di una stanza da bagno, essendoci già il mare a disposizione.
Dopo infinite discussioni, sistemati in una bella villa affacciata sullo Ionio, dove ciascun membro ha finalmente preso possesso dei suoi spazi non senza aver dato vita a vere e proprie comiche, eccoli iniziare una complicata convivenza che Gerry non trascura di descriverci nei suoi dettagli più esilaranti. La vita acquista un po’ per volta i suoi ritmi regolari nel continuo andirivieni di uno zelante vicinato, desideroso di contribuire a suo modo alla costruzione dell’insediamento e dare una mano ai poveri inesperti Inglesi, ancora ignari delle usanze isolane. Prende così il via un carosello di persone che vanno e vengono ad ogni ora senza chiedere permesso: la domestica afflitta da ogni genere di acciacco e fissazione, il medico condotto, contadine folcloristicamente agghindate che portano ogni genere di prodotti; il simpatico Spiro che, col suo inglese maccheronico, ha accompagnato la mamma nelle ricerche della casa, scorazzandola in lungo e in largo per l’isola sul suo taxi scassato. Affascinato dai candidi modi della signora inglese, ma ritenendola un po’ sprovveduta, si erge a suo difensore contro immaginari nemici appostati ovunque, invadendone la privacy per potersi occupare della complessa gestione familiare come un parente acquisito.
Intanto gli istitutori occasionali di Gerry, studente recalcitrante ad applicarsi in qualsiasi materia che non tratti di scienze naturali, si rivelano piuttosto di manica larga e incapaci di domare la sua costituzionale indisciplina, finendo così per assecondare la sua ignoranza e suscitare la preoccupazione di tutta la famiglia. Fatto di cui comunque il giovane Durrell non riesce proprio a capacitarsi.
Già non avesse il suo bel daffare con l' esplorazione del vasto territorio circostante e gli estenuanti appostamenti per riuscire a sorprendere, stanare e catturare sempre nuovi pupilli, portarseli a casa e allestire nelle stanze o in giardino gli appositi spazi per l’accoglienza delle creature; non di rado fra gli strilli terrorizzati e il raccapriccio dei parenti nel ritrovarseli inaspettatamente fra i piedi, magari immersi nella vasca da bagno.
Per non parlare poi dello zoo dei piccoli e grandi animali già raccattati che va sorvegliato e accudito quotidianamente; mansione a cui Gerry si dedica con diligenza assoluta, sotto l’occhio paziente del buon cane Roger, che accetta con filosofia l’obbligo di fare amicizia con le bestiole adottate, siano esse tartarughe, bisce, gufi, o il geco Geronimo che ha preso residenza nella camera del padrone.
E’ così dunque che, fra imprevisti, disastri vari, arrabbiature, traslochi e feste, Gerry ara il terreno del suo prossimo futuro di zoologo nonchè fondatore della Wildlife Conservation Trust, istituzione creata per la salvaguardia delle specie in via d’estinzione tuttora alacremente attiva in Inghilterra.
Durrell relaziona il lettore sulle sue esperienze naturalistiche con entusiasmo comunicativo, assicurandosene la simpatia con un piacevole linguaggio colloquiale, mettendo gli accenti sulle caratteristiche antropomorfe di ciascuna specie, si tratti di scorpioni, pipistrelli, o mantidi religiose, mescolando con umorismo raffinato e intelligente le sue notizie scientifiche alle esilaranti descrizioni del circo casalingo messo in scena dal suo squinternato parentado.
Dietro questa apparente anomalia familiare non manca però la genialità; a cominciare dal fratello maggiore Larry, divenuto poi illustre poeta e letterato, di cui il fratellino si diverte a parodiare lo snobismo culturale, la mancanza di praticità e le fisse maniacali. Strategico invece l’atteggiamento arrendevole e democratico della mamma che, desiderosa soprattutto di agevolare le inclinazioni naturali dei figli, simula una fermezza di cui è totalmente priva, meritandosi se non proprio la loro obbedienza, almeno il loro affetto e la solidarietà incondizionata degli isolani.
La narrazione è intarsiata di note biografiche che, a riprova della loro autenticità, vengono rintracciate anche nelle testimonianze di altri scrittori. Ne “Il Colosso di Marussi”, di cui si è già parlato precedentemente, l’autore americano Henry Miller racconta come nel 1939, durante un suo viaggio in Grecia, si sia trovato a soggiornare sull’isola di Corfù, ospite proprio della famiglia Durrell, e vi descrive la personalità originale del fratello maggiore Larry a cui rimase legato da profonda stima anche negli anni a seguire, quando, rientrato negli Stati Uniti, mantenne a lungo con lui un’erudita corrispondenza.
E’ questo un romanzo incantevole, dal linguaggio raffinato e variegato di elegante umorismo,
inspiegabilmente poco conosciuto fuori patria, ma raccomandabile al grande pubblico in cerca di prodotti sofisticati, che ne trarrà piacere e arricchimento dalla prima all’ultima pagina.
Da segnalare una volta di più l’ottima traduzione della straordinaria Adriana Motti, insuperabile nel compito non sempre facile di interpretare senza sbavature l’intenzione ironica degli autori.

/

///C’era un geco che aveva prescelto come territorio la mia camera da letto, e io finii col conoscerlo molto bene e lo battezzai Geronimo, perché i suoi assalti contro gli insetti sembravano astuti e ben studiati, come tutte le imprese compiute da quel famoso pellerossa. Geronimo sembrava più in gamba di tutti gli altri gechi. Tanto per cominciare viveva solo, sotto a una grossa pietra nell’aiuola di zinnie ai piedi della mia finestra e vicino alla sua casa non tollerava altri gechi; quanto a questo, ad un geco estraneo non avrebbe nemmeno consentito di entrare nella mia camera.
Si svegliava più presto degli altri suoi simili, zampettava su per il precipizio di bianco intonaco scaglioso, finché non raggiungeva la finestra della mia camera e giunto là faceva capolino oltre il davanzale, guardandosi curiosamente intorno e muovendo la testa su e giù due o tre volte, non sono mai riuscito a capire se per salutarmi o perché era soddisfatto di trovare la stanza come l’aveva lasciata.
Se ne restava sul davanzale con la gola palpitante finché non faceva buio e non veniva portata una lampada; e in quella luce dorata sembrava che cambiasse colore, passando da un grigio cenere ad un pallido traslucido color perla rosato che metteva in risalto il nitido disegno a pelle d’oca delle sue squame. Con gli occhi luccicanti di gioia zampettava lungo il muro sino al suo posto preferito, l’angolo esterno a sinistra del soffitto e lì restava attaccato a testa in giù in attesa che comparisse il suo pasto serale.
Aveva una vista incredibilmente acuta perché più volte lo vidi sbirciare una minuscola falena dall’altra parte della stanza e fare tutto il giro del soffitto per arrivare abbastanza vicino da riuscire a catturarla.
Il suo atteggiamento verso i rivali che cercavano di invadere il suo territorio era molto esplicito. Non appena quelli si issavano sul bordo del davanzale e si fermavano un attimo per riposarsi dopo la lunga arrampicata, subito si sentiva un trepestio e Geronimo attraversava il soffitto come un fulmine, si precipitava giù lungo la parete e atterrava con un leggero tonfo sul davanzale.
Prima che l’intruso potesse fare un solo gesto, Geronimo gli era addosso. Il particolare curioso era che lui non assaliva il nemico alla testa o al corpo, come tutti gli altri gechi. Puntava diritto alla coda dell’avversario, e afferrandola con la bocca, a due millimetri circa dalla punta, ci si attaccava come un bulldog e la scrollava di qua e di là. L’intruso, snervato da questo vile e insolito sistema di attacco, ricorreva immediatamente al venerando stratagemma difensivo delle lucertole: mollava la coda e fuggiva a tutta velocità, oltre il bordo del davanzale e giù lungo il muro verso l’aiuola di zinnie. Geronimo, ansando un poco per lo sforzo, restava trionfante sul davanzale, con la coda del nemico che gli pendeva dalla bocca e sferzava l’aria come un serpente. Accertandosi che il rivale se ne fosse andato, Geronimo si metteva comodo e cominciava a mangiarsi la coda, un’abitudine disgustosa, che io disapprovavo con tutta l’anima. Ma evidentemente era il suo modo di festeggiare la vittoria, e lui non era del tutto felice finché la coda non si trovava al sicuro nel suo stomaco prominente.


///Su Margo la primavera aveva sempre un effetto deleterio. In quella stagione il suo interesse per il proprio aspetto estetico, sempre molto accentuato, diventava quasi ossessivo. Pile di vestiti appena lavati e stirati ingombravano la sua stanza, mentre le corde del bucato si piegavano sotto il peso di quelli stesi ad asciugare. Coglieva tutte le occasioni per precipitarsi nella stanza da bagno in un turbine di candidi asciugamani, e una volta dentro era riluttante a uscirne, come una patella a lasciare il suo scoglio. Tutti noi a turno bussavamo alla porta protestando a gran voce, ottenendo soltanto la vaga assicurazione che aveva quasi finito, assicurazione alla quale un’amara esperienza ci aveva insegnato a non credere. Finalmente luminosa e immacolata, usciva dal bagno e se ne andava canticchiando a prendere il sole negli uliveti, o giù al mare a farsi una nuotata. E proprio durante una di queste escursioni al mare conobbe un giovane turco eccezionalmente bello. Con insolita modestia non parlò con nessuno dei suoi frequenti incontri balneari con questo impareggiabile cavaliere, convinta come ci disse più tardi, che la cosa non ci avrebbe interessati.
Naturalmente fu Spiro a scoprire tutto. Vegliava sulla felicità di Margo con la zelante premura di un San Bernardo e lei poteva fare ben poco senza che Spiro lo sapesse.
Una mattina lui bloccò mamma in cucina, si guardò furtivamente intorno per accertarsi che nessuno ascoltasse, sospirò profondamente e le diede la notizia.
“Sono molto dispiaciuto dover dire questo, signora Durrell – borbottò – ma penso che lei devi sapere.”
Mamma ormai si era abituata all’aria cospirativa di Spiro quando veniva a darle qualche informazione sulla sua figliolanza, e non se ne preoccupava più.
“Che cosa c’è stavolta, Spiro?” domandò.
“E’ la signorina Margo” disse Spiro afflitto.
“Che cosa ha fatto?”
Spiro si guardò intorno a disagio.
“Sai che lei incontra un uomo?” domandò in un vibrante sussurro.
“Un uomo?? Oh …ehm…sì, lo sapevo” mentì mamma arditamente.
Spiro si tirò i pantaloni sulla pancia e si protese verso di lei.
“Ma lei sapevi che è un turco?” domandò con accento di agghiacciante ferocia.
“Un turco? "disse mamma in tono vago. "No non sapevo che era un turco. Che c’è di male?”
Spiro prese un’aria scandalizzata.
“Che c’è di male? Ma signora Durrell! E’
turco. Io non mi fiderei di un figliodiputtana turco con nessune ragazze. Le taglia la gola, ecco che fa. Dico davvero signora Durrell, non è sicuro che la signorina Margo nuota con lui.”
“D’accordo, Spiro.” disse dolcemente mamma “ne parlerò con Margo.”
“Io solo penso che lei devi saperlo, ecco tutto. Ma non si preoccupa…se lui fa qualche cosa a signorina Margo, io sistemo il bastardo.”

.....

///Non passò molto ed ebbi la sgradita notizia che mi era stato trovato un altro insegnante. Stavolta si trattava di un certo signor Kralevsky, un individuo che discendeva da una complessa mescolanza di nazionalità, ma che era prevalentemente inglese.
La famiglia mi informò che era un uomo molto simpatico e che per giunta si interessava agli uccelli, sicchè saremmo andati d’accordo.
Io comunque non mi lasciai affatto impressionare da questo particolare: avevo conosciuto un sacco di persone che dichiaravano di interessarsi agli uccelli e che poi si erano rivelate dei perfetti ciarlatani che non sapevano come fosse fatta un’upupa, o non sapevano distinguere un codirosso da un tordo comune.
Ero certo che la famiglia avesse escogitato quest’insegnante appassionato di uccelli nel semplice tentativo di farmi soffrire meno all’idea di dovermi rimettere a studiare. Ero sicuro di scoprire che la sua fama di ornitologo era dovuta al fatto che a quattordici anni aveva avuto in casa un canarino. Quindi mi recai in città per la mia prima lezione nel più tetro degli stati d’animo.
......
(Gerald Durrell)
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