Qui non mi trovate,
io qui non ci sono.
Sto nella stanza accanto
dove non c'è nessuno.

29.4.10

Scoperta una buona ragione per sposarsi:


SONO I SINGLE I PIU' TARTASSATI
DAL FISCO ITALIANO

non lamentiamoci, il rimedio esiste:

basta avere  fede.




26.4.10

PER FARE UN PRATO



Per fare un prato basta
un trifoglio, un'ape...
*
Un trifoglio, un'ape e un sogno.
**
Può bastare il sogno,
se le api sono poche.
***
Emily Dickinson








image by E. Pasquinelli.

25.4.10

CASA NOSTRA PIU' PERICOLOSA DI COSA NOSTRA!




MA PERCHE' CI FINGIAMO SORPRESI E CONTINUIAMO A DIRE CHE SEMBRAVANO FAMIGLIE MODELLO, GENTE NORMALISSIMA.
CHE COSA DEFINISCE LA NORMALITA' ?
CI POSSIAMO RITENERE NORMALI QUANDO SIAMO TUTTI CIECHI E SORDI,
CHIUSI IN UN'INDIFFERENZA CHE NON CI LASCIA ACCORGERE DEL DISAGIO DI CHI CI STA ACCANTO?.


.

24.4.10

.
.

Se avessi il drappo ricamato
del cielo,
intessuto dell’oro e dell’argento
e della luce,
i drappi dai colori chiari e scuri del giorno
e della notte,
dai mezzi colori dell’alba
e del tramonto,
stenderei quei drappi sotto
i tuoi piedi.
E invece, essendo povero,
ho soltanto sogni;
e i miei sogni ho steso sotto
i tuoi piedi.
Cammina leggera perché
cammini sui miei sogni.

Yeats
Anselm Kiefer........................

23.4.10

GIORNATA DEL LIBRO




















                


un libro ci rilassaci diverte
e ci apre una finestra sul mondo   



immagine:
M.C.Escher
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16.4.10

Primavera









Conosco una città                                            
dove la primavera
arriva e se ne va
senza trovare un albero
da rinverdire,
un ramo da far fiorire
di rosa o di lillà.
Per quelle strade
murate come prigioni
la poveretta s'aggira
con le migliori intenzioni:
appende un po' di verde
ai fili dei tram,ai lampioni,
sparge dei fiori
davanti ai portoni
e dopo un momentino
se li riprende il netturbino.


Altro da fare
non le rimane
per settimane e settimane,
che dirigere il traffico
delle rondini in alto,
dove quella povera gente
non le vede e non le sente.
Di verde in quella città
(dirvi il suo nome non posso)
ci son solo i semafori
quando non segnano rosso.
(G.Rodari)

immagine digiart by Nazario Melchionde
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11.4.10

IL TEMPO DI EGON SCHIELE

EGON SCHIELE e il suo tempo
milano - Palazzo Reale
fino al 6 giugno 2010
Egon Schiele giuge a Vienna nel 1906, da un remoto paesino dell’Austria, e ottiene senza fatica l' ammissione all’Accademia. Rimane intanto folgorato dalla pittura di Klimt e dal carisma dell’artista stesso, già eroe del Secessionismo viennese. La pittura klimtiana era in piena sintonia con la letteratura della giovane Vienna e con le ricerche di Sigmund Freud: la pressione della sessualità, che covava sotto la superficie lustra della morale vittoriana, e le forze dell’inconscio che rendono le azioni umane non pienamente controllabili, avevano sgretolato la concezione granitica dell’Io dominato dalla razionalità ed erano gli elementi più discussi dell’epoca. Sono di questo periodo “I turbamenti del giovane Torless” di Musil e “Sesso e Carattere” di Weininger. Nel frattempo di Freud erano già stati pubblicati gli “Studi sull’isteria” e “L’interpretazione dei sogni”.

Schiele entra però presto in polemica con gli insegnamenti dell’Accademia, da cui si staccherà definitivamente nel 1909, alla ricerca di un' espressione propria in cui subito risaltano gli elementi di un suo personale turbamento.

Klimt non resta indifferente al talento mostrato dall’esordiente, presentandolo a raffinati laboratori di artigianato artistico e a mecenati che gli offrono la prima possibilità di esporre al pubblico e attraverso critiche positive contribuiscono alla sua mitizzazione.

Personalità straordinaria da ogni punto di vista, d’una irregolarità così pronunciata, che la sua sola presenza poteva risultare ansiogena…. la rara bellezza del giovane Schiele spiccava nei lineamenti sofferti, fissi in un’espressione seria, rammaricata, apparentemente afflitta da qualche preoccupazione oscura.

Riuniva in sé elementi contrastanti: carismatico e solitario, arrogante e introspettivo, certamente esibizionista: ne sono prova le fotografie che lo mostrano in pose studiate e le decine di autoritratti in cui si effigia in atteggiamenti eccentrici, spesso nudo. La nudità ha un doppio significato: affermazione della propria sessualità ma anche esposizione dell’anima.
In un emblematico disegno del 1911 Schiele si raffigura nell’atto di masturbarsi, ma l’espressione del volto, scavato, livido, con le occhiaie pronunciate, nulla ha a che vedere con il piacere; al contrario l’artista sembra autoinfliggersi una punizione, ubbidendo ad un ordine estraneo e assoggettandosi ad una volontà che non sembra nemmeno essere la propria.
L'artista introduce una tensione erotica esistenziale e psicologica per diffondere un messaggio di critica sociale contro la falsità borghese. Più che una liberazione dal sè, quest'arte attesta un conflitto all'interno del soggetto individuale nei confronti delle sue discusse autorità, l' accademia e lo stato.
Su una superficie ruvida e scabra, Schiele mostra senza falsi pudori, un erotismo scevro di moralismi e senza gioia, dove protagoniste sono fanciulle dal volto infantile e dall'atteggiamento deliberatamente impudico, donne dominate da una sessualità disinibita e urlata nel silenzio della loro anima. Guardandosi intorno, Schiele non può che rimanere affascinato da Van Gogh e con il suo personalissimo carisma cromatico, pesante e deciso, gli rende omaggio con La Stanza in Neulengbach, che si ispira alla Stanza gialla. Reinterpreta anche i Girasoli, in versione sfiorita, dove i petali perdono consistenza e acquistano la decadente tragica forza del vero.

Schiele sonda, nelle figure angosciate prive di riferimento storico e contesto sociale, le "pulsioni represse"; nudi asciutti e taglienti; donne intense, altere, sicure di sè; ritratti ed autoritratti di un profondo spessore psicologico. Coppie avvinte in erotici abbracci senza amore: egli indaga il voyeurismo e l' esibizionismo, una coppia freudiana di piaceri perversi. Spesso, nelle sue opere, fissa così intensamente lo specchio, - noi- che la differenza tra il suo sguardo e il nostro minaccia di dissolversi ed egli sembra diventare l'unico osservatore, il solitario voyeur della propria esibizione.
Ma per lo più non sembra tanto provocatoriamente orgoglioso della propria immagine, quanto piuttosto pateticamente esposto nel suo stato rovinoso. Ormai esaurita la sua funzione di ideale classico (il nudo accademico) e di tipo sociale (il ritratto di genere), la figura diventa quasi una cifra di disturbo psicosessuale.

Schiele viene influenzato dal linguaggio prezioso e raffinato di Gustav Klimt, ma la sua pittura è un viaggio nell'introspezione psicologica. In rossi sanguinei, bruni tenebrosi, pallidi gialli e lugubri neri egli tenta di dipingere il pathos direttamente in paesaggi malinconici, con alberi avvizziti, così come in disperate immagini di madri e figli addolorati.
I suoi sono segni che mettono a nudo l'inconscio, assumendo una profondità dai contorni emozionali molto più marcati. Sono segni che, caratterizzati da una linea nervosa, quasi nevrastenica, prendono corpo sulla tela in una dissonanza armonica che nega l'estetica e rompe gli schemi tradizionali. L'Io dell'artista emerge, contorce la materia e si ferma nello sguardo allucinato e nelle mani contorte. Mani dove le linee sembrano denunciare il dolore, la sofferenza, la malinconia di un'anima alla deriva. Schiele descrive i meandri della sua mente, il cupo tormento e il trauma angosciante per la perdita prematura del padre, morto di sifilide.
 Un evento, questo, che segna in modo indelebile anche il suo rapporto con le donne e con l'erotismo.
Compaiono sulle tele corpi femminili terribilmente provocanti, in pose, spesso assurde, verticali per confondere la spazialità.

Nella fase finale della sua vita il tratto si fa più nervoso raggiunge la massima libertà espressiva realizzando molti paesaggi soprattutto delle cittadine di Krumau e Neulengbach. Lavori in cui e sempre presente un costante senso drammatico e una visione della realtà sofferta e meditata.

L'arte di Schiele ci consente, quindi, di perderci nell'infinito esistenziale e ritrovarci a tu per tu con il senso della vita, che sfugge a ogni ordine e si ferma nel magma emozionale di una macchia di colore. Schiele muore di spagnola nel 1918 poco dopo Klimt e la sua giovane moglie uccisa dalla stessa epidemia.
.
fonti:
-Federica Armiraglio - Schiele
skirà editore 
-Wikipedia

LA VIENNA DEL '900

Alla fine dell’ottocento, con il Secessionismo, anche Vienna iniziò a rompere definitivamente con le regole artistiche ispirate al classicismo che ancora  imperversavano in tutto il regno austro-ungarico, controllato dalla figura ingombrante del Kaiser Guglielmo II, personaggio manifestamente dogmatico ed ego-riferito,   conservatore anche nelle preferenze stilistiche.


Per sua ingerenza, l’arte a Vienna agli inizi del '900 è tuttora formalmente regolata dalle istituzioni ufficiali quali l’Accademia e dalle convenzioni artistiche ancora attribuite a soggetti storici e letterari come unici degni di essere esposti al pubblico.

Sulle tracce dell’olandese Van Gogh, l’esigenza di spezzare le catene con l'antico si fa sempre più forte e non solo segnatamente alle arti figurative.

Il panorama culturale sta riscrivendo i propri orizzonti: provocazione e eccesso, voluttà e lussuria, follia e angoscia rodono dal fondo delle anime per potersi esprimere.

Sono le tremende forze sotterranee che esplodono nell’ambito della nuova generazione “prussiana”. Nuove personalità, prima inconcepibili, assurgono alla realtà viennese del 1910.

Il desiderio di immergersi nella profondità della psiche fa eco agli studi avviati da Sigmund Freud sui sogni, sul sé e l’inconscio e  alle sue scoperte sui processi mentali di rimozione.
Nel tentativo di dare espressione a questi aspetti psichici repressi, arte, musica, teatro e danza tendono a porre l'enfasi su ciò che è privo di regole, violento, estatico e finanche demoniaco.
L’arte diventa un’esperienza mediatrice, una ricerca di comunicazione intima che, per essere realizzata, come in un rapporto d’amore, si rende indispensabile la presenza di due individui: l’artista e l’interlocutore da risvegliare.

Ecco quindi affacciarsi i nomi di Schonberg, pittore e compositore dalle pulsioni profonde, Karl Kraus, giornalista e critico satirico, Klimt, raccontatore di sogni, avvolto nei suoi caffettani orientali, e guru della nuova espressione visivo/cromatica; Wagner e Hoffmann che tracciarono le nuove strade dell’architettura, Kokoschka e Schiele che, con le loro visioni tragiche, gettano ora le fondamenta dell’espressionismo tedesco.

Fra queste nuove forze, fu quella propulsiva di Egon Schiele, a dare la spallata decisiva all’establishment conservatore e perbenista dell’epoca, pagando poi di persona l’oltraggio arrecato con la propria audacia.

immagini:
Vienna 1900
manifesto
locandina 1914
Casa Alt-Hoffmann 1911
Egon Schiele 1914
/

10.4.10

AGNUS (DEI)

Agnus - foto ricordo

Agnus Dei
Francisco de Zurbaran 1635


http://www.youtube.com/watch?v=KkObnNQCMtM

Samuel Barbers
Choral version of Agnus Dei
Adagio for strings
by The Choir of Trinity College,Cambridge,UK
Directed by Richard Marlow


L'ISOLA DI ARTURO

Ho sempre desiderato essere un ragazzo. Tante volte, ancora adesso, chiudo gli occhi e fingo di esserlo. Allora tutta la prospettiva che ho del mondo cambia.
Perché il mio ragazzo è uno di quei meravigliosi “guaglioni” che s’incontrano solo a Napoli, o nelle isole del golfo, là dove la natura è rimasta intatta e selvaggia.
Moravia? Non c’entra con quello che faccio io. E poi, perché la gente vuole trovare sempre un’influenza sua su di me, e mai viceversa?

Elsa Morante da un' intervista di Giuseppe Grieco



                   I soli abitanti dell’isola che sembravano non suscitare il disprezzo e l’antipatia di mio padre erano gli invisibili, innominati reclusi del Penitenziario. Anzi, certi suoi modi romantici e maledetti potevano lasciarmi supporre che una specie di fratellanza, o di omertà, lo legasse non soltanto a loro, ma a tutti gli ergastolani e carcerati della terra. E anch’io, si capisce, parteggiavo per loro, non soltanto per imitazione di mio padre, ma per una mia naturale inclinazione, che mi faceva apparire la prigione una mostruosità ingiusta, assurda come la morte.

La cittadella del Penitenziario mi sembrava una specie di feudo lugubre e sacro: dunque vietato, e non ricordo mai, per tutta la mia infanzia e fanciullezza, di esservi entrato da solo. Certe volte, quasi affascinato, iniziavo la salita che conduce lassù, e poi, appena vedevo apparire quelle porte, fuggivo.

Durante le passeggiate con mio padre, ricordo di avere, in quei tempi, forse una volta o due, oltrepassato insieme a lui le porte della cittadella e percorso i suoi quartieri solitari. E nel ricordo della mia infanzia, queste rare escursioni sono rimaste come le traversate d’una regione assai lontana dalla mia isola.
Al seguito di mio padre io sogguardavo, dal largo stradale deserto, verso quelle finestre a bocca di lupo, intravedevo, dietro la grata dell’infermeria, il luttuoso colore bianco d’una divisa di condannato…e subito ne ritorcevo lo sguardo. La curiosità, o anche solo l’interesse, delle persone libere e felici, mi pareva insultante per i prigionieri. Il sole su quelle strade mi pareva un’offesa, e i galletti che cantavano sui terrazzi delle casupole, le palombe che tubavano lungo i cornicioni, m’irritavano lassù, per la loro indiscreta petulanza.
Solo la libertà di mio padre non mi sembrava offensiva, ma al contrario rassicurante, come una certezza di felicità, l’unica, su quella altura triste. Col suo grazioso passo rapido, un poco oscillante come il passo dei marinai, nella sua camicia celeste che si gonfiava al vento, egli mi pareva il messaggero di un’avventura vittoriosa, d’un incantevole potere.
Nel profondo dei miei sentimenti ero quasi convinto che solo per un suo misterioso disdegno, o spensieratezza, egli non si risolvesse ad esercitare tutta la sua volontà eroica, abbattendo le porte del Penitenziario e liberando i carcerati.
Veramente io non potevo immaginare limiti al suo dominio. Se avessi creduto ai miracoli, certo lo avrei stimato capace di farne. Ma, secondo quanto ho già fatto sapere, non credevo ai miracoli, né alle potenze occulte, alle quali certuni affidano il proprio destino, come le pastorelle lo affidano alle streghe, o alle fate!

*** *** ***
                    E quando poi, andato via il medico, mi trovai solo con quel morto, provai una scossa di nervi terribile e mi misi a singhiozzare. Il pianto m' infuriava, e insultavo il morto chiamandolo vigliacco, buffone, schifoso, perché era morto senza neanche salutarmi. Questa mi pareva la peggior cosa, e la più inaccettabile: non so quale importanza, unica, fatale, io davo a quel saluto.
E m’arrabbiavo, ripensando a tutte le volte che, pur senza avere nient’altro di speciale che mi occupasse, apposta, per un’insofferenza del mio carattere, o per fare una bravata, avevo lasciato l’Amalfitano qua solo, ad aspettare inutilmente la mia visita, per giornate intere! In realtà avevo fatto benissimo: è meglio non viziare troppo il prossimo, e mandarlo ogni tanto all’inferno, altrimenti sarebbe la fine! La nostra vita andrebbe avanti pesantemente, come un barcone carico di zavorra, e ci porterebbe a fondo, a morire asfissiati…Ma in quel momento là i miei nervi non volevano conoscere ragioni: e tutte le ore e giornate che avevo trascorso a girare lontano da casa dell’Amalfitano, per fare il difficile e farlo sospirare, mi parevano addirittura dei tesori, sperperati senza nessuna soddisfazione mia!


Adesso mi sembrava che niente, nessuna persona valesse la pena di spenderci il proprio tempo a paragone di Romeo l’Amalfitano; e mi sentivo convinto e sicuro che non avrei mai più potuto incontrare un essere altrettanto meraviglioso, affascinante: un essere altrettanto bello. Se mi avessero presentato in quel momento la regina di Saba, il dio Marte in persona o la dea Venere, li avrei considerati dei tipi volgari, bellezze da caffè o da cartolina, in confronto a lui! Chi altri possedeva quel sorriso un po’ febbrile, furbesco e delicato, quelle mani piccole che gesticolavano ad ogni parola, soprattutto quando raccontava fandonie! E quegli occhi che l’adornavano della sua grazia più terribile: perché erano offesi! E la loro espressione pareva uno sguardo sperduto, senz’anima, senza giudizio, diverso dagli sguardi umani.


E quei modi che aveva! Indifesi, incerti e vergognosi perché si vergognava aspramente della sua cecità, ma pure festosi, inguaribilmente festosi! La grazia dei più bei danzatori, o degli angeli, non valeva niente era di un genere inferiore, a confronto della sua! E la sua grazia, la sua eleganza adesso aumentavano la disperazione mia! Cieco maledetto, idiota! Io, se per caso davvero esisteva l’inferno, gli auguravo a quest’ora di esserci già arrivato!


Pensare che la sua compagnia fino ad ieri certa e fedele e alla mia dipendenza adesso era diventata un’impossibilità!
Questo pensiero disperato m’imbestialiva tanto che mi buttai in terra, piangendo e mordendo i ferri del suo letto. Chiamavo Amalfi! Amalfi! E mi ricordavo dei dispetti che gli avevo fatto in vita. Mi pentivo, ma al tempo stesso mi tornava quasi da ridere, al ricordo, per esempio, di certe volte che, mentre lui discorreva e mi raccontava a gran gesti i suoi sogni, d’un tratto mi allontanavo senza rumore, e andavo a nascondermi in qualche angolo, fingendo di sparire come la nebbia.. dopo un poco egli avvertiva la mia assenza e si dava a chiamarmi e a cercarmi per le stanze, a tentoni, puntando il suo bastone sui muri. E i cani aizzati dai miei cenni, invece di aiutarlo gli facevano intorno un chiasso inconcludente, come se anche loro, insieme a me si divertissero a farlo stranire.

E adesso era lui che mi lasciava chiamare senza rispondere. Se si fosse risvegliato, almeno solo per un’ora, avrebbe udito da me cose meravigliose, tutte verità senza l’ombra di una bugia, e avrebbe avuto ragione di pavoneggiarsi! Lui non sentiva né vedeva più nessuno, fino alla fine dell’eternità, e io lo sapevo. Ma pure, ad ogni costo, dovevo dargli una prova, un pegno che salvasse la nostra amicizia dalla morte.

*** *** ***
                  Nella sua fotografia istantanea, che è l'unica immagine a me nota di lei, mia madre non appare più bella delle altre donne. Ma da ragazzino, io dinanzi a quel suo ritratto che guardavo e rimiravo, non m’ero mai domandato se fosse brutta o bella, e nemmeno pensavo di paragonarla alle altre. Era mia madre! E non so più dire quante cose incantevoli significasse per me, a quel tempo, la sua maternità perduta.
 
Facendo un’eccezione per quella, nulla, nell’oscuro popolo delle donne, mi pareva importante; e non m’interessava molto d’indagare i loro misteri. Tutte le grandi azioni che m’affascinavano sui libri erano compiute da uomini, mai da donne. L’avventura, la guerra, la gloria erano privilegi virili. Le donne invece erano l’amore; e nei libri si raccontava di persone femminili regali e stupende. Ma io sospettavo che simili donne, e anche quel meraviglioso sentimento dell’amore, fossero soltanto un’invenzione dei libri, non una realtà. L’eroe perfetto esisteva davvero, io ne vedevo la riprova in mio padre; ma di donne splendenti, sovrane dell’amore, come quelle dei libri, io non ne conoscevo nessuna.
L’amore dunque, la passione, questo famoso grande fuoco, era forse un’impossibilità fantastica. Per quanto, di fatto, io fossi ignorante sul conto delle donne reali, mi bastava di intravederle appena per concludere che non avevano nulla in comune con quelle dei libri. Secondo il mio giudizio, le donne reali non possedevano nessuno splendore e nessuna magnificenza. Erano degli esseri piccoli, non potevano mai crescere quanto un uomo, e passavano la vita rinchiuse dentro camere e stanzette: tutte infagottate nei loro grembiuli, gonne e sottane, in cui dovevano sempre tenere nascosto, per legge, il loro corpo misterioso, esse mi parevano figure goffe, quasi informi. Erano sempre affaccendate, sfuggenti, si vergognavano di se stesse, forse perché erano così brutte; e andavano come animali intristiti, diversi in tutto dall’uomo, senza eleganza né spavalderia. Spesso si riunivano in crocchio e discorrevano con gesti appassionati, gettando delle occhiate intorno per paura che qualcuno potesse sorprendere la loro segretezza. Dovevano avere molti segreti comuni, chi sa quali? Certo, tutte cose puerili! Nessuna certezza assoluta poteva interessarle.
I loro occhi erano tutti quanti di uno stesso colore: neri! I loro capelli, di tutte quante, erano scuri, rozzi e selvaggi. Davvero per quello che mi riguardava, esse potevano tenersi lontane quanto volevano da me. Certo io non mi sarei mai innamorato di una di loro e non volevo sposarne nessuna.
*** *** *** 
  Uh, quanto sono brutte, meglio non pensarci a quanto sono brutte. E ne vengono su dovunque, per tutta la terra; si moltiplicano a migliaia, a milioni, questi insulti di natura. Chi sa se anche negli altri pianeti, nella luna, ne esistono? E più ne riescono fatte a regola, a perfezione per così dire, e più sono brutte. Meschine loro, è proprio lo stampo della loro razza, che è amaro. Ma perché, come si spiega?
Nel creato tutte le cose sono così ben fatte; perfino le cose di nessuna importanza: un filino d’alga! un fiumiciattolo! un pesciolino, un pidocchietto delle rose, una fogliuccia di cicoria, tutte le cose hanno un che di azzeccoso, di simpatico, che ti fa dire: ah meraviglia dell’universo!
Quant’è bello, che piacere vivere. Perfino quando ti capita d’incontrare un tipo di cristiano un poco storpiato, un tipo di rifiuto di leva, stortarello, nano e a prima vista pensi: costui è brutto assai; sissignore, perfino in questo caso, poi, a guardare bene, sempre qualche cosa trovi da poter dire: però in fondo non è del tutto spiacente.
Sì, sì, in qualunque scorfano, in qualunque ragno, ad osservarli bene, ci si può riconoscere il segno di quella manina artistica e fatata che ha formato tutte le cose dell’universo.
Solamente per un’unica razza, le donne, non c’è stata misericordia. A loro è toccata la bruttezza e nient’altro. Saranno d’un'altra manifattura, questa è l’unica possibile spiegazione.

A simile discorso, recitato in modo di commedia, noialtri due scoppiammo a ridere. Allora mio padre con aria indolente, mi gettò una buccia d’arancia e mi apostrofò dicendo: 
- Tu, moro: invece di ridere tanto, sarebbe meglio che ci facessi sentire la tua idea, sulla bellezza delle donne. Per esempio, che ne pensi tu, di questa sposa? Ti pare bella o brutta?-
Io mi sentii avvampare in volto, perché non ero preparato a simile domanda, e, in verità, non sapevo nemmeno io che cosa ne pensassi precisamente, di quella sposa. Avanti di dire la mia opinione, le allungai un’occhiata, come per valutarla lì per lì.
Ma allora, in quel momento stesso mi avvidi che non mi serviva riguardarla, a mia insaputa io l’avevo nella mente già da prima, la mia idea su di lei.

Elsa Morante 1957

immagini:
Procida
Achille
Egon Schiele
Vincenzo Gemito

4.4.10

charlie brown

.
un amico è uno che sa tutto di te,
ma nonostante questo gli piaci

(E. Hobbard)

elaborato by mca

3.4.10






BUONA
 PASQUA

meglio poco di ciò che piace che tanto di tutto il resto.


Meglio poco di ciò che piace che tanto di tutto il resto.
Porgo dalle mani fiori che subito il tempo reclina.
Duole il vivere e nulla che valga dura.
Fiore che non resisti oltre l'ombra
di un breve attimo,
la tua freschezza
è eterna,
ma solo nel mio pensiero

(mca)

(TUTTI I DIRITTI RISERVATI)

2.4.10

IL VANGELO SECONDO GESU' CRISTO

Le guardie del tempio e i soldati di Erode vennero ad arrestare Gesù alle prime luci del mattino.
Dopo avere accerchiato silenziosamente l’accampamento, irruppero in gruppo, armati di spade e lance, e il loro comandante gridò, Dov’è quello che afferma di essere il re dei giudei, e di nuovo, Si faccia avanti colui che dice di essere il re dei giudei, allora Gesù uscì dalla sua tenda, insieme a Maria Magdalena che piangeva, e disse, Io sono il re dei giudei. Gli si avvicinò subito un soldato che gli legò le mani, sussurrandogli nel contempo, Anche se oggi vieni arrestato, se un giorno sarai il mio re, ricordati che l’ho fatto per ordine altrui, e se allora mi ordinerai di imprigionarlo, io ti obbedirò come obbedisco adesso, e Gesù disse, Un re non arresta un altro re, un dio non ammazza un altro dio, proprio per arrestare e uccidere sono stati fatti gli uomini comuni. A Gesù legarono anche una corda ai piedi in modo che non potesse scappare, ed egli disse tra sé e sé, perché lo credeva, Troppo tardi, sono già fuggito.
E rivolgendosi a chi comandava aggiunse, Lascia andare questi uomini che erano con me, sono io il re dei giudei, non loro, e avanzò verso i soldati che lo circondarono. Il sole era sorto e sovrastava le case quando la folla con Gesù innanzi, fra i due soldati che tenevano ciascuno un cappio della corda che gli legava le mani, cominciò a salire verso Gerusalemme. Seguivano i discepoli e le donne, irati quelli, singhiozzando queste, Che cosa dobbiamo fare, si domandavano a mezza voce, assalire i soldati e cercare di liberare Gesù, magari morendo nella lotta, oppure disperderci prima che arrivi un ordine di arresto anche per noi, ma non riuscivano a scegliere fra questo e quello, e perciò non fecero alcunché, continuarono a seguire a distanza il drappello dei militari.


A un certo punto videro che il gruppo in testa si era fermato e non ne capirono il motivo, a meno che non fosse giunto un contrordine e stessero sciogliendo i nodi della corda che imprigionava Gesù, ma per pensare una cosa simile bisognava essere davvero matti, e qualcuno lo era, ma non a sufficienza.
Un nodo si era sciolto infatti, ma quello della vita di Giuda Iscariota; perché lì, a un albero di fico, sul ciglio della strada per cui Gesù sarebbe dovuto passare, appeso per il collo, c’era il discepolo che s’era offerto affinché potesse compiersi l’ultima volontà del maestro. Il comandante della scorta fece segno a due soldati di recidere la corda e calare il corpo. E’ ancora caldo, disse uno; era anche possibile che Giuda Iscariota seduto su un ramo di quel fico, con il cappio al collo, fosse rimasto pazientemente ad aspettare di veder spuntare Gesù, laggiù dalla curva della strada, per lasciarsi cadere dal ramo, in pace con se stesso per aver adempiuto al suo dovere. Gesù si avvicinò, i soldati non glielo impedirono, e osservò lungamente il viso di Giuda, sfigurato dalla rapida agonia, E’ ancora caldo, ripeté il soldato, allora Gesù pensò che se avesse voluto avrebbe potuto compiere su quest’uomo l’atto di risuscitarlo, perché potesse avere in altro giorno e in altro luogo, la propria irrinunciabile morte, distante e oscura, e non la vita e il ricordo interminabili di un tradimento. Ma è risaputo che soltanto il figlio di Dio ha il potere di risuscitare, non certo il re dei giudei che si trovava qui, lo spirito taciturno, con le mani e i piedi legati.
Il comandante disse, Lasciatelo lì, che ci pensino quelli di Betania a sotterrarlo, o se lo mangino i corvi, ma prima guardate se ha qualcosa di valore, e i soldati lo frugarono, ma non trovarono niente. Neanche una moneta, disse uno, Non l’hanno pagato per la denuncia, mormorò Gesù…
Alla fine entrarono a Gerusalemme.



Josè Saramago
da Il Vangelo secondo Gesù Cristo

1991- Evangelho segundo Jesus Cristo

 
 
immagini:
Beato Angelico -Arresto di Cristo 1450
Suicidio di Giuda- scultura 1620
Mappa di Gerusalemme di Lucas Brandis di Schass -1475

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