Qui non mi trovate,
io qui non ci sono.
Sto nella stanza accanto
dove non c'è nessuno.

28.8.11

SEMPRE TU

DIRITTI DELL'IMMAGINE RISERVATI ROBY BURCHI
http://www.fotocommunity.it/

(mca ringrazia)

                                                                                       
                                                                                                                                 


                                                             E' sempre te
                                    che io bacio, baciando.

                                                                                               E' te
                                                 che maledico, imprecando.

                                                                              Mi hai costruito i sogni
                                                              pietra su pietra
                                               trasformando in torre l’abisso.
             
                                                                     Un tetro pozzo in cui s' annega il sole, *
                                                               che mi tocca guardare 
                                                                                        come se fosse luna.

                                                                                                                           mca


*

26.8.11

E' difficile essere semplici

 "È difficile essere semplici. Arrivo a sottoporre un racconto anche a quindici revisioni. A ogni revisione il racconto cambia. Ma non c'è nulla di automatico; si tratta piuttosto di un processo. Scrivere è un continuo processo di rivelazione.
La lingua dei miei racconti è quella di cui la gente fa comunemente uso, ma al tempo stesso essendo una prosa, va sottoposta a un duro lavoro prima di risultare trasparente, cristallina. "

Carver, percorrendo il suo itinerario di scrittore, si avvicinò al mondo della short story con un suo personale percorso, senza rifarsi a schemi letterari precedenti o a categorie definite.
Non volle mai essere accomunato agli scrittori postmoderni e si difese con forza sentendo che autori più giovani erano considerati seguaci del suo modello di scrittura, definito minimalista, perché egli non si considerava affatto minimalista: egli procedette secondo la teoria dell'omissione che esclude tutto quello che non è fondamentale enunciare.



*
Carver è nato nel 1938 ed è morto a soli cinquant’anni nell’88
*
Con pochi libri, una dozzina in tutto, Raymond Carver è diventato uno dei punti  di maggior riferimento per gli aspiranti scrittori di short stories, ma pure lui non era nato imparato.
Dopo aver frequentato una scuola di scrittura ad un corso tenuto nientemeno che da John Gardner,
cominciò ad inviare poesie e racconti alle riviste, con poca speranza e grande emozione.
Finchè un giorno due di esse gli pubblicarono in simultanea i primi testi.

Da lì, in poco più di dieci anni,nacque e si concluse una carriera che si riassume nei titoli dei suoi libri più celebri,  libri ormai tradotti in tutto il mondo, amati già da più di una generazione, e che fanno parte della storia della letteratura:

Vuoi star zitta per favore?
Di cosa parliamo quando parliamo d’amore
Cattedrale
Voi non sapete che cos’è l’amore
Da dove sto chiamando
Il nuovo sentiero per la cascata
Racconti in forma di poesia


Tanto tempo fa, era l’estate del 1958, mia moglie, io e i nostri due bambini ci trasferimmo dallo stato di Washington  in un paese appena fuori Chico, California. Lì trovammo una vecchia casa in affitto a venticinque dollari al mese. Per pagarmi questo trasloco, dovetti farmi prestare centoventicinque dollari da un farmacista per cui avevo fatto le consegne, un uomo di nome Bill Barton.
Questo tanto per dire che a quei tempi mia moglie e io eravamo sempre al verde. Eravamo costretti a raggranellare quel tanto che basta per sopravvivere, ma l’idea era che io avrei seguito dei corsi in quello che allora si chiamava Chico State College.  Per quanto indietro vada con la memoria, ancor prima di trasferirci in California in cerca di una vita diversa e della nostra fetta di torta americana, ricordo che avevo sempre voluto diventare uno scrittore. Avevo una gran voglia di scrivere, di scrivere qualsiasi cosa – narrativa, certo, ma anche poesie, drammi, sceneggiature, articoli per riviste e perfino pezzi per il giornale locale – qualsiasi cosa che comportasse mettere insieme delle parole per fare qualcosa di coerente e potesse interessare qualcun altro oltre me. Ma all’epoca del nostro trasferimento, qualcosa nelle ossa mi diceva che dovevo farmi un po’ di cultura prima di andare avanti e diventare uno scrittore. Allora attribuivo grandissima importanza allo studio – molto maggiore di quella che gli attribuisco adesso, ne sono sicuro, ma è perché ormai sono cresciuto e bene o male ho studiato.. dovete capire che nessun membro della mia famiglia, prima di allora era mai andato all’università, anzi nessuno era mai andato oltre le otto classi dell’obbligo. Non sapevo niente, ma almeno sapevo di non sapere niente.
Così, assieme a questo desiderio di farmi una cultura, avevo un altrettanto forte desiderio di scrivere; era un desiderio talmente forte che, grazie all’incoraggiamento che ricevetti all’università e alle cose che vi imparai, continuai a scrivere anche dopo che il buon senso e i freddi fatti – la dura realtà della mia vita – mi avevano consigliato ripetutamente che avrei affatto meglio a lasciar perdere, a smetterla di sognare, a rassegnarmi e a tirare avanti facendo qualcos’altro.

Quell’autunno, al Chico State, frequentai i corsi che la maggior parte delle matricole dovevano seguire, ma mi iscrissi anche a un corso chiamato scrittura creativa 101. Questo corso era tenuto da un certo prof. John Gardner, un insegnante appena arrivato, ma già circondato da un alone romantico e misterioso. Si diceva che avesse insegnato in precedenza all’Oberlin College e che se ne fosse andato per qualche ragione che non fu mai chiarita. Uno studente sosteneva che era stato licenziato – gli studenti, come tutti, sguazzano nei pettegolezzi e nei misteri – mentre un altro diceva che Gardner se n’era semplicemente andato dopo un grosso litigio. Qualcun altro affermava che il carico didattico a Oberlin, quattro o cinque corsi introduttivi di letteratura inglese ogni semestre, era troppo pesante per lui e non gli lasciava tempo per scrivere. Si diceva infatti che Gardner fosse uno scrittore vero, cioè praticante – uno che aveva scritto romanzi e racconti. Comunque sia, quell’anno insegnava SC 101 al Chico State e io mi iscrissi al suo corso.
Il fatto di seguire un corso tenuto da un vero scrittore mi emozionava. Non avevo mai visto uno scrittore in carne e ossa prima di allora e mi sentivo quindi in soggezione. Tuttavia mi sarebbe piaciuto vedere dov’erano questi romanzi e racconti. Bé, non erano ancora stati pubblicati.  Si diceva che non fosse mai riuscito a farsi pubblicare niente e che si portasse sempre dietro delle scatole con dentro le sue opere. Dopo che divenni suo allievo, le vidi davvero quelle scatole piene di manoscritti.
Gardner si era reso conto della mia difficoltà a trovare un posto per lavorare. Sapeva che avevo una famiglia con bambini e poco spazio a disposizione in casa. Mi offrì la chiave del suo ufficio. A tutt’oggi considero quell’offerta come una svolta cruciale nella mia carriera. Non era un’offerta fatta a caso e io l’accettai, penso, come una specie di mandato – perché proprio di quello si trattava. Passavo gran parte dei sabati e delle domeniche nel suo ufficio, dove teneva le famose scatole. Erano ammucchiate sul pavimento vicino alla scrivania. Nickel Mountain scritto a pennarello su una delle scatole, è il solo titolo che ora mi ricordo. Ma fu proprio in quell’ufficio, con le scatole dei suoi libri non pubblicati sott’occhio, che intrapresi i miei primi tentativi di scrivere



Quando incontrai Gardner la prima volta, era seduto dietro il tavolo dove ci si iscriveva ai corsi, nella palestra delle donne.  Firmai il registro del corso e lui mi diede un foglio col programma. Il suo aspetto non si avvicinava nemmeno un po’ a quello che mi ero immaginato dovesse essere l’aspetto di uno scrittore. A dire la verità a quei tempi sembrava più un pastore presbiteriano o un agente dell’FBI. Vestiva sempre un completo nero con la camicia bianca e la cravatta. E aveva i capelli tagliati a spazzola (la maggior parte dei giovanotti della mia età portava allora una pettinatura chiamata “alla DA” che erano le iniziali di Duck e Ass ovvero culo d’anatra, con i capelli cioè pettinati indietro lungo i lati fino alla nuca, appiccicati con la brillantina). John Gardner aveva insomma un aspetto molto convenzionale e, come se non bastasse, andava in giro con una Chevrolet nera a quattro porte, con le gomme tutte nere; una macchina così priva di fronzoli che non aveva neanche l’autoradio. Dopo averlo conosciuto meglio, aver avuto la chiave e aver cominciato a usare regolarmente il suo ufficio per lavorare, la domenica mattina la passavo seduto alla sua scrivania, pestando sui tasti della sua macchina da scrivere. Però tenevo anche d’occhio la strada, aspettando che, come tutte le domeniche, arrivasse con la sua auto e la parcheggiasse proprio lì davanti. Allora Gardner e la sua prima moglie Joan, scendevano e, vestiti di tutto punto nei loro abiti austeri, s’incamminavano lungo il marciapiede fino a raggiungere la chiesa dove andavano ad assistere alla funzione. Un’ora e mezza dopo aspettavo che uscissero e percorressero in senso contrario il marciapiede fino al parcheggio, dove montavano in macchina e tornavano a casa.
Gardner aveva sì i capelli a spazzola, vestiva come un pastore protestante o un agente dell’FBI e andava in chiesa tutte le domeniche, però per tanti altri versi era un anticonformista. Aveva cominciato a trasgredire le regole fin dal primo giorno in aula; era un fumatore accanito e anche in classe fumava continuamente, usando come portacenere un cestino della cartastraccia di latta. A quei tempi nessuno fumava in classe. Quando un altro professore che usava la stessa aula si lamentò per questo fatto, Gardner non fece altro che farci notare la meschinità e la ristrettezza mentale del collega, aprì le finestre e continuò tranquillamente a fumare.
Il primo giorno di lezione ci fece uscire disciplinatamente e sedere sul prato. Eravamo sei o sette, ricordo. Girava fra noi, chiedendoci di fargli i nomi degli autori che ci piaceva leggere. Non ricordo nessuno dei nomi che facemmo, ma non dovevano essere i nomi giusti. Ci annunciò che nessuno di noi aveva quel che ci voleva per diventare un vero scrittore, dato che gli era chiaro che nessuno di noi aveva l’indispensabile fuoco. Disse però che avrebbe fatto quanto poteva per noi, anche se era ovvio che non si aspettava grandi risultati. Ma c’era un’altra cosa: stavamo per partire per un viaggio e avremmo fatto meglio a tenere il cappello ben stretto.

Ricordo che disse che scrittori si nasce. Allora ero influenzabile, suppongo di esserlo ancora, ed ero terribilmente impressionato da ogni cosa che lui dicesse o facesse. Prese uno dei miei primi tentativi di racconto e lo esaminò insieme a me. Ricordo che era molto paziente, voleva che capissi ciò che cercava di mostrarmi, dicendomi e ripetendolo, quanto fosse importante avere le parole giuste per dire quello che volevo. E continuava a battere sull’importanza dell’uso del linguaggio comune, il linguaggio della conversazione normale, quello che si parla tra noi. Anche se quando ci rincontrammo tanti anni dopo lui disse che probabilmente tutto quello che mi aveva detto ai tempi era sbagliato,  quel che so è che i consigli che mi dava allora erano proprio ciò di cui avevo bisogno. Era un maestro splendido. Era una gran cosa che mi era capitata quella di avere qualcuno che mi prendesse abbastanza sul serio da sedersi e esaminare un manoscritto insieme a me.  Sapeva che qualcosa di cruciale mi stava accadendo. Mi aiutò a capire quanto fosse importante dire esattamente quel che volevo dire e niente di più, non usare parole letterarie o un linguaggio pseudo-poetico. Cercò di spiegarmi la differenza che c’è, ad esempio, tra il dire - l’allodola vola sul prato - e - sul prato l’allodola vola -. C’è un suono e un senso diverso, no? Mi mostrò come dire ciò che volevo dire usando il minimo numero di parole per farlo. Mi fece capire che tutto, assolutamente tutto ha importanza in un racconto. E’ importante sapere dove mettere le virgole e i punti.

Per questo e per altro, perché mi diede la chiave del suo ufficio in modo che potessi avere un posto per scrivere nei fine settimana, per aver sopportato la mia sfacciataggine e la mia generale mancanza di senso, gli sarò sempre grato. Lui è stato un influsso.

Agli aspiranti scrittori di racconti che frequentavano il suo corso, Gardner richiedeva un racconto tra le dieci e le quindici cartelle. Chi voleva invece scrivere un romanzo – mi pare ci fossero anche due o tre anime con questa ambizione,  doveva sottoporgli un capitolo di circa venti pagine,più uno schema del resto della trama. Il bello era che sia il racconto che il capitolo del romanzo, potevano essere riscritti anche dieci volte nel corso del semestre prima che Gardner ne fosse soddisfatto. Uno dei suoi principi fondamentale era che uno scrittore scopre quello che vuole dire mediante un continuo processo consistente nel vedere quello che ha già detto. E questa visione, questo processo di messa a fuoco della visione, si otteneva mediante la revisione. Gardner credeva profondamente nell’efficacia della revisione, nella revisione senza fine; era una cosa che gli stava molto a cuore e che, ne era convinto, era importantissima per gli scrittori, in qualsiasi fase di sviluppo si trovassero. Non sembrava mai perdere la pazienza nel rileggere un racconto di un suo allievo, anche se l’aveva già visto in cinque stesure precedenti.
Credo proprio che il concetto di racconto che egli aveva sviluppato nel 1958 fosse rimasto inalterato fino al 1982: per lui il racconto è qualcosa in cui si possono distinguere un inizio, un centro e una fine. Ogni tanto andava alla lavagna e disegnava un grafico per illustrare qualcosa che voleva dimostrare sulla crescita o il calo di emozioni nel corso di un racconto – picchi, valli, altopiani, risoluzioni, dénoument eccetera. Per quanto cercassi di sforzarmi, questa roba che disegnava alla lavagna era una faccenda per cui non riuscii mai a provare un grande interesse, e neanche la capii mai a fondo, a dire la verità quello che capivo bene era il modo con cui commentava in classe il racconto scritto da uno studente. Gardner si chiedeva ad alta voce come mai, per esempio,  l’autore aveva voluto scrivere un racconto che parlava di uno storpio omettendo fino alla fine di informare il lettore sulla deformità del personaggio. “ Lei è convinto insomma che sia una buona idea non far sapere al lettore, fino all’ultima frase, che questo personaggio è storpio?”  il tono di voce esprimeva tutta la sua contrarietà. E bastava a far capire subito a tutti i presenti, compreso l’autore del racconto,  che quella non era una buona strategia narrativa. Qualsiasi strategia che sottraesse al lettore delle notizie importanti e necessarie nella speranza di prenderlo di sorpresa alla fine della storia era da considerarsi un inganno.

In classe Gardner menzionava continuamente scrittori di cui non conoscevo neanche i nomi, oppure, se ne avevo sentito i nomi, non ne avevo letto le opere. Conrad. Céline. Katherine Ann Porter. Isaac Babel. Walter Van Tilburg Clark. Cechov. Hortense Calisher. Curt Harnack. Robert Penn Warren. Una volta leggemmo un racconto di Warren intitolato L’inverno delle more. Per un motivo o per l’altro non mi piacque e lo dissi a Gardner. “Faresti meglio a rileggerlo” mi disse, e non scherzava mica. William Gass era un altro scrittore che citava spesso. All’epoca Gardner stava per lanciare la sua rivista MSS e sul primo numero avrebbe pubblicato un racconto intitolato Il ragazzo dei Pedersen. Avevo cominciato a leggerlo ancora in manoscritto, ma non lo capivo e di nuovo mi lamentai con Gardner. Questa volta non mi disse di rileggerlo, semplicemente mi tolse il racconto dalle mani. Parlava di James Joyce, di Flaubert e di Isak Dinesen come se abitassero dietro l’angolo, a Yuba City. Diceva spesso “ Sono qui per dirvi chi dovete leggere, non solo come dovete scrivere.”

Stordito, uscivo dall’aula e correvo dritto in biblioteca a cercare i libri degli autori di cui aveva parlato. Gli scrittori che dominavano la scena, a quei tempi, erano Hemingway e Faulkner. Ma nell’insieme io avevo letto tutt’al più due o tre loro libri. Comunque, pensavo, erano così famosi e così chiacchierati che non potevano essere un granché, no? Ricordo che Gardner mi disse “ Leggi tutti i libri di Faulkner su cui puoi mettere le mani e poi leggiti tutti quelli di Hemingway per disintossicarti da Faulkner”.
Fu lui a farci conoscere le piccole riviste letterarie, portandocene un giorno in classe una scatola piena e distribuendole tra noi in modo che potessimo impararne i titoli, vedere che aspetto avevano, sentire che effetto faceva tenerle in mano. Ci spiegò che era lì che appariva la miglior narrativa e quasi tutta la poesia del Paese. Prosa, poesie, saggi letterari, recensioni di libri appena usciti, critiche scritte su autori viventi da altri autori viventi. In quei giorni ero frastornato da tutte queste scoperte.
Per sette o otto di noi che seguivano il suo corso, Gardner fece arrivare dei pesanti raccoglitori neri e ci disse che era lì che dovevamo tenere le cose che scrivevamo. Lui teneva i suoi manoscritti in raccoglitori come quelli, disse, e così noi demmo la cosa per scontata. Andavamo in giro con i nostri racconti dentro quei raccoglitori e ci sentivamo persone speciali, esclusive, diverse dalle altre. Ed era proprio così.
Non so come Gardner si comportasse con gli altri studenti quando veniva il momento di avere degli incontri individuali con ciascuno di noi per discutere del nostro lavoro. Ritengo che dedicasse a tutti una grande attenzione. Ma avevo, e ho ancora, l’impressione che in quel periodo egli prendesse i miei racconti più seriamente e li leggesse più a fondo e più attentamente di quanto avessi il diritto di aspettarmi. Ero completamente impreparato al genere di critiche che ricevevo da lui.. prima che ci incontrassimo, aveva già segnato il mio manoscritto, cancellando con un frego i periodi, le frasi, le singole parole e persino i segni di punteggiatura che riteneva inaccettabili; e mi fece subito capire che su quelle cancellature non si poteva neppure discutere. In altri casi metteva periodi, frasi e singole parole tra parentesi e queste erano cose su cui potevamo discutere, casi in cui era ammesso un minimo di trattativa. Non esitava neanche ad aggiungere qualcosa a quello che avevo scritto – una parola qua e là, oppure diverse parole, forse un’intera frase che chiariva meglio quello che cercavo di dire. Certe volte discutevamo delle virgole del mio racconto come se fossero le cose più importanti del mondo in quel momento – e in effetti lo erano. Comunque cercava anche sempre qualcosa da lodare. Quando c’era una frase, una battuta di dialogo o un passaggio narrativo che gli piaceva, qualcosa che egli pensava funzionasse e mandasse avanti la storia in modo piacevole e inatteso, scriveva a margine
“ Bello!” oppure “Buono!” quando vedevo questi commenti il cuore mi si risollevava.
Quello che mi offriva era una critica ravvicinata, riga per riga, e non si limitava a questo, ma mi rivelava anche le ragioni di quella critica, il perché una cosa doveva essere scritta in un modo piuttosto che in un altro; fu un’esperienza d’un valore senza pari nella mia maturazione di scrittore.
Esaurito questo tipo di discussione sui particolari del testo, passavamo a discutere dei temi più generali del racconto, del problema che cercavo di mettere a fuoco, del nodo conflittuale che tentavo di illustrare e anche del modo in cui il racconto si inseriva o meno nel più ampio schema della tradizione narrativa. Gardner era convinto che se le parole della narrazione rimangono confuse  e sfuocate perchè l’autore è stato insensibile, distratto o troppo sentimentale, il racconto che ne risulta soffre di un grave handicap. Ma c’è anche un pericolo maggiore da evitare a tutti i costi: se le parole e i sentimenti sono disonesti, se l’autore bara e scive di cose che non gli stanno a cuore o di cui non è convinto, allora non può aspettarsi che qualcun altro mostri interesse per il racconto.
Uno scrittore deve avere dei valori e conoscere il proprio mestiere. Questo è ciò che Gardner credeva e insegnava, ed io ho cercato di mantenere questi principi per tutti gli anni che sono  trascorsi da quel breve ma importantissimo periodo.

Raymond Carver
brani tratti da: Il mestiere di scrivere
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John Champlin Gardner Jr. (Batavia, 1933 – Susquehanna 1982) è stato uno scrittore e insegnante statunitense, figura popolare e controversa fino alla morte prematura avvenuta in un incidente motociclistico all'età di 49 anni.
*
I suoi genitori, il padre un pastore laico e la madre un'insegnante, ebbero una forte influenza nella sua vita. Entrambi erano appassionati di Shakespeare e spesso recitavano letteratura insieme. Da bambino Gardner frequentò la scuola pubblica e lavorò nella fattoria del padre dove, nell'aprile 1945 all'età di 11 anni, il fratello più piccolo rimase ucciso in un incidente con una macchina agricola. Gardner, alla guida del trattore durante l'incidente, ebbe un senso di colpa per tutta la vita, incubi e flashback dell'accaduto. Il ricordo dell'incidente si affaccia spesso nei suoi romanzi e nella sua critica letteraria.
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20.8.11

MALINCONIA


Vincent Van Gogh

                                    Stasera nel giardino mi parla una malinconia
                                    nuova. Un mandorlo annega il suo sorriso in fiore
                                    nella palude torbida. La memoria di gioventù
                                    scuote l’acacia inferma in modo così triste…

                                                 S’è risvegliato un freddo soffio nella serra in frantumi
                                                 dove le rose sono morte e ogni vaso è un sarcofago.
                                                 Il cipresso, infinito come un tormento, leva
                                                 verso gli astri il suo lutto, ed è assetato d’aria.

                                                                Vanno, come un corteo funebre, nel filare
                                                                gli alti alberi del pepe, trascinando i verdi capelli.
                                                                Nella disperazione entrambe le latanie hanno alzato
                          le braccia. Ed è il nostro giardino di malinconia.

                                                                   KOSTAS KARIOTAKIS-1919            
                                                                 (da Il dolore dell’uomo e delle cose)


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16.8.11

DIRTY ART







Da poco approdato a New York alla fine degli anni ‘40, Andy inizia a frequentare l’ambiente gay della città, manifestando subito il suo approccio freddo al sesso, tipico del voyeur.
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Vernice di polimeri sintetici su tela
Andy Warhol Foudation NY
Agli amici chiede spesso di spogliarsi e togliersi le scarpe, per disegnarne i genitali e i piedi. L’idea era quella di sviluppare un progetto mai portato a termine: la produzione di un Libro dei Cazzi e un Libro del Piede. Il nudo maschile entrerà in seguito nella sua produzione in forma più soft, attraverso disegni su foglia d’ora - rappresentanti amici suoi e ragazzi di strada -  che vennero esposti alla Bodley Gallery nel 1957.

Nella seconda metà degli anni ’70 Warhol riprese con disinvoltura la vecchia abitudine di chiedere a qualsiasi visitatore della Factory, uomo o donna indifferentemente, di spogliarsi di fronte a lui e di lasciarsi riprendere le parti intime dalla sua camera 35mm. e dalla Polaroid Big Shot. Nascono così numerose fotografie che non saranno mai esibite in pubblico, fra le quali Warhol sceglie diciamo così le “più caste” per la serie dei Torsos.

Sull’immagine serigrafata, Warhol interviene con grande raffinatezza e estrema disinvoltura, con poche, ampie pennellate di colore. Soffermandosi sulla silhouette e sulla muscolatura delle gambe del modello, egli ottiene una resa quasi classica, da atleta greco.


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Decisamente più provocatorio del precedente, questo primo piano è dedicato al sesso del modello che recita il ruolo di protagonista. Qui la resa pittorica è assai meno classica, dando evidenza alla stesura imperfetta dell’inchiostro, più che ai particolari anatomici. Nelle gambe e nel ventre è scomparsa ogni traccia di volume, mentre i peli delle gambe sono sostituiti da pennellate evidenti, stese forse con la nuova tecnica del mopping (che si serve di una scopa o di una spugna per distribuire il colore sulla tela).
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La Andy Warhol Factory era il suo studio-laboratorio 




Ultra Violet, pseudonimo di Isabelle Collin Dufresne, una delle superstar della Factory, scrisse: Andy era affascinato dalla nudità. Era incantato dal fatto che ogni organo del corpo, avesse una forma, un aspetto, un colore diverso da un individuo all’altro. Proprio come un torso nudo, o un viso raccontano una storia diversa, così anche un pene o un sedere per Andy raccontavano storie diverse.


Quanto al voyeurismo, alcune brevi sentenze disseminate nella Filosofia, fanno emergere un atteggiamento freddo, distaccato nei confronti del sesso, concepito come un'inutile fatica e uno spreco di energia, a cui opporre le gioie della frigidità e dell'astensione:

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"La cosa più eccitante è non-farlo. Se quando t'innamori non lo fai diventa molto più eccitante...
Il sesso è comunque molto più eccitante sullo schermo o fra le pagine, che fra le lenzuola...
Il sesso è la nostalgia di quando lo desideravi qualche volta...
Il sesso è la nostalgia del sesso...
Alcuni acquistano energia dal sesso, e altri la consumano.
Subito dopo quella di essere vivi, la fatica maggiore è quella di fare del sesso...
Io mi sono accorto che per me è troppo faticoso..."

                                                                                          Bè ...pigrone!    (ndr)





In questa autobiografia che è più che altro un autoritratto, non manca niente. C'è tutto. Lo sguardo spento. La grazia diffratta... Il languore annoiato, il pallore desolato... L'essere freak in modo chic, l'essenza passiva dello stupore, la segreta conoscenza che ammalia... La gioia un po' mesta, i tropismi rivelatori, la maschera imbiancata da folletto, l'aspetto lievemente slavo... L'ingenuità infantile, il fascino radicato nella disperazione, la trascuratezza narcisistica, la perfetta alterità, l'inafferrabilità, l'aura ombrosa, voyeuristica, vagamente sinistra, la pallida e sussurrata magica presenza, l'essere pelle e ossa... (IBS)





Fonte: 
un saggio di Domenico Quaranta
(mca ringrazia)

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14.8.11

I GIOVANI BARBARI

Daniel Richter  Die Idealisten 2008
Almeno due o tre volte nell’arco di un secolo, la società è costretta a fare i conti col comportamento giovanile e a dichiarare il fallimento dei propri metodi educativi: troppo coercitivi un tempo, troppo permissivi oggi.
*
Ma lo stesso Sigmund Freud aveva già nel primo 900 tratto delle importanti conclusioni dai suoi studi. Interrogato da una madre apprensiva per ottenere un consiglio sul metodo migliore di allevare il proprio bambino senza commettere i soliti errori, lo psicanalista rispose: il metodo educativo è ininfluente, cara signora, perché con i figli si sbaglia sempre comunque.
*
All’indomani delle rivolte scoppiate nel cuore di Londra il primo ministro ha accusato di lassismo le forze di Polizia, e di permissivismo le famiglie: insomma la colpa va sempre attribuita a qualcuno. Ma queste bande giovanili, guidate da capetti autoritari e carismatici che si credono padroni del territorio in cui vivono, avevano già ispirato negli anni ‘60  il musical di Broadway “West Side Story” ancora oggi gettonato per le intramontabili musiche di Leonard Bernstein. E che dire dei famosi Teddy-Boys, dei Mods, dei Rockers che imperversavano nella Londra di allora? E negli anni ’80 non ci sono stati tumulti sia a Londra che a Liverpool scatenati per motivi razziali, di cui pesino la signora Thatcher rimase turbata?
*
La tendenza oggi è di dare spiegazioni più moderne a questa violenza: di attribuirne la responsabilità alla televisione, alla latitanza genitoriale, all’avere troppi soldi in tasca e troppo poco rispetto per gli altri.
*
Suggerirebbe forse, come rimedio, di ritornare ai vecchi metodi, quando i genitori picchiavano i bambini, li mandavano a letto presto e dettavano loro come vestirsi e come comportarsi?
*

image by Dino Torraco
Chi sono in fondo questi giovani barbari? Un gruppo circoscritto di alieni, extraterrestri con un sistema di valori completamente discosto dal nostro o non piuttosto il prodotto della società stessa e delle sue dinamiche complessive, dove ogni giorno i media ci spiattellano  fatti di gente che racimola in un giorno quello che altri faticano a guadagnare in un anno se non addirittura in una vita intera.
*
La psicologia del giovane saccheggiatore è alla fine quella di poter prendere ciò che si vuole quando se ne offre l’opportunità. Anche i finanzieri e gli operatori di borsa della City si sono auto-pagati somme enormi perché potevano, e continuano a farlo. Anche i parlamentari (non sempre tutti) hanno gonfiato le proprie note-spese perché potevano. Anche i giornalisti di Murdoch invadevano la privacy e intercettavano le telefonate altrui perché potevano. Anche gli evasori fiscali non pagano le tasse perché pensano di farla franca. Fare i furbi, un comportamento che sembrava essere prerogativa e difetto nazionale degli Italiani, si è rivelato vizio globale.
*
Nel Medio Evo le sommosse si scatenavano per il pane,  oggi i saccheggi si fanno per le scarpe da ginnastica e gli I-Pod. Saccheggiare i minimarket può anche rivelarsi molto divertente: si entra, si prende quello che si vuole, a piene mani come fanno i ricchi, e si esce come se niente fosse. E' il sogno inconfessabile di chiunque sia vittima della rapacità prescritta dalla società dei consumi.
*
*
Unica rivelazione che potrebbe  rammaricare gli amici intellettuali e far sorridere un po’ tutti: in una strada londinese, l’unico negozio a non essere stato saccheggiato è risultato quello del libraio.
*
Ma questo solo perché non ero nei paraggi io ! AHAHAH


*

9.8.11

SAUDADE

LISBOA


Il tramonto si diffonde nelle nuvole
sparse sull’intero orizzonte.
Riflessi colorati, riflessi soavi,
riempiono i contrasti dell’aria alta,
 galleggiano assenti nelle grandi inquietudini
dell’altezza.
Sopra i tetti aguzzi,
metà illuminati, metà in ombra,
gli ultimi raggi lenti del sole calante
assumono tinte che non appartengono al colore,
né a ciò che colorano.
  Scende la grande quiete
sulla superficie rumorosa
e la città scivola nel silenzio.
Oltre il colore e il rumore,
respira tutto con un sorso profondo e muto.
  Sulle case che il sole non tocca,
i colori prendono i toni del grigio.
C’è del freddo nella loro diversità .
  Una piccola inquietudine dorme
nelle false vallate delle strade.
Dorme e riposa.
E a poco a poco,
sopra le nuvole basse,
i riflessi si fanno ombra.
Soltanto su quella piccola nuvola,
che plana come un’aquila candida,
il sole conserva da lontano,
il suo oro sorridente.



Amo, negli interminabili crepuscoli estivi,
la calma della città bassa,
sopratrtutto quella calma che per contrasto
si accentua nella zona
che il giorno immerge in una maggior confusione.

 



E, affacciato al davanzale,
godendomi la giornata al di sopra del volume della città intera,
un unico pensiero mi riempie l'animo:
il desiderio intimo di morire, finire,
non vedere più alcuna luce su città alcuna,
lasciare indietro, come una carta da imballaggio,
il percorso del sole e dei giorni.



In quelle ore lente e vuote
mi sale dal cuore alla mente una tristezza di tutto il mio essere:
l'amarezza che tutto sia al contempo una mia sensazione
e una cosa esterna che non mi è permesso cambiare.
E i miei stessi sogni si fanno cose, c
ome il tram che sbuca dalla curva
o la voce del tardivo venditore
che sgorga da una cadenza araba,come un fiotto improvviso,
dalla monotonia del crepuscolo.


                                                                           Ponte Vasco de Gama visto dal Tejo

In questi appunti sconnessi, che non ambiscono ad avere un nesso,
racconto con indifferenza
la mia autobiografia priva di avvenimenti,
la mia storia priva di vita.
Sono le mie confessioni,
e se in esse non dico niente,
è perchè non c'è nulla da dire.


da Il libro dell'inquietudine di F. Pessoa
 

elaborazione di mca



6.8.11

CAMERA WORK

I miei veri maestri sono stati la vita, il lavoro, la sperimentazione continua...
ogni stampa che io tiro, anche da un solo negativo, è un’esperienza nuova, un problema nuovo.
La fotografia è la mia passione. La ricerca della Verità la mia ossessione.”


Il fotografo Alfred Stieglitz  nacque in New Jersey nel 1864 da una famiglia benestante di origine tedesca.
Trasferitosi temporaneamente in Germania, al seguito della famiglia, frequentò il Politecnico di Berlino.
Iniziò a scattare le sue prime fotografie in giro per l'Europa non ancora ventenne.
Di questo periodo tedesco predomina più che la ricerca compositiva, la preoccupazione tecnica, l’ansia di una sperimentazione sempre nuova e continua: i suoi risultati sulle tecniche per intensificare le lastre e sulla stampa con la carta al platino vengono pubblicate sulle riviste specializzate e alcuni esemplari esposti in mostre.
( a fianco: Stieglitz in una foto scattata da Gertrude Kasebier )


Già nel 1887 vinse il suo primo premio a un concorso indetto dalla rivista londinese Amateur Potographer con una foto scattata in Italia a Bellagio dal titolo The last Joke, raffigurante
un gruppo di bambini che all'imbrunire scherzano  riuniti attorno a una donna intenta a raccogliere l'acqua.
Emerson, direttore della rivista, così si espresse  elogiandolo: Provo ammirazione per il lavoro da Voi mandato al concorso. Esso era il solo spontaneo fra tutti ed io ne rimasi soddisfatto in sommo grado.
Un esempio della sua sensibilità artistica di questo periodo è la fotografia intitolata Raggi di sole a Berlino: in una stanza invasa dalla luce del sole, ove le liste di una tenda alla veneziana parzialmente chiuse creano un alterno gioco di luce e ombra, la sua giovane amica è seduta ad un tavolo a scrivere e china la testa verso un’immagine che occupa il centro del tavolo.


Questa immagine rappresenta, a sua volta, una giovane, forse lei stessa, che sta scrivendo in una cornice ovale decorata. Appesa alla parete, appena al di sopra della testa della donna, si trova un duplicato della stessa immagine, una seconda stampa della stessa fotografia. A sinistra e un po’ più in basso c’è un’altra immagine della donna, quasi nella stessa posizione ma girata nella direzione opposta, come se si trattasse dello stesso clichè restituito da uno specchio. Da una parte e dall’altra delle immagini si trovano due altre fotografie, questa volta paesaggi, di nuovo riconoscibili come fotografie per la loro esatta somiglianza, il loro perfetto raddoppiamento sulla parete. Inserita nella fotografia si trova dunque una dimostrazione complessa della riproducibilità che sta al centro del processo fotografico.
Già si riconosce l'abilità nel non perdere i contrasti di luce ed ombra, nella nettezza dei particolari e nella composizione, che anticipano i lavori della maturità.

  
Continua la sua ricerca e il 22 Febbraio 1893 aspetta tre ore con un apparecchio 10 x 12 nella Fifth Avenue sotto una violenta tempesta di neve per fotografare una carrozza tirata da quattro cavalli: sarà la fotografia dichiarata più bella da Roland Barthes. Lo stesso Stieglitz scrive che quando si usa un apparecchio portatile il successo dipende dalla pazienza: bisogna saper aspettare e non lasciarsi sfuggire il momento in cui tutto è ben equilibrato.
Inoltre la fotografia è anche risultato di manipolazioni in camera oscura: per Winter on 5° Avenue (foto sopra), Stieglitz utilizza meno della metà del negativo originale. Sperimenta fino al limite le possibilità del mezzo espressivo quasi come una sfida.
 Nel 1894 Stieglitz ritornò in Europa: viaggiando fra Parigi e l' Olanda. La rammendatrice di reti è la foto di quell’anno più esposta e due volte premiata e così ne parlò lo stesso Stieglitz in My favorite picture pubblicato su Photographic Life:
La rammendatrice di reti” fu il risultato di lunghi studi. Esprime la vita di una giovane donna olandese; ogni punto di rammendo nella rete da pesca, elemento fondamentale della sua esistenza, fa emergere un torrente di pensieri poetici in coloro che la contemplano, seduta fra quelle dune ampie, e si direbbe, infinite, mentre attende al suo lavoro con la serietà e la serenità che sono tipiche di quel popolo risoluto. Tutte le sue speranze sono concentrate in questo lavoro: è la sua vita.
La fotografia fu fatta nel 1894 a Katwijck in Olanda. Presa su una lastra di cm. 18 x 24, con un obiettivo Zeiss. Le stampe usate per la mostra sono ingrandimenti su carta al carbone, poiché il soggetto esigeva un grande formato.
*
Famose sono rimaste le sue fotografie di New York scattate negli anni ’80/'90 del 1800, quando la diffusione universale della luce elettrica consentì ai pionieri della fotografia di conquistare anche le notti delle strade cittadine: uno dei segnali dell’irrompere della modernità nell’estetica del medium.
 
Alla fine degli anni '90 Stieglitz, godendo ormai di discreta fama, cercò di organizzare in America mostre internazionali di fotografia pittorica e di incitarne il rinnovamento tra i compatrioti che frequentano il suo circolo, tra cui White, Steichen, Gertrude Kaisebier e a loro si rivolge con queste parole: ”Noi americani non possiamo concederci di restare inerti..."  Le fotografie americane vengono difatti ancora giudicate  in Europa come lavori  dal " carattere impreciso ed elusivo; come la semplice suggestione di forme e di strutture che lascia largo spazio all’immaginazione. La delicatezza con cui sono trattate, la scelta e la composizione, nella maggior parte dei casi denotano un sentimento intenso, tuttavia se lo spettatore manca di immaginazione e di sentimento, il loro effetto risulta nullo...”


Nel 1902 formò il gruppo dei Foto Secessionisti e aprì le prime sue gallerie, dove esponevano fotografi fortemente influenzati dai pittorialisti europei e l'anno dopo, sempre più consapevole che la tecnica fotografica era destinata a percorrere un lungo cammino nell'espressione artistica, fondò e diresse la rivista Camera Work , di cui verranno pubblicati 50 numeri fino al 1917 : quasi tutte monografie, sia dei membri di Photo-Secession come Steichen e Coburn, sia di eminenti fotografi europei, come Evans e Demachy. La rivista raggiunse un tale prestigio che ogni numero era puntualmente recensito dalla stampa inglese.

Inizialmente accanto al desiderio di accreditarsi come arte, la fotografia su Camera Work si propone come mezzo privilegiato per cogliere in modo fulmineo - con "l'istantanea" - il mondo moderno in rapida evoluzione, con una immediatezza visiva che nessun altro mezzo ancora possedeva .


Flat Iron - NY
Stieglitz, parlando della sua celebre immagine del Flat-Iron Building scriveva : “Improvvisamente vidi il Flat-Iron come mai l'avevo visto prima. Dal luogo in cui osservavo mi dava l'impressione di procedere nella mia direzione, come la prua di un mostruoso transatlantico: era l'immagine della nuova America che si stava costruendo”.
Esaminando oggi i numeri originali della rivista si può seguire la progressiva conquista della libertà d’ espressione, maturata attraverso la consapevolezza dei fotografi di non essere solo occhi e mani che regolano lo strumento, ma veri e propri creativi, affinatisi anche attraverso lo scambio intellettuale con scrittori, filosofi e le molte voci artistiche europee.

Nel 1905 Stieglitz aprì, insieme al fotografo Steichen, la Galleria 291 in Fifth Avenue a New York che chiuderà 12 anni più tardi.
Dopo la chiusura della 291 e l'ultimo numero di Camera Work, Stieglitz aprì altri due spazi: la Intimate Gallery nel 1925 e  An American Place nel 1929.
In queste sale diede spazio a numerose forme d'arte: dalla scultura alla grafica e accolse opere di vari artisti quali Picasso, Matisse, Renoir, Cezanne, Manet, Braque, Rodin e la O'Keeffe che in seguito sposerà in seconde nozze.
Stieglitz è una figura fondamentale per l'arte americana perché grazie alla rivista Camera Work e alle numerose gallerie da lui dirette è stato un punto di contatto tra gli artisti del nuovo continente e quelli europei e un ottimo divulgatore per il grande pubblico a cui ha raccontato, con enorme efficacia, il movimento delle avanguardie artistiche.
Del 1937 sono datate le sue ultime fotografie fra cui quelle della serie  " cielo e nuvole" da lui denominate Equivalenti .
Rimasto inabile per una grave malattia, muorì a New York nel 1946.
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Georgia O'Keeffe
fotografata dal marito




Le immagini di Stieglitz e della sua rivista, secondo il volere dello stesso fotografo, sono state suddivise fra numerose collezioni, di cui un consistente materiale è andato al Metropolitan Museum, mentre una parte dell'eredità è stata donata dalla sua seconda  moglie, la pittrice americana Georgia O'Keeffe, al Museum of Modern Arts di New York.




Nel 1907 Stieglitz realizzò The Steerage (Il ponte di terza classe), un’operazione che più tardi giudicherà la sua più bella fotografia e che è testimonianza della sua evoluzione nel rapporto con il mezzo e con la realtà in cui si imbatte: stava infatti passeggiando sul ponte di prima classe di un transatlantico di lusso in rotta verso l’Europa quando vide, come lui stesso scrive, “una paglietta rotonda, la ciminiera inclinata a sinistra, la scaletta inclinata a destra, la passerella bianca racchiusa tra due file di catene, un paio di bretelle bianche che si incrociavano sulla schiena di un uomo sul ponte sottostante di terza classe, forme rotonde di congegni di ferro, un albero che tagliava il cielo disegnando un triangolo... Vidi in anteprima tutte queste forme composte in un’immagine, quasi un simbolo della concezione che io avevo della vita.”

Si precipitò quindi in cabina a prendere il suo apparecchio Graflex sperando che intanto le figure dell’immagine non si fossero mosse. Al ritorno trovò tutto come l’aveva lasciato, e subito fece scattare l’otturatore. La fotografia divenne il risultato di un' identificazione immediata di soggetto e forma: “spontaneità di giudizio e composizione dell’occhio” come lo definiva Hartmann. Stieglitz non cerca più le condizioni ambientali, come aveva fatto per Winter on Fifth Avenue, non aspettò pazientemente che fosse tutto in equilibrio. Senza esitazione, persino senza un pensiero cosciente, inquadrò subito il soggetto e stampò tutto il negativo senza tagliare nulla.
Lo spettatore ha l’impressione di trovarsi proprio davanti ai soggetti raffigurati. Non c’è traccia del fotografo o dei suoi gusti particolari, non trapela nessuno sforzo di interpretazione, nessuna artificiosità di effetti: non vi sono trucchi di obbiettivi o di illuminazione.

In the New York Central Yards, 1903


Gossip - 1905
Dorothy True - 1919
1930 - le mani di Georgia O'Keeffe -
le più fotografate al mondo



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