Louis De Bernières - L'Impossibile Volo
TEADUE - 2009 Trad. Anna Rusconi
/Nel grande disegno delle cose questo libro è dedicato alla triste memoria dei milioni di civili che all'epoca del racconto,
qualunque fosse il loro schieramento o appartenenza etnica, caddero vittime dei numerosi esodi e scambi di profughi, delle marce della morte e delle campagne di sterminio e persecuzione. (Louis De Bernières)
Lo stesso autore dello strepitoso romanzo "Il Mandolino del Capitano Corelli".
(Heroic Roses - febbr.2009) .
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Turchia - inizi del 1900 del calendario cristiano - città ora estinta di Eskibahce.
Musulmani, cristini e ebrei vivono in pace pur calpestando lo stesso suolo.
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IL CANE
I due bimbetti si confrontavano le dita dei piedi: l’unica cosa che queste avevano in comune era l’infarinatura bianca della polvere della strada e l’abbronzatura intensa del sole d’inizio estate.
Karatavuk stava mostrando all’amico che era capace di muovere un dito alla volta, mentre l’altro se ne stava tutto compreso nello sforzo di emularlo, quando avvertirono la presenza di qualcuno che, giunto sulla cima del colle, avanzava verso di loro.
Si resero conto della sua stranezza prima ancora di vederlo da vicino. Aveva un’andatura esagerata e irregolare, quasi fosse abituato ad andare così di fretta da non riuscire a tenere un passo misurato. Inoltre non procedeva in linea retta, ma piegava continuamente di qua e di là, tanto che le impronte prodotte disegnavano nella polvere la traccia ondeggiante di un rigagnolo o di un serpente.
I bimbetti raddrizzarono la schiena e, in preda ad un misto di fascinazione e paura, lo guardarono avvicinarsi. D’un tratto balzarono in piedi con l’idea di scappare, ma qualcosa nel contegno di quell’uomo impedì loro di farlo. Era come se non vi fosse alcun pericolo, come se lui non vivesse in quel mondo e non potesse nemmeno vederli.
E fu proprio così, non li vide.
Alto e magrissimo, con gambe ossute rese muscolose da anni di marce, indossava solo un cencioso lenzuolo grigio con un buco per la testa, che a malapena gli arrivava alle ginocchia. Un pezzo di corda gli cingeva la vita, e il peso del nodo sul davanti salvava a stento la decenza. Nella mano destra stringeva una lunga asta di frassino logoro e con questa si aiutava a procedere alla sua innaturale velocità. La sinistra invece poggiava sul collo di un otre per l’acqua, fatto di pelle di capra bianca e attaccato a una tracolla di cuoio che gli correva di traverso sul petto.
L’uomo, lacero e stracciato, pareva non curarsi di nulla. I suoi occhi non guardavano né a destra né a sinistra e dalla massa incolta dei capelli grigi, aggrovigliati, annodati e impastati di terra, il sudore gli colava sulla fronte disegnando sentieri. Ad ogni passo emetteva un gemito inarticolato, come a soffocare un dolore contenuto, il gemito che può uscire dalla labbra di un folle o di un sordo che non ha mai imparato a parlare. Sembrava che quei vocalizzi fossero l’accompagnamento alla sua marcia.
Superò i due bimbetti che all’unisono presero a seguirlo, imitando il suo incedere erratico e ridacchiando tra loro, dapprima timidamente, poi con sfrontatezza crescente, mentre l’oggetto del loro scherno li ignorava del tutto.
Si diressero verso la parte bassa della città e presto la processione si allargò e altri bambini si unirono alle file, ansiosi di imitare quell’uomo singolare, aggiungendosi allo sgangherato corteo di mimi e dileggiatori, e attirarono anche i cani randagi che presero ad abbaiare senza senso e a balzellare intorno alla sfilata.
Chi non era andato a raccogliere tabacco, fichi o uva sultanina e si ritrovava in città, si affacciò alla porta e restò ad osservare a bocca aperta quel selvaggio e il suo seguito. Alcune donne strapparono i figli dal corteo, ma a questi se ne sostituirono presto dei nuovi. Nei caffè gli uomini smisero di giocare a backgammon e uscirono in strada con le grosse sigarette strette fra le labbra e i fez variamente inclinati sulla testa. Si scambiarono sorrisi divertiti o sardonici commenti, per poi scrollare le spalle e tornare ad oziare.
I due bimbetti si confrontavano le dita dei piedi: l’unica cosa che queste avevano in comune era l’infarinatura bianca della polvere della strada e l’abbronzatura intensa del sole d’inizio estate.
Karatavuk stava mostrando all’amico che era capace di muovere un dito alla volta, mentre l’altro se ne stava tutto compreso nello sforzo di emularlo, quando avvertirono la presenza di qualcuno che, giunto sulla cima del colle, avanzava verso di loro.
Si resero conto della sua stranezza prima ancora di vederlo da vicino. Aveva un’andatura esagerata e irregolare, quasi fosse abituato ad andare così di fretta da non riuscire a tenere un passo misurato. Inoltre non procedeva in linea retta, ma piegava continuamente di qua e di là, tanto che le impronte prodotte disegnavano nella polvere la traccia ondeggiante di un rigagnolo o di un serpente.
I bimbetti raddrizzarono la schiena e, in preda ad un misto di fascinazione e paura, lo guardarono avvicinarsi. D’un tratto balzarono in piedi con l’idea di scappare, ma qualcosa nel contegno di quell’uomo impedì loro di farlo. Era come se non vi fosse alcun pericolo, come se lui non vivesse in quel mondo e non potesse nemmeno vederli.
E fu proprio così, non li vide.
Alto e magrissimo, con gambe ossute rese muscolose da anni di marce, indossava solo un cencioso lenzuolo grigio con un buco per la testa, che a malapena gli arrivava alle ginocchia. Un pezzo di corda gli cingeva la vita, e il peso del nodo sul davanti salvava a stento la decenza. Nella mano destra stringeva una lunga asta di frassino logoro e con questa si aiutava a procedere alla sua innaturale velocità. La sinistra invece poggiava sul collo di un otre per l’acqua, fatto di pelle di capra bianca e attaccato a una tracolla di cuoio che gli correva di traverso sul petto.
L’uomo, lacero e stracciato, pareva non curarsi di nulla. I suoi occhi non guardavano né a destra né a sinistra e dalla massa incolta dei capelli grigi, aggrovigliati, annodati e impastati di terra, il sudore gli colava sulla fronte disegnando sentieri. Ad ogni passo emetteva un gemito inarticolato, come a soffocare un dolore contenuto, il gemito che può uscire dalla labbra di un folle o di un sordo che non ha mai imparato a parlare. Sembrava che quei vocalizzi fossero l’accompagnamento alla sua marcia.
Superò i due bimbetti che all’unisono presero a seguirlo, imitando il suo incedere erratico e ridacchiando tra loro, dapprima timidamente, poi con sfrontatezza crescente, mentre l’oggetto del loro scherno li ignorava del tutto.
Si diressero verso la parte bassa della città e presto la processione si allargò e altri bambini si unirono alle file, ansiosi di imitare quell’uomo singolare, aggiungendosi allo sgangherato corteo di mimi e dileggiatori, e attirarono anche i cani randagi che presero ad abbaiare senza senso e a balzellare intorno alla sfilata.
Chi non era andato a raccogliere tabacco, fichi o uva sultanina e si ritrovava in città, si affacciò alla porta e restò ad osservare a bocca aperta quel selvaggio e il suo seguito. Alcune donne strapparono i figli dal corteo, ma a questi se ne sostituirono presto dei nuovi. Nei caffè gli uomini smisero di giocare a backgammon e uscirono in strada con le grosse sigarette strette fra le labbra e i fez variamente inclinati sulla testa. Si scambiarono sorrisi divertiti o sardonici commenti, per poi scrollare le spalle e tornare ad oziare.
Non era certo la prima volta che vedevano un mendicante vagabondo, pochi però tenevano lo sguardo puntato all’orizzonte come lui, che sembrava quasi al timone di una nave di assetati in ceca di terra. In un certo qual modo veniva da pensare che un tempo quell’uomo fosse stato importante, e che non avesse mai perso l’atteggiamento staccato e signorile di allora.
Notarono che nel suo portamento c’era qualcosa d’indomito e profetico e immaginarono fosse un derviscio** di una delle molte confraternite sufi. La città non aveva mai avuto un autentico santo locale e alcuni nutrirono l’istantanea speranza che finalmente ne fosse arrivato uno. Gli amanti del sensazionale non vedevano l’ora di assistere a miracoli e i bottegai e gli artigiani si fregavano le mani al solo pensiero di un afflusso di pellegrini. I più sofisticati dal punto di vista teologico, infine, - ma a parte l’imam va detto che praticamente non ce n’erano – si rallegrarono della comparsa di un essere disposto a faticare per il sommo bene cosmico e ad indirizzare la propria energia spirituale verso il sostegno dell’universo.
Al suo passaggio il Cane lasciò tutti perplessi per la totale assenza di richiesta di elemosina. Camminava e basta, lo sguardo fisso su un altro mondo, forse sul passato o forse sull’interiore tumulto dei propri pensieri. Superò le ultime case, piegò a sinistra e cominciò a salire, poi guadagnò il sommo della collina e si fermò a girare meccanicamente il capo da questa a quella parte, come in cerca d’ispirazione. All’improvviso, presa una decisione, puntò con nuova risolutezza verso la grotta da cui estraevano la calce, sotto lo sguardo dei bambini, ora compresi e silenziosi, molti dei quali si tenevano per mano, entrò, tastò l’aspra superficie delle pareti e fiutò l’ambiente con le narici che gli vibravano ad ogni respiro. Inalò il sudore acido delle generazioni che avevano scalpellato la roccia friabile, annusò il puzzo degli escrementi dei pipistrelli, e infine, concluso che non era quello il posto, uscì. Sempre ignorando i bambini, si diresse verso una tomba a colonna alta circa sei metri, sfiorò con aria incuriosita l’antica iscrizione licia e, battendo le palpebre nella tersa luce del cielo, levò gli occhi a valutare la possibilità di stabilirsi su quel tetto piatto, come un nuovo Simone lo Stilita. Quindi si afferrò alla roccia e s’issò per almeno un metro, con i muscoli contratti, il respiro ansimante, le dita delle mani e dei piedi che cercavano sporgenze e appigli lasciati dagli antichi costruttori e, non ancora ispirato, ritornò infine a terra. Il Cane prese allora ad esplorare i pochi sarcofagi rimasti intatti nei secoli, seguito dai bambini che si univano adesso alla sua ricerca, gli toccavano il gomito e gli indicavano la strada fra le tombe. Ma lui continuava ad ignorarli, sbirciava all’interno di ciascuna struttura, accarezzava le incisioni di leoni, guerrieri, chimere. Deluso dai sarcofaghi, forse troppo esposti al sole, si avvicinò a due grandi tombe scavate nella parete verticale di una rupe. La prima aveva la forma di un tempio, la seconda di una casa. All’interno vi erano tre panche disposte una per lato. I dipinti murali apparivano alquanto rovinati, un po’ per mano di quanti disapprovavano l’arte figurativa nei luoghi religiosi, un po’ per il fumo e la fuliggine di duemila anni di fuochi accesi dai guardiani di capre. Il Cane trovò le due spaziose tombe gradevoli e ben areate, oltre che dotate di un’ottima vista sulla valle, dunque posò l’asta, slacciò la tracolla dell’otre e sedette sul gradino, tra le colonne di quella che aveva forma di tempio.Per la prima volta guardò i bambini e sorrise.
Notarono che nel suo portamento c’era qualcosa d’indomito e profetico e immaginarono fosse un derviscio** di una delle molte confraternite sufi. La città non aveva mai avuto un autentico santo locale e alcuni nutrirono l’istantanea speranza che finalmente ne fosse arrivato uno. Gli amanti del sensazionale non vedevano l’ora di assistere a miracoli e i bottegai e gli artigiani si fregavano le mani al solo pensiero di un afflusso di pellegrini. I più sofisticati dal punto di vista teologico, infine, - ma a parte l’imam va detto che praticamente non ce n’erano – si rallegrarono della comparsa di un essere disposto a faticare per il sommo bene cosmico e ad indirizzare la propria energia spirituale verso il sostegno dell’universo.
Al suo passaggio il Cane lasciò tutti perplessi per la totale assenza di richiesta di elemosina. Camminava e basta, lo sguardo fisso su un altro mondo, forse sul passato o forse sull’interiore tumulto dei propri pensieri. Superò le ultime case, piegò a sinistra e cominciò a salire, poi guadagnò il sommo della collina e si fermò a girare meccanicamente il capo da questa a quella parte, come in cerca d’ispirazione. All’improvviso, presa una decisione, puntò con nuova risolutezza verso la grotta da cui estraevano la calce, sotto lo sguardo dei bambini, ora compresi e silenziosi, molti dei quali si tenevano per mano, entrò, tastò l’aspra superficie delle pareti e fiutò l’ambiente con le narici che gli vibravano ad ogni respiro. Inalò il sudore acido delle generazioni che avevano scalpellato la roccia friabile, annusò il puzzo degli escrementi dei pipistrelli, e infine, concluso che non era quello il posto, uscì. Sempre ignorando i bambini, si diresse verso una tomba a colonna alta circa sei metri, sfiorò con aria incuriosita l’antica iscrizione licia e, battendo le palpebre nella tersa luce del cielo, levò gli occhi a valutare la possibilità di stabilirsi su quel tetto piatto, come un nuovo Simone lo Stilita. Quindi si afferrò alla roccia e s’issò per almeno un metro, con i muscoli contratti, il respiro ansimante, le dita delle mani e dei piedi che cercavano sporgenze e appigli lasciati dagli antichi costruttori e, non ancora ispirato, ritornò infine a terra. Il Cane prese allora ad esplorare i pochi sarcofagi rimasti intatti nei secoli, seguito dai bambini che si univano adesso alla sua ricerca, gli toccavano il gomito e gli indicavano la strada fra le tombe. Ma lui continuava ad ignorarli, sbirciava all’interno di ciascuna struttura, accarezzava le incisioni di leoni, guerrieri, chimere. Deluso dai sarcofaghi, forse troppo esposti al sole, si avvicinò a due grandi tombe scavate nella parete verticale di una rupe. La prima aveva la forma di un tempio, la seconda di una casa. All’interno vi erano tre panche disposte una per lato. I dipinti murali apparivano alquanto rovinati, un po’ per mano di quanti disapprovavano l’arte figurativa nei luoghi religiosi, un po’ per il fumo e la fuliggine di duemila anni di fuochi accesi dai guardiani di capre. Il Cane trovò le due spaziose tombe gradevoli e ben areate, oltre che dotate di un’ottima vista sulla valle, dunque posò l’asta, slacciò la tracolla dell’otre e sedette sul gradino, tra le colonne di quella che aveva forma di tempio.Per la prima volta guardò i bambini e sorrise.
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**letteralmente: "cercatore di porte". In campo mistico il termine, più ancora che "mendicante" ha acquistato il significato di colui che cerca il passaggio, la soglia, l'entrata che porta da questo mondo materiale ad un paradisiaco mondo celestiale. Il termine generalmente si riferisce a un asceta mendicante oppure ad un temperamento ascetico di colui che è indifferente alle cose materiali.
Myra - Turchia: Tombe licie
Foto by Luciano Canestrari
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