Ho sempre desiderato essere un ragazzo. Tante volte, ancora adesso, chiudo gli occhi e fingo di esserlo. Allora tutta la prospettiva che ho del mondo cambia.
Perché il mio ragazzo è uno di quei meravigliosi “guaglioni” che s’incontrano solo a Napoli, o nelle isole del golfo, là dove la natura è rimasta intatta e selvaggia.
Moravia? Non c’entra con quello che faccio io. E poi, perché la gente vuole trovare sempre un’influenza sua su di me, e mai viceversa?
Elsa Morante da un' intervista di Giuseppe Grieco
I soli abitanti dell’isola che sembravano non suscitare il disprezzo e l’antipatia di mio padre erano gli invisibili, innominati reclusi del Penitenziario. Anzi, certi suoi modi romantici e maledetti potevano lasciarmi supporre che una specie di fratellanza, o di omertà, lo legasse non soltanto a loro, ma a tutti gli ergastolani e carcerati della terra. E anch’io, si capisce, parteggiavo per loro, non soltanto per imitazione di mio padre, ma per una mia naturale inclinazione, che mi faceva apparire la prigione una mostruosità ingiusta, assurda come la morte.
La cittadella del Penitenziario mi sembrava una specie di feudo lugubre e sacro: dunque vietato, e non ricordo mai, per tutta la mia infanzia e fanciullezza, di esservi entrato da solo. Certe volte, quasi affascinato, iniziavo la salita che conduce lassù, e poi, appena vedevo apparire quelle porte, fuggivo.
Durante le passeggiate con mio padre, ricordo di avere, in quei tempi, forse una volta o due, oltrepassato insieme a lui le porte della cittadella e percorso i suoi quartieri solitari. E nel ricordo della mia infanzia, queste rare escursioni sono rimaste come le traversate d’una regione assai lontana dalla mia isola.
Al seguito di mio padre io sogguardavo, dal largo stradale deserto, verso quelle finestre a bocca di lupo, intravedevo, dietro la grata dell’infermeria, il luttuoso colore bianco d’una divisa di condannato…e subito ne ritorcevo lo sguardo. La curiosità, o anche solo l’interesse, delle persone libere e felici, mi pareva insultante per i prigionieri. Il sole su quelle strade mi pareva un’offesa, e i galletti che cantavano sui terrazzi delle casupole, le palombe che tubavano lungo i cornicioni, m’irritavano lassù, per la loro indiscreta petulanza.
Solo la libertà di mio padre non mi sembrava offensiva, ma al contrario rassicurante, come una certezza di felicità, l’unica, su quella altura triste. Col suo grazioso passo rapido, un poco oscillante come il passo dei marinai, nella sua camicia celeste che si gonfiava al vento, egli mi pareva il messaggero di un’avventura vittoriosa, d’un incantevole potere.
Nel profondo dei miei sentimenti ero quasi convinto che solo per un suo misterioso disdegno, o spensieratezza, egli non si risolvesse ad esercitare tutta la sua volontà eroica, abbattendo le porte del Penitenziario e liberando i carcerati.
Veramente io non potevo immaginare limiti al suo dominio. Se avessi creduto ai miracoli, certo lo avrei stimato capace di farne. Ma, secondo quanto ho già fatto sapere, non credevo ai miracoli, né alle potenze occulte, alle quali certuni affidano il proprio destino, come le pastorelle lo affidano alle streghe, o alle fate!
*** *** ***
E quando poi, andato via il medico, mi trovai solo con quel morto, provai una scossa di nervi terribile e mi misi a singhiozzare. Il pianto m' infuriava, e insultavo il morto chiamandolo vigliacco, buffone, schifoso, perché era morto senza neanche salutarmi. Questa mi pareva la peggior cosa, e la più inaccettabile: non so quale importanza, unica, fatale, io davo a quel saluto. E m’arrabbiavo, ripensando a tutte le volte che, pur senza avere nient’altro di speciale che mi occupasse, apposta, per un’insofferenza del mio carattere, o per fare una bravata, avevo lasciato l’Amalfitano qua solo, ad aspettare inutilmente la mia visita, per giornate intere! In realtà avevo fatto benissimo: è meglio non viziare troppo il prossimo, e mandarlo ogni tanto all’inferno, altrimenti sarebbe la fine! La nostra vita andrebbe avanti pesantemente, come un barcone carico di zavorra, e ci porterebbe a fondo, a morire asfissiati…Ma in quel momento là i miei nervi non volevano conoscere ragioni: e tutte le ore e giornate che avevo trascorso a girare lontano da casa dell’Amalfitano, per fare il difficile e farlo sospirare, mi parevano addirittura dei tesori, sperperati senza nessuna soddisfazione mia!
E quei modi che aveva! Indifesi, incerti e vergognosi perché si vergognava aspramente della sua cecità, ma pure festosi, inguaribilmente festosi! La grazia dei più bei danzatori, o degli angeli, non valeva niente era di un genere inferiore, a confronto della sua! E la sua grazia, la sua eleganza adesso aumentavano la disperazione mia! Cieco maledetto, idiota! Io, se per caso davvero esisteva l’inferno, gli auguravo a quest’ora di esserci già arrivato!
Pensare che la sua compagnia fino ad ieri certa e fedele e alla mia dipendenza adesso era diventata un’impossibilità!
Questo pensiero disperato m’imbestialiva tanto che mi buttai in terra, piangendo e mordendo i ferri del suo letto. Chiamavo Amalfi! Amalfi! E mi ricordavo dei dispetti che gli avevo fatto in vita. Mi pentivo, ma al tempo stesso mi tornava quasi da ridere, al ricordo, per esempio, di certe volte che, mentre lui discorreva e mi raccontava a gran gesti i suoi sogni, d’un tratto mi allontanavo senza rumore, e andavo a nascondermi in qualche angolo, fingendo di sparire come la nebbia.. dopo un poco egli avvertiva la mia assenza e si dava a chiamarmi e a cercarmi per le stanze, a tentoni, puntando il suo bastone sui muri. E i cani aizzati dai miei cenni, invece di aiutarlo gli facevano intorno un chiasso inconcludente, come se anche loro, insieme a me si divertissero a farlo stranire.
E adesso era lui che mi lasciava chiamare senza rispondere. Se si fosse risvegliato, almeno solo per un’ora, avrebbe udito da me cose meravigliose, tutte verità senza l’ombra di una bugia, e avrebbe avuto ragione di pavoneggiarsi! Lui non sentiva né vedeva più nessuno, fino alla fine dell’eternità, e io lo sapevo. Ma pure, ad ogni costo, dovevo dargli una prova, un pegno che salvasse la nostra amicizia dalla morte.
*** *** ***
Nella sua fotografia istantanea, che è l'unica immagine a me nota di lei, mia madre non appare più bella delle altre donne. Ma da ragazzino, io dinanzi a quel suo ritratto che guardavo e rimiravo, non m’ero mai domandato se fosse brutta o bella, e nemmeno pensavo di paragonarla alle altre. Era mia madre! E non so più dire quante cose incantevoli significasse per me, a quel tempo, la sua maternità perduta.
Facendo un’eccezione per quella, nulla, nell’oscuro popolo delle donne, mi pareva importante; e non m’interessava molto d’indagare i loro misteri. Tutte le grandi azioni che m’affascinavano sui libri erano compiute da uomini, mai da donne. L’avventura, la guerra, la gloria erano privilegi virili. Le donne invece erano l’amore; e nei libri si raccontava di persone femminili regali e stupende. Ma io sospettavo che simili donne, e anche quel meraviglioso sentimento dell’amore, fossero soltanto un’invenzione dei libri, non una realtà. L’eroe perfetto esisteva davvero, io ne vedevo la riprova in mio padre; ma di donne splendenti, sovrane dell’amore, come quelle dei libri, io non ne conoscevo nessuna.
L’amore dunque, la passione, questo famoso grande fuoco, era forse un’impossibilità fantastica. Per quanto, di fatto, io fossi ignorante sul conto delle donne reali, mi bastava di intravederle appena per concludere che non avevano nulla in comune con quelle dei libri. Secondo il mio giudizio, le donne reali non possedevano nessuno splendore e nessuna magnificenza. Erano degli esseri piccoli, non potevano mai crescere quanto un uomo, e passavano la vita rinchiuse dentro camere e stanzette: tutte infagottate nei loro grembiuli, gonne e sottane, in cui dovevano sempre tenere nascosto, per legge, il loro corpo misterioso, esse mi parevano figure goffe, quasi informi. Erano sempre affaccendate, sfuggenti, si vergognavano di se stesse, forse perché erano così brutte; e andavano come animali intristiti, diversi in tutto dall’uomo, senza eleganza né spavalderia. Spesso si riunivano in crocchio e discorrevano con gesti appassionati, gettando delle occhiate intorno per paura che qualcuno potesse sorprendere la loro segretezza. Dovevano avere molti segreti comuni, chi sa quali? Certo, tutte cose puerili! Nessuna certezza assoluta poteva interessarle.
I loro occhi erano tutti quanti di uno stesso colore: neri! I loro capelli, di tutte quante, erano scuri, rozzi e selvaggi. Davvero per quello che mi riguardava, esse potevano tenersi lontane quanto volevano da me. Certo io non mi sarei mai innamorato di una di loro e non volevo sposarne nessuna.*** *** ***
Uh, quanto sono brutte, meglio non pensarci a quanto sono brutte. E ne vengono su dovunque, per tutta la terra; si moltiplicano a migliaia, a milioni, questi insulti di natura. Chi sa se anche negli altri pianeti, nella luna, ne esistono? E più ne riescono fatte a regola, a perfezione per così dire, e più sono brutte. Meschine loro, è proprio lo stampo della loro razza, che è amaro. Ma perché, come si spiega?
Nel creato tutte le cose sono così ben fatte; perfino le cose di nessuna importanza: un filino d’alga! un fiumiciattolo! un pesciolino, un pidocchietto delle rose, una fogliuccia di cicoria, tutte le cose hanno un che di azzeccoso, di simpatico, che ti fa dire: ah meraviglia dell’universo!
Quant’è bello, che piacere vivere. Perfino quando ti capita d’incontrare un tipo di cristiano un poco storpiato, un tipo di rifiuto di leva, stortarello, nano e a prima vista pensi: costui è brutto assai; sissignore, perfino in questo caso, poi, a guardare bene, sempre qualche cosa trovi da poter dire: però in fondo non è del tutto spiacente.
Sì, sì, in qualunque scorfano, in qualunque ragno, ad osservarli bene, ci si può riconoscere il segno di quella manina artistica e fatata che ha formato tutte le cose dell’universo.
Solamente per un’unica razza, le donne, non c’è stata misericordia. A loro è toccata la bruttezza e nient’altro. Saranno d’un'altra manifattura, questa è l’unica possibile spiegazione.
A simile discorso, recitato in modo di commedia, noialtri due scoppiammo a ridere. Allora mio padre con aria indolente, mi gettò una buccia d’arancia e mi apostrofò dicendo:
- Tu, moro: invece di ridere tanto, sarebbe meglio che ci facessi sentire la tua idea, sulla bellezza delle donne. Per esempio, che ne pensi tu, di questa sposa? Ti pare bella o brutta?-
Io mi sentii avvampare in volto, perché non ero preparato a simile domanda, e, in verità, non sapevo nemmeno io che cosa ne pensassi precisamente, di quella sposa. Avanti di dire la mia opinione, le allungai un’occhiata, come per valutarla lì per lì.
Ma allora, in quel momento stesso mi avvidi che non mi serviva riguardarla, a mia insaputa io l’avevo nella mente già da prima, la mia idea su di lei.
Elsa Morante 1957
immagini:
Procida
Achille
Egon Schiele
Vincenzo Gemito
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