Il libro dell’inquietudine di Bernardo Soares
(Livro do desassossego por Bernardo Soares)
FERNANDO PESSOA
FERNANDO PESSOA
Con prefazione di Antonio Tabucchi
Giangiacomo Feltrinelli Editore - marzo 2009
L’unica opera narrativa che il poeta portoghese Fernando Pessoa ci abbia lasciato: un mazzo di fogli e di appunti disordinati, presi a penna e destinati ad un libro che per vent’anni rimase nel cassetto della sua mente, un libro-progetto mai decollato, un work-in-progress che non ebbe compimento.
Raccolti e messi insieme a trent’anni dalla sua morte con un'attenta opera di intarsio e tessitura da parte dei posteri, questi appunti sono defluiti in questo libro mitico, che trae oggi la sua compiutezza proprio dalla mancata realizzazione di allora.
Raccolti e messi insieme a trent’anni dalla sua morte con un'attenta opera di intarsio e tessitura da parte dei posteri, questi appunti sono defluiti in questo libro mitico, che trae oggi la sua compiutezza proprio dalla mancata realizzazione di allora.
Prosa che si fa poesia o poesia pura consegnata alla prosa?
In esso è consacrata la dissoluzione dei generi letterari a favore di un non-genere, vi è sublimata l’eteronimia di Pessoa, più avanti ripresa e sviluppata da Saramago con i suoi molteplici.
Il protagonista Soares, eteronomo dell’autore, sta alla finestra a catturare la vita , liberandola poi in un suo luogo interiore misterioso, sull'invisibile soglia che separa l’Io dall’inconscio o forse li unisce.
In esso è consacrata la dissoluzione dei generi letterari a favore di un non-genere, vi è sublimata l’eteronimia di Pessoa, più avanti ripresa e sviluppata da Saramago con i suoi molteplici.
Il protagonista Soares, eteronomo dell’autore, sta alla finestra a catturare la vita , liberandola poi in un suo luogo interiore misterioso, sull'invisibile soglia che separa l’Io dall’inconscio o forse li unisce.
Eternamente cangiante nei colori e perpetuo nei ritmi e nella forma, egli viaggia in “una galassia che non sta in nessun luogo”, ci documenta drammaticamente la sua “degustazione del nulla”.
Sublime.
///////////////////////////////M.C.Escher - 1948
Il sopraggiungere dell’estate mi rattrista. Si potrebbe credere che la luminosità delle ore estive conforti colui che non sa chi è.
Ma non è così, io non ne resto confortato. C’è un troppo forte contrasto fra l’esuberante vita esterna e ciò che sento e penso, senza saper sentire né pensare: il cadavere perennemente insepolto delle mie sensazioni. Ho l’impressione di vivere in questa patria informe chiamata universo, sotto una tirannia politica che, anche se non mi opprime direttamente, tuttavia offende qualche principio occulto della mia anima.
E allora scende in me, sordamente, la nostalgia anticipata dell’esilio impossibile..
Ho soprattutto sonno. Non un sonno che ha in sé latente il privilegio fisico della quiete. E neppure un sonno che, per essere dimentico della vita e probabile latore di sogni, offra sul vassoio con il quale ci tocca l’anima i placidi doni di una grande abdicazione. No, questo è il sonno che non riesce a dormire, che pesa sulle palpebre senza chiuderle, è il sonno che opprime il corpo durante le grandi insonnie dell’anima.
….
Quando sono sdraiato, e solo un tenue filo mi lega alla vita, con quale chiarezza descrivo nelle mie riflessioni, dettandoli all’inerzia, i paesaggi che non potrò mai narrare e le frasi che non scriverò mai! Scandisco periodi interi, perfetti in ogni loro parola; ascolto trame di drammi che esistono nella mia immaginazione, seguo verso per verso la scansione ritmica di interi poemi.
Ma non è così, io non ne resto confortato. C’è un troppo forte contrasto fra l’esuberante vita esterna e ciò che sento e penso, senza saper sentire né pensare: il cadavere perennemente insepolto delle mie sensazioni. Ho l’impressione di vivere in questa patria informe chiamata universo, sotto una tirannia politica che, anche se non mi opprime direttamente, tuttavia offende qualche principio occulto della mia anima.
E allora scende in me, sordamente, la nostalgia anticipata dell’esilio impossibile..
Ho soprattutto sonno. Non un sonno che ha in sé latente il privilegio fisico della quiete. E neppure un sonno che, per essere dimentico della vita e probabile latore di sogni, offra sul vassoio con il quale ci tocca l’anima i placidi doni di una grande abdicazione. No, questo è il sonno che non riesce a dormire, che pesa sulle palpebre senza chiuderle, è il sonno che opprime il corpo durante le grandi insonnie dell’anima.
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Quando sono sdraiato, e solo un tenue filo mi lega alla vita, con quale chiarezza descrivo nelle mie riflessioni, dettandoli all’inerzia, i paesaggi che non potrò mai narrare e le frasi che non scriverò mai! Scandisco periodi interi, perfetti in ogni loro parola; ascolto trame di drammi che esistono nella mia immaginazione, seguo verso per verso la scansione ritmica di interi poemi.
Ma se mi muovo e mi siedo al tavolo per scriverle, le parole svaniscono e i drammi si interrompono, resta soltanto una remota nostalgia, provo la duplice tragedia di sapere che non esistono, ma che non sono state solo un sogno: qualcosa di esse ancora sopravvive sulla soglia astratta del mio averle pensate, del loro essermi apparse.
Sono stato un genio in qualcosa di più che nel sogno e in qualcosa di meno che nella vita.
La mia tragedia è questa: essere l’atleta che è caduto un attimo prima del filo di lana, mentre guidava la corsa.
Sono stato un genio in qualcosa di più che nel sogno e in qualcosa di meno che nella vita.
La mia tragedia è questa: essere l’atleta che è caduto un attimo prima del filo di lana, mentre guidava la corsa.
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