ovvero
LA MIA FAMIGLIA E ALTRI ANIMALI
di Gerald Durrell (1935-1995)
Adelphi Edizioni 2008
Titolo originale: My family and other animals 1956
Traduzione di Adriana Motti
Gerald Durrell era nato in India nel 1925, ultimo di quattro figli di una famiglia di origini britanniche ma, in seguito alla morte improvvisa del padre ingegnere, nel 1928 era tornato a Londra dove vi aveva trascorso i primi anni della sua infanzia.
Questo libro spassoso e accattivante, considerato formativo per gli adolescenti ma sicuramente apprezzabile anche da lettori adulti esigenti, racconta delle fortunate contingenze che hanno consentito al giovane Gerry Durrell, divenuto in seguito naturalista e romanziere di larga fama, di abbandonare la grigia e piovosa Inghilterra nel 1935 per approdare con la madre, i fratelli e la sorella Margo, nella mitica e assolata Corfù, dove passò i cinque anni più felici della sua spensierata adolescenza.
Fanno da cornice i panorami mozzafiato dell’isola greca, orlata di spiagge vellutate e scogliere bianchissime che si specchiano nel blu profondo dello Ionio, ondeggiante di argentei oliveti, solcata da sentieri pietrosi che s’inerpicano per colline verdeggianti, decorate di vigneti e orti recintati da muretti a secco.
Superato l’iniziale scoramento procurato dall’impatto con le differenze culturali, la famiglia si mette alla ricerca di un’abitazione che tenga conto delle esigenze personali di ognuno, manco a farlo apposta abbastanza dissimili fra loro, nonché quella assolutamente indispensabile di essere dotata di una salle de bain, esigenza inconcepibile per un Greco di quell’epoca, che non riusciva ad immaginarsi che uso poter fare di una stanza da bagno, essendoci già il mare a disposizione.
Dopo infinite discussioni, sistemati in una bella villa affacciata sullo Ionio, dove ciascun membro ha finalmente preso possesso dei suoi spazi non senza aver dato vita a vere e proprie comiche, eccoli iniziare una complicata convivenza che Gerry non trascura di descriverci nei suoi dettagli più esilaranti. La vita acquista un po’ per volta i suoi ritmi regolari nel continuo andirivieni di uno zelante vicinato, desideroso di contribuire a suo modo alla costruzione dell’insediamento e dare una mano ai poveri inesperti Inglesi, ancora ignari delle usanze isolane. Prende così il via un carosello di persone che vanno e vengono ad ogni ora senza chiedere permesso: la domestica afflitta da ogni genere di acciacco e fissazione, il medico condotto, contadine folcloristicamente agghindate che portano ogni genere di prodotti; il simpatico Spiro che, col suo inglese maccheronico, ha accompagnato la mamma nelle ricerche della casa, scorazzandola in lungo e in largo per l’isola sul suo taxi scassato. Affascinato dai candidi modi della signora inglese, ma ritenendola un po’ sprovveduta, si erge a suo difensore contro immaginari nemici appostati ovunque, invadendone la privacy per potersi occupare della complessa gestione familiare come un parente acquisito.
Intanto gli istitutori occasionali di Gerry, studente recalcitrante ad applicarsi in qualsiasi materia che non tratti di scienze naturali, si rivelano piuttosto di manica larga e incapaci di domare la sua costituzionale indisciplina, finendo così per assecondare la sua ignoranza e suscitare la preoccupazione di tutta la famiglia. Fatto di cui comunque il giovane Durrell non riesce proprio a capacitarsi.
Intanto gli istitutori occasionali di Gerry, studente recalcitrante ad applicarsi in qualsiasi materia che non tratti di scienze naturali, si rivelano piuttosto di manica larga e incapaci di domare la sua costituzionale indisciplina, finendo così per assecondare la sua ignoranza e suscitare la preoccupazione di tutta la famiglia. Fatto di cui comunque il giovane Durrell non riesce proprio a capacitarsi.
Già non avesse il suo bel daffare con l' esplorazione del vasto territorio circostante e gli estenuanti appostamenti per riuscire a sorprendere, stanare e catturare sempre nuovi pupilli, portarseli a casa e allestire nelle stanze o in giardino gli appositi spazi per l’accoglienza delle creature; non di rado fra gli strilli terrorizzati e il raccapriccio dei parenti nel ritrovarseli inaspettatamente fra i piedi, magari immersi nella vasca da bagno.
Per non parlare poi dello zoo dei piccoli e grandi animali già raccattati che va sorvegliato e accudito quotidianamente; mansione a cui Gerry si dedica con diligenza assoluta, sotto l’occhio paziente del buon cane Roger, che accetta con filosofia l’obbligo di fare amicizia con le bestiole adottate, siano esse tartarughe, bisce, gufi, o il geco Geronimo che ha preso residenza nella camera del padrone.
E’ così dunque che, fra imprevisti, disastri vari, arrabbiature, traslochi e feste, Gerry ara il terreno del suo prossimo futuro di zoologo nonchè fondatore della Wildlife Conservation Trust, istituzione creata per la salvaguardia delle specie in via d’estinzione tuttora alacremente attiva in Inghilterra.
Durrell relaziona il lettore sulle sue esperienze naturalistiche con entusiasmo comunicativo, assicurandosene la simpatia con un piacevole linguaggio colloquiale, mettendo gli accenti sulle caratteristiche antropomorfe di ciascuna specie, si tratti di scorpioni, pipistrelli, o mantidi religiose, mescolando con umorismo raffinato e intelligente le sue notizie scientifiche alle esilaranti descrizioni del circo casalingo messo in scena dal suo squinternato parentado.
Dietro questa apparente anomalia familiare non manca però la genialità; a cominciare dal fratello maggiore Larry, divenuto poi illustre poeta e letterato, di cui il fratellino si diverte a parodiare lo snobismo culturale, la mancanza di praticità e le fisse maniacali. Strategico invece l’atteggiamento arrendevole e democratico della mamma che, desiderosa soprattutto di agevolare le inclinazioni naturali dei figli, simula una fermezza di cui è totalmente priva, meritandosi se non proprio la loro obbedienza, almeno il loro affetto e la solidarietà incondizionata degli isolani.
Dietro questa apparente anomalia familiare non manca però la genialità; a cominciare dal fratello maggiore Larry, divenuto poi illustre poeta e letterato, di cui il fratellino si diverte a parodiare lo snobismo culturale, la mancanza di praticità e le fisse maniacali. Strategico invece l’atteggiamento arrendevole e democratico della mamma che, desiderosa soprattutto di agevolare le inclinazioni naturali dei figli, simula una fermezza di cui è totalmente priva, meritandosi se non proprio la loro obbedienza, almeno il loro affetto e la solidarietà incondizionata degli isolani.
La narrazione è intarsiata di note biografiche che, a riprova della loro autenticità, vengono rintracciate anche nelle testimonianze di altri scrittori. Ne “Il Colosso di Marussi”, di cui si è già parlato precedentemente, l’autore americano Henry Miller racconta come nel 1939, durante un suo viaggio in Grecia, si sia trovato a soggiornare sull’isola di Corfù, ospite proprio della famiglia Durrell, e vi descrive la personalità originale del fratello maggiore Larry a cui rimase legato da profonda stima anche negli anni a seguire, quando, rientrato negli Stati Uniti, mantenne a lungo con lui un’erudita corrispondenza.
E’ questo un romanzo incantevole, dal linguaggio raffinato e variegato di elegante umorismo, inspiegabilmente poco conosciuto fuori patria, ma raccomandabile al grande pubblico in cerca di prodotti sofisticati, che ne trarrà piacere e arricchimento dalla prima all’ultima pagina.
Da segnalare una volta di più l’ottima traduzione della straordinaria Adriana Motti, insuperabile nel compito non sempre facile di interpretare senza sbavature l’intenzione ironica degli autori.
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E’ questo un romanzo incantevole, dal linguaggio raffinato e variegato di elegante umorismo, inspiegabilmente poco conosciuto fuori patria, ma raccomandabile al grande pubblico in cerca di prodotti sofisticati, che ne trarrà piacere e arricchimento dalla prima all’ultima pagina.
Da segnalare una volta di più l’ottima traduzione della straordinaria Adriana Motti, insuperabile nel compito non sempre facile di interpretare senza sbavature l’intenzione ironica degli autori.
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///C’era un geco che aveva prescelto come territorio la mia camera da letto, e io finii col conoscerlo molto bene e lo battezzai Geronimo, perché i suoi assalti contro gli insetti sembravano astuti e ben studiati, come tutte le imprese compiute da quel famoso pellerossa. Geronimo sembrava più in gamba di tutti gli altri gechi. Tanto per cominciare viveva solo, sotto a una grossa pietra nell’aiuola di zinnie ai piedi della mia finestra e vicino alla sua casa non tollerava altri gechi; quanto a questo, ad un geco estraneo non avrebbe nemmeno consentito di entrare nella mia camera.
Si svegliava più presto degli altri suoi simili, zampettava su per il precipizio di bianco intonaco scaglioso, finché non raggiungeva la finestra della mia camera e giunto là faceva capolino oltre il davanzale, guardandosi curiosamente intorno e muovendo la testa su e giù due o tre volte, non sono mai riuscito a capire se per salutarmi o perché era soddisfatto di trovare la stanza come l’aveva lasciata.
Se ne restava sul davanzale con la gola palpitante finché non faceva buio e non veniva portata una lampada; e in quella luce dorata sembrava che cambiasse colore, passando da un grigio cenere ad un pallido traslucido color perla rosato che metteva in risalto il nitido disegno a pelle d’oca delle sue squame. Con gli occhi luccicanti di gioia zampettava lungo il muro sino al suo posto preferito, l’angolo esterno a sinistra del soffitto e lì restava attaccato a testa in giù in attesa che comparisse il suo pasto serale.
Aveva una vista incredibilmente acuta perché più volte lo vidi sbirciare una minuscola falena dall’altra parte della stanza e fare tutto il giro del soffitto per arrivare abbastanza vicino da riuscire a catturarla.
Il suo atteggiamento verso i rivali che cercavano di invadere il suo territorio era molto esplicito. Non appena quelli si issavano sul bordo del davanzale e si fermavano un attimo per riposarsi dopo la lunga arrampicata, subito si sentiva un trepestio e Geronimo attraversava il soffitto come un fulmine, si precipitava giù lungo la parete e atterrava con un leggero tonfo sul davanzale. Prima che l’intruso potesse fare un solo gesto, Geronimo gli era addosso. Il particolare curioso era che lui non assaliva il nemico alla testa o al corpo, come tutti gli altri gechi. Puntava diritto alla coda dell’avversario, e afferrandola con la bocca, a due millimetri circa dalla punta, ci si attaccava come un bulldog e la scrollava di qua e di là. L’intruso, snervato da questo vile e insolito sistema di attacco, ricorreva immediatamente al venerando stratagemma difensivo delle lucertole: mollava la coda e fuggiva a tutta velocità, oltre il bordo del davanzale e giù lungo il muro verso l’aiuola di zinnie. Geronimo, ansando un poco per lo sforzo, restava trionfante sul davanzale, con la coda del nemico che gli pendeva dalla bocca e sferzava l’aria come un serpente. Accertandosi che il rivale se ne fosse andato, Geronimo si metteva comodo e cominciava a mangiarsi la coda, un’abitudine disgustosa, che io disapprovavo con tutta l’anima. Ma evidentemente era il suo modo di festeggiare la vittoria, e lui non era del tutto felice finché la coda non si trovava al sicuro nel suo stomaco prominente.
Se ne restava sul davanzale con la gola palpitante finché non faceva buio e non veniva portata una lampada; e in quella luce dorata sembrava che cambiasse colore, passando da un grigio cenere ad un pallido traslucido color perla rosato che metteva in risalto il nitido disegno a pelle d’oca delle sue squame. Con gli occhi luccicanti di gioia zampettava lungo il muro sino al suo posto preferito, l’angolo esterno a sinistra del soffitto e lì restava attaccato a testa in giù in attesa che comparisse il suo pasto serale.
Aveva una vista incredibilmente acuta perché più volte lo vidi sbirciare una minuscola falena dall’altra parte della stanza e fare tutto il giro del soffitto per arrivare abbastanza vicino da riuscire a catturarla.
Il suo atteggiamento verso i rivali che cercavano di invadere il suo territorio era molto esplicito. Non appena quelli si issavano sul bordo del davanzale e si fermavano un attimo per riposarsi dopo la lunga arrampicata, subito si sentiva un trepestio e Geronimo attraversava il soffitto come un fulmine, si precipitava giù lungo la parete e atterrava con un leggero tonfo sul davanzale. Prima che l’intruso potesse fare un solo gesto, Geronimo gli era addosso. Il particolare curioso era che lui non assaliva il nemico alla testa o al corpo, come tutti gli altri gechi. Puntava diritto alla coda dell’avversario, e afferrandola con la bocca, a due millimetri circa dalla punta, ci si attaccava come un bulldog e la scrollava di qua e di là. L’intruso, snervato da questo vile e insolito sistema di attacco, ricorreva immediatamente al venerando stratagemma difensivo delle lucertole: mollava la coda e fuggiva a tutta velocità, oltre il bordo del davanzale e giù lungo il muro verso l’aiuola di zinnie. Geronimo, ansando un poco per lo sforzo, restava trionfante sul davanzale, con la coda del nemico che gli pendeva dalla bocca e sferzava l’aria come un serpente. Accertandosi che il rivale se ne fosse andato, Geronimo si metteva comodo e cominciava a mangiarsi la coda, un’abitudine disgustosa, che io disapprovavo con tutta l’anima. Ma evidentemente era il suo modo di festeggiare la vittoria, e lui non era del tutto felice finché la coda non si trovava al sicuro nel suo stomaco prominente.
///Su Margo la primavera aveva sempre un effetto deleterio. In quella stagione il suo interesse per il proprio aspetto estetico, sempre molto accentuato, diventava quasi ossessivo. Pile di vestiti appena lavati e stirati ingombravano la sua stanza, mentre le corde del bucato si piegavano sotto il peso di quelli stesi ad asciugare. Coglieva tutte le occasioni per precipitarsi nella stanza da bagno in un turbine di candidi asciugamani, e una volta dentro era riluttante a uscirne, come una patella a lasciare il suo scoglio. Tutti noi a turno bussavamo alla porta protestando a gran voce, ottenendo soltanto la vaga assicurazione che aveva quasi finito, assicurazione alla quale un’amara esperienza ci aveva insegnato a non credere. Finalmente luminosa e immacolata, usciva dal bagno e se ne andava canticchiando a prendere il sole negli uliveti, o giù al mare a farsi una nuotata. E proprio durante una di queste escursioni al mare conobbe un giovane turco eccezionalmente bello. Con insolita modestia non parlò con nessuno dei suoi frequenti incontri balneari con questo impareggiabile cavaliere, convinta come ci disse più tardi, che la cosa non ci avrebbe interessati.
Naturalmente fu Spiro a scoprire tutto. Vegliava sulla felicità di Margo con la zelante premura di un San Bernardo e lei poteva fare ben poco senza che Spiro lo sapesse.
Una mattina lui bloccò mamma in cucina, si guardò furtivamente intorno per accertarsi che nessuno ascoltasse, sospirò profondamente e le diede la notizia.
“Sono molto dispiaciuto dover dire questo, signora Durrell – borbottò – ma penso che lei devi sapere.”
Mamma ormai si era abituata all’aria cospirativa di Spiro quando veniva a darle qualche informazione sulla sua figliolanza, e non se ne preoccupava più.
“Che cosa c’è stavolta, Spiro?” domandò.
“E’ la signorina Margo” disse Spiro afflitto.
“Che cosa ha fatto?”
Spiro si guardò intorno a disagio.
“Sai che lei incontra un uomo?” domandò in un vibrante sussurro.
“Un uomo?? Oh …ehm…sì, lo sapevo” mentì mamma arditamente.
Spiro si tirò i pantaloni sulla pancia e si protese verso di lei.
“Ma lei sapevi che è un turco?” domandò con accento di agghiacciante ferocia.
“Un turco? "disse mamma in tono vago. "No non sapevo che era un turco. Che c’è di male?”
Spiro prese un’aria scandalizzata.
“Che c’è di male? Ma signora Durrell! E’ turco. Io non mi fiderei di un figliodiputtana turco con nessune ragazze. Le taglia la gola, ecco che fa. Dico davvero signora Durrell, non è sicuro che la signorina Margo nuota con lui.”
“D’accordo, Spiro.” disse dolcemente mamma “ne parlerò con Margo.”
“Io solo penso che lei devi saperlo, ecco tutto. Ma non si preoccupa…se lui fa qualche cosa a signorina Margo, io sistemo il bastardo.”
.....
///Non passò molto ed ebbi la sgradita notizia che mi era stato trovato un altro insegnante. Stavolta si trattava di un certo signor Kralevsky, un individuo che discendeva da una complessa mescolanza di nazionalità, ma che era prevalentemente inglese.
La famiglia mi informò che era un uomo molto simpatico e che per giunta si interessava agli uccelli, sicchè saremmo andati d’accordo.
Io comunque non mi lasciai affatto impressionare da questo particolare: avevo conosciuto un sacco di persone che dichiaravano di interessarsi agli uccelli e che poi si erano rivelate dei perfetti ciarlatani che non sapevano come fosse fatta un’upupa, o non sapevano distinguere un codirosso da un tordo comune.
Ero certo che la famiglia avesse escogitato quest’insegnante appassionato di uccelli nel semplice tentativo di farmi soffrire meno all’idea di dovermi rimettere a studiare. Ero sicuro di scoprire che la sua fama di ornitologo era dovuta al fatto che a quattordici anni aveva avuto in casa un canarino. Quindi mi recai in città per la mia prima lezione nel più tetro degli stati d’animo.
......
......
(Gerald Durrell)
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