Si fermava dall’altra parte della strada, con le mani sui fianchi e, guardando l’edificio la faccia gli si distendeva in un’espressione ammirata.
- Eccola là, ragazzo. Non è carina? Sai chi l’ha costruita?
- Sei stato tu, papà.
- Niente male, davvero niente male.
- E’ una bellezza, papà.
- Durerà mille anni.
- Perlomeno.
- Guarda quella pietra, quei gradini. Vengono giù come acqua.
- Stupendi.
- Una cosa grande.
Mi metteva una mano sulla spalla. – Andiamo ragazzo, c’è qualcos’altro che voglio mostrarti.
Eccoci quindi su Maywood: dopo due isolati c’era la chiesa metodista con il suo campanile di pietra e in cima la celletta a vista e le pareti ricoperte d’edera. Cinque minuti di silenzio, di ammirazione rituale: rapidi sguardi verso il campanile, in quell’aria di magia impregnata della gioia di mio padre, i cui occhi danzavano sui dettagli del proprio manufatto, il cui viso era soffuso di contentezza.
- L’ho fatta io, affermava, - Sissignore: l’ho fatta io.
- Certo che sì.
Via di nuovo, di corsa, appresso a lui. Il municipio, la Banca della California, la sede dell’azienda dell’acqua e dell’energia, in stile spagnolesco, col colonnato di cotto e il tetto di tegole rosse…..
E poi via alla San Elmo High School, con qualche pausa rispettosa in corrispondenza di siti di un certo interesse….
La scuola, mattoni rossi e immense scalinate di pietra; e papà, le mani dietro alla schiena che socchiudeva gli occhi al fumo del suo sigaro.
- Non noti niente?
Scuotevo il capo. Era una dannatissima scuola, che altro?
- Guarda bene. Non si vede, non lo vedrai mai, ma io te lo mostrerò.
I miei occhi andavano a posarsi sull’epigrafe in mezzo alla facciata dell’edificio SAN ELMO HIGH SCHOOL – 1936.
- Non quella, protestava, seccato – Guarda il palazzo! Che cos’ha di speciale?
- L’hai costruito tu.
- Che altro? Cos’è quello che non vedi?
- Come posso saperlo se non lo vedo?
- Puoi se usi la testa.
Avanzavo allora lo sguardo verso il muro della scuola e lo toccavo qua e là, esaminandolo di sopra e di sotto, per largo e per lungo, stufo marcio di quel viaggio nel suo ego in cui ero costretto a recitare quella stupida parte.
- Non vedo niente.
- Quello che vedi è un edificio che è passato indenne attraverso quattro terremoti. Ora guarda da vicino e dimmi ciò che non riesci a vedere.
- I morti.
Scuoteva il capo seccatissimo. – Razza d’asino! Io dico le crepe! Le crepe del terremoto. Trovami una sola crepa in quel muro. Avanti.
- Non posso, dal momento che non ce n’è.
- Orbene. Cos’ha di evidente quest’edificio proprio perché non si può vedere?
- Le crepe.
- Perché?
- Perché l’hai costruito tu.
Si frugava in tasca. – Eccoti un quartino. Non spenderlo tutto in una volta.
Io lo pigliavo e scappavo via finalmente libero.
Altre volte mi toccava il giro al Valhalla Cemetery, subito fuori città. Poteva accadere inaspettatamente di domenica pomeriggio, ed era allora un duro cimento, una vera agonia per un tredicenne che doveva scendere in campo come lanciatore contro i Nevada City Tigers alle due in punto ed era già l’una e mezza, ma lui era del tutto indifferente alla tua casacca, al guantone e all’imbottitura, e ti toccava andargli dietro ben sapendo che il campo di gioco si trovava a dieci isolati di distanza dall’altra parte della città.
Il Valhalla Cemetery brulicava di angeli marmorei fatti da mio padre, con le braccia e le lunghe dita distese, con le loro facce arcigne da sparvieri, spaventevoli apparizioni che parevano avvoltoi nell’atto di proteggere una carogna. Dovunque fossero appollaiati, si aveva l’impressione che già avessero profanato le tombe.
In fondo al viale fiancheggiato dai cipressi c’era l’enorme busto del sindaco Hal Shriner, austero, dalla mascella d’acciaio, con l’espressione minacciosa e crudele di un politico truffaldino che ti fissava da un piedistallo al di sopra della fossa: gli occhi vuoti, qualche caccola d’uccello sui capelli di pietra. Mio padre si scappellava e guardava, ammirato, come un turista incantato dal David di Michelangelo; io intanto davo colpi al mio guantone da baseball, impaziente. - Fanno nove anni da quando è morto - rimuginava mio padre. - Ormai se n’è andato, finito. –
I suoi occhi incrociavano quelli del sindaco – Salve, sindaco, vecchio figlio di puttana, come ti trattano laggiù?
Io facevo vagare il mio sguardo su quel mare di lastre tombali e gemevo. Mi pareva che avessimo ancora interi acri da attraversare. Il mondo intero si era tramutato in un cimitero. Bel modo di riscaldarsi prima di una partita di baseball! Lui lo sapeva perché fremevo e ribollivo, scalpitando sulla ghiaia con le mie scarpe chiodate: sapeva ma non gliene importava un fico mentre solennemente si dirigeva, lungo il viale, alla tomba della vecchia Loretta Stevens, la bibliotecaria, modellata a forma di libro aperto, con le date della defunta cesellate sulla pagina aperta.
Ditemi come si può vivere una vita ignorando la piacevole lettura di John Fante. La sua signorilità che non viene mai meno neppure nell'uso (infrequente) del turpiloquio, le sue decisioni brucianti affossate da rapidi ripensamenti; e che occhio attento, che eleganza di stile, che facilità di linguaggio e quale sopraffina ricercatezza nell'impiego dei termini più semplici. Finchè non lo conosci non sai cosa ti stai perdendo, ma dopo che l'hai conosciuto diventa un’altra faccenda: chi me lo risarcisce tutto il tempo perduto? Come non essersi accorta per anni che Antonio Banderas è un vicino di casa. Un'occasione buttata al vento, una vita a ramengo, con danno esistenziale emergente per cui fare causa all’amministratore di condominio..
Spiegatemi un po’ voi perché, per esempio, nella società mediatica di oggi, si debba venire a conoscere tutto, ma proprio tutto, di quella imbelinata vita di Belan e non aver mai sentito nominare da nessuno un genietto come John Fante. Ditemi perché, girando tutte le librerie della “grande metropoli itagliana", non si riesca a trovare una sola copia dei racconti di Flannery O’ Connor e si venga invece travolti dalla valanga di copie, fra stampe e ristampe, del Volo di Fabio? C'è di peggio, lo ammetto, ma è pur vero che c'è anche di meglio e questo meglio è sempre più arduo riuscire a procurarselo.
Che andassero un po’ affannnculo quelli che tengono i cordoni della cultura di massa, scribacchini da monnezza, bottegai del papier hygiénique imprimé, merdivendoli disalfabetizzanti, notiziaristi inabili a qualsiasi informazione che meriti più di trenta secondi di ascolto.
E tanto per rimanere in tema, nella pausa che mi sono concessa per sbocconcellare qualcosa seduta davanti al TG5 delle 13,00, ecco che ti sento dire da uno di questi telegeni, proprio pochi minuti fa.
Riferendo di un' impiegata infedele delle Poste italiane , che avrebbe nel corso della sua modesta carriera sottratto alla consegna qualcosa come quindicimila missive: L'ha fatto per il carico di lavoro TROPPO ECCESSIVO. Ora va bene enfatizzare tutto, come vostra abitudine, lo teniamo in conto, ma “troppo eccessivo” è veramente troppo!
O è troppo o è eccessivo, d'accordo?.
E tutti i giorni ce n'è qualcuna di nuova. Sarà mai possibile che lì dalle vostre parti non ci sia nessuno allergico a tutta sta vergogna che producete e spiattellate davanti a milioni di vittime ? E guadagnatevelo un po' lo stipendio che di tasca nostra vi paghiamo, oppure fateci il piacere di sloggiare. (Dove le ho già sentite ste parole?)
Vabbè, colpa mia! che ho sempre 'sta fissa dei TIGGI’: manco dovesse cadere il governo da un momento all'altro!
Meglio avrei fatto ad impegnami nella preparazione di qualche manicaretto succulento: leggere della signora Molise, cuoca sopraffina che, con gli odori mediterranei e afrodisiaci emanati dalla sua cucina, richiama affetto a volontà e commensali alla sua tavola quanti ne vuole, mi ha risvegliato il capriccio di una bella spaghettata con le melanzane. Quanto sarà che non mangio un piatto di spaghetti? Un anno, se togliamo quelle due, tre volte in cui mi sono lasciata tentare al ristorante.
Ci vogliono spaghettini numero 3 o 4 cotti ben al dente, calcolando un minuto di meno sul tempo di cottura raccomandato, e melanzane affettate fini, passate preventinamente nell'olio bollente, e ben asciugate dall'unto in eccesso sull'apposita carta assorbente.
In un largo tegame si fa poi scaldare un po' d'olio a bassa temperatura, con alcuni spicchi d'aglio, un pizzico di origano e un peperoncino, ci si buttano a tempo giusto le melanzane con la passata di pomodoro, si sala e si lascia andare a fuoco lento intanto che la pasta cuoce. Bisogna saper conciliare bene i tempi di preparazione perchè la pasta non deve venir pronta in anticipo altrimenti incolla. Va buttata nel tegame a fine cottura e spadellata con le melanzane e, solo alla fine, con l'aggiunta di due cucchiaiate di ricotta fresca. Un po' di parmigiano grattato in cima non guasta. Il trucco sta tutto nell'uso di ingredienti di ottima qualità, soprattutto per l'olio, compreso quello usato per la friggitura iniziale, l'origano che deve essere fresco, ancora attaccato al suo rametto, e la ricotta, che io suggerisco di pecora, perchè dei formaggi vaccini, al di là del parmigiano, credo non ci sia molto da fidarsi.
E' chiaro che la signora Molise, anche seguendo una ricetta diversa da questa che è la mia, (regolatevi di conseguenza se vorrete fare degli esperimenti) non avrebbe avuto tempo restante per occuparsi di telegiornali: la sua soddisfazione si sarebbe misurata interamente sull'appetito dei commensali riuniti e sull'onore fatto alla sua abilità di cuoca. Sono scelte. Basta! Finché non spiove non mi scollo più dal libro; non penso, non sento, non parlo e non esco; voglio fare indigestione di John Fante e della signora Molise, donna timorata di Dio e del marito, e di Nick Molise, muratore eccelso e gran figlio di puttana e di tutta la combriccola di squinternati che gli fanno corona.
Lo voglio come risarcimento, ingozzarmi delle sue chicche fino a sentirmi scoppiare la pancia e la testa e, quando sarò finalmente sazia, manderò un ringraziamento telepatico a quel vecchio dannato di Bukowski, che nel suo romanzo "DONNE" ha avuto il merito di officiare il rito di resurrezione di questo autore dalla tomba della mia memoria: sarà stato merito tuo, caro zio Hank, tuo e di quell' adorabile nipote che tieni e che ci ha presentati, se non morirò avendo ignorato il grande John Fante.
E' una regola da cui non si scappa, che se non si muore ignoranti di una cosa si dovrà morire ignoranti di un’altra, non siamo enciclopedie, l’importante è non rendersene conto.
Ignorare la propria ignoranza è un fattore determinante per tutelarsi dall'infelicità…
La notte era fredda e nebbiosa. Portai i bagagli e un sacco di attrezzi dal furgone alla casetta sette. Era una tipica sistemazione da motel: cucinotto con bar, divano, tappeto e un paio di poltrone, un televisore e il letto.
Il letto non mi piacque. Era matrimoniale, il che voleva dire che avrei dovuto dormire con il vecchio. Infastidito mi ci sedetti sopra e considerai il dilemma. Mai avevo dormito con mio padre. Raramente l'avevo appena toccato in vita mia, a parte qualche isolata stretta di mano nel corso degli anni, e adesso proprio non avevo nessuna voglia di dormirci assieme. Considerai le sue vecchie ossa, la sua vecchia pelle, la sua vecchiezza solitaria e stramba, quella vecchiezza fradicia di vino che era sua e di quei suoi amici beoni e immorali; e considerai che razza di figlio di puttana era stato, un irragionevole wop, tirannico, zoticone, dissipato che mi aveva attirato nel tranello di questo safari su per le montagne, lontano da casa, dalla moglie, dal lavoro, e tutto per via della sua leziosa vanità, tutto per far vedere che era ancora un mastro di prima categoria.
E allora tutto mi tornò in mente. Avevo dieci anni e mi trovavo ad un ballo per strada a San Elmo, era la festa del 4 luglio. Me ne stavo da parte, ai margini del ballo. A frugare nei bidoni dell’immondizia. Nell’oscurità intravidi un uomo e una donna che facevano l’amore appoggiati a una cabina del telefono, la donna si teneva alzata la sottana e l’uomo le si spingeva addosso. Sapevo che cosa stavano facendo, però ebbi paura e mi accucciai dietro una pila di cassette. Mano nella mano l’uomo e la donna vennero nella mia direzione. L’uomo era mio padre. La donna era Della Lorenzo, una che abitava a due porte da noi, era sposata e aveva due figli, miei compagni di scuola.
Da quel momento in poi non giocai più coi fratelli Lorenzo. Provavo vergogna a guardarli in faccia. E odiavo mio padre, odiavo la signora Lorenzo, mi sembrava così ordinaria, così sciatta e banale. Odiavo la casa dei Lorenzo e il loro cortile. Presi a calci il loro bastardino e tirai il collo a uno dei loro pollastri. Quando l’anno dopo la signora Lorenzo morì di cancro al seno rimasi indifferente. Se l’era voluta. E senza dubbio adesso si trovava all’inferno, a preparare il posto a mio padre.
Brani tratti da:
La confraternita dell'uva
di John Fante.