L'altra verità - Diario di una diversa
Alda Merini 1986
Rizzoli BUR 2000
Quando venni ricoverata per la prima volta in manicomio ero poco più di una bambina, avevo sì due figlie e qualche esperienza alle spalle, ma il mio animo era rimasto semplice, pulito, sempre in attesa che qualcosa di bello si configurasse al mio orizzonte. Insomma ero una sposa e una madre felice anche se talvolta davo segni di stanchezza e mi si intorpidiva la mente. Provai a parlare di queste cose a mio marito, ma lui non fece cenno di comprendere e così il mio esaurimento si aggravò, le cose andarono di male in peggio tanto che un giorno, esasperata dall’immenso lavoro e dalla povertà, in preda ai fumi del male diedi in escandescenze e mio marito non trovò di meglio che chiamare un’ambulanza non prevedendo certo che mi avrebbero portata in manicomio.
….
Ci svegliavano di buon’ora alle cinque del mattino e ci allineavano su delle pancacce in uno stanzone orrendo che precludeva alla stanza degli elettroshock: così ben presente potevamo avere la punizione che ci sarebbe toccata non appena avessimo sgarrato. Per tutto il giorno non ci facevano fare nulla, non ci davano sigarette né cibo al di fuori del pranzo e della cena; e vietato era anche il parlare.
….
D’altra parte, trattandosi tutte di forme schizofreniche e paranoidee, ben poco ci sarebbe stato da dire con le altre malate. Ma io stranamente rimanevo lucida e attenta; io avevo voglia di qualche cosa di buono, di ancora sensibilmente umano, avevo voglia di innamorarmi: ma di chi?
Le notti per noi malati erano particolarmente dolorose. Grida, invettive, sussulti strani, miagolii, come se si fosse in un connubio di streghe. I farmaci che ci propinavano erano o troppo tenui o sbagliati, per cui pochissime di noi riuscivano a dormire. D’altra parte di giorno non facevamo nulla e se la sera si era tentati di rimanere alzati un po’, subito venivamo redarguiti aspramente e mandati a letto con le fascette, corde di grossa canapa dentro le quali ci infilavano i piedi e le mani perché non potessimo scendere dai lettucci. Urlare sì, potevamo; nessuno ce lo impediva, tanto che qualche volta un malato a furia di urlare finiva col ricadere esangue sul proprio letto.
….
Come ho detto, dieci anni sono molto lunghi a passare e di ogni secondo, di ogni briciola di tempo, vorrei poter avere un preciso ricordo. Ma le cose non andarono così perché ogni tanto cadevo in confusione e vi rimanevo per mesi e mesi e di quel tempo non ricordo nulla.
In tutto comunque feci ventiquattro ricoveri perché molti furono i tentativi di dimettermi e di farmi tornare nel mondo dei vivi. Di fatto, quando venivo dimessa reggevo bene per qualche giorno, poi tornavo a immalinconirmi, a non mangiare più e ad essere tormentata nel sonno e non riuscivo a procacciarmi anche le più piccole necessità, di modo che dovevo essere nuovamente ricoverata.
D’altra parte non sentivo alcun legame affettivo col mondo di fuori e non mi dispiaceva nemmeno di lasciare la mia casa. E se qualche volta pensavo ai miei figli, lo facevo come se fossero distanti non so quanto dal mio pensiero. Ma nel mio cuore erano invece ben vivi e presenti.
….
Quando mi fecero la cura del Dobren ero ridotta in uno stato tragico, non potevo sedermi, non avevo un attimo di rilassamento. Quel farmaco orrendo mi teneva continuamente desta e non conoscevo il cosiddetto “respiro lungo” che in neurologia è tanto importante per il benessere.
Si vedevano in giro marionette traballanti che cercavano, disperatamente cercavano di sdraiarsi e non lo potevano fare. Era quello una specie di supplizio di Tantalo. Ma i medici dicevano che dopo ci saremmo sentiti meglio. Quel dopo non venne mai e quando fui dimessa in quello stato pericoloso, dovetti correre al più vicino centro di disintossicazione per tornare almeno un pochettino normale.
Comunque di quel tempo ricordo poco, o fingo di non ricordare.
Se fossi completamente guarita, mi ergerei certamente giudice e condannerei senza misura. Ma molti, tutti, metterebbero in forte dubbio la mia sincerità in quanto malata. E allora ho fatto un libro e vi ho anche cacciato dentro la poesia, perché i nostri aguzzini vedano che in manicomio è ben difficile uccidere lo spirito iniziale, lo spirito dell’infanzia che non potrà mai essere corrotto da alcuno.
….
Ci si aggirava per quelle stanze come abbrutiti da un nostro pensiero interiore che ci dava la caccia, e noi eravamo preda di noi stessi. Qualcuno dei malati, al colmo della disperazione, tentava di infierire su se stesso: e anche questo era giudicato malattia, e non si riconosceva al malato il suo diritto alla vita né il suo diritto alla morte. Quando una donna si tagliava le vene, veniva vituperata, dava scandalo. Nessuno andava a vedere quale groviglio di male o di pianto, o quale esterna sofferenza l’avesse portata a quella decisione. E così, anche se noi dovevamo rigare dritti come soldati e fingerci contenti, seguitavamo a morire giorno per giorno senza che gli altri se ne accorgessero. Ci pareva a noi, pareva a me, di essere messa in una lunga fila di condannati a morte, e che, ogni volta che si cadeva, una frusta pesante si abbattesse su di noi e una voce minacciosa dicesse ”Levati!”
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Ci svegliavano di buon’ora alle cinque del mattino e ci allineavano su delle pancacce in uno stanzone orrendo che precludeva alla stanza degli elettroshock: così ben presente potevamo avere la punizione che ci sarebbe toccata non appena avessimo sgarrato. Per tutto il giorno non ci facevano fare nulla, non ci davano sigarette né cibo al di fuori del pranzo e della cena; e vietato era anche il parlare.
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D’altra parte, trattandosi tutte di forme schizofreniche e paranoidee, ben poco ci sarebbe stato da dire con le altre malate. Ma io stranamente rimanevo lucida e attenta; io avevo voglia di qualche cosa di buono, di ancora sensibilmente umano, avevo voglia di innamorarmi: ma di chi?
Le notti per noi malati erano particolarmente dolorose. Grida, invettive, sussulti strani, miagolii, come se si fosse in un connubio di streghe. I farmaci che ci propinavano erano o troppo tenui o sbagliati, per cui pochissime di noi riuscivano a dormire. D’altra parte di giorno non facevamo nulla e se la sera si era tentati di rimanere alzati un po’, subito venivamo redarguiti aspramente e mandati a letto con le fascette, corde di grossa canapa dentro le quali ci infilavano i piedi e le mani perché non potessimo scendere dai lettucci. Urlare sì, potevamo; nessuno ce lo impediva, tanto che qualche volta un malato a furia di urlare finiva col ricadere esangue sul proprio letto.
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Come ho detto, dieci anni sono molto lunghi a passare e di ogni secondo, di ogni briciola di tempo, vorrei poter avere un preciso ricordo. Ma le cose non andarono così perché ogni tanto cadevo in confusione e vi rimanevo per mesi e mesi e di quel tempo non ricordo nulla.
In tutto comunque feci ventiquattro ricoveri perché molti furono i tentativi di dimettermi e di farmi tornare nel mondo dei vivi. Di fatto, quando venivo dimessa reggevo bene per qualche giorno, poi tornavo a immalinconirmi, a non mangiare più e ad essere tormentata nel sonno e non riuscivo a procacciarmi anche le più piccole necessità, di modo che dovevo essere nuovamente ricoverata.
D’altra parte non sentivo alcun legame affettivo col mondo di fuori e non mi dispiaceva nemmeno di lasciare la mia casa. E se qualche volta pensavo ai miei figli, lo facevo come se fossero distanti non so quanto dal mio pensiero. Ma nel mio cuore erano invece ben vivi e presenti.
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Quando mi fecero la cura del Dobren ero ridotta in uno stato tragico, non potevo sedermi, non avevo un attimo di rilassamento. Quel farmaco orrendo mi teneva continuamente desta e non conoscevo il cosiddetto “respiro lungo” che in neurologia è tanto importante per il benessere.
Si vedevano in giro marionette traballanti che cercavano, disperatamente cercavano di sdraiarsi e non lo potevano fare. Era quello una specie di supplizio di Tantalo. Ma i medici dicevano che dopo ci saremmo sentiti meglio. Quel dopo non venne mai e quando fui dimessa in quello stato pericoloso, dovetti correre al più vicino centro di disintossicazione per tornare almeno un pochettino normale.
Comunque di quel tempo ricordo poco, o fingo di non ricordare.
Se fossi completamente guarita, mi ergerei certamente giudice e condannerei senza misura. Ma molti, tutti, metterebbero in forte dubbio la mia sincerità in quanto malata. E allora ho fatto un libro e vi ho anche cacciato dentro la poesia, perché i nostri aguzzini vedano che in manicomio è ben difficile uccidere lo spirito iniziale, lo spirito dell’infanzia che non potrà mai essere corrotto da alcuno.
….
Ci si aggirava per quelle stanze come abbrutiti da un nostro pensiero interiore che ci dava la caccia, e noi eravamo preda di noi stessi. Qualcuno dei malati, al colmo della disperazione, tentava di infierire su se stesso: e anche questo era giudicato malattia, e non si riconosceva al malato il suo diritto alla vita né il suo diritto alla morte. Quando una donna si tagliava le vene, veniva vituperata, dava scandalo. Nessuno andava a vedere quale groviglio di male o di pianto, o quale esterna sofferenza l’avesse portata a quella decisione. E così, anche se noi dovevamo rigare dritti come soldati e fingerci contenti, seguitavamo a morire giorno per giorno senza che gli altri se ne accorgessero. Ci pareva a noi, pareva a me, di essere messa in una lunga fila di condannati a morte, e che, ogni volta che si cadeva, una frusta pesante si abbattesse su di noi e una voce minacciosa dicesse ”Levati!”
Così, consumando in un passo irragionevole la nostra esistenza, ci addentravamo nei meandri della pazzia.
Alda Merini/
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