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Qualsiasi stronzo è capace di trovarsi un lavoro; invece ci vuole cervello per cavarsela senza lavorare. Qui la chiamano l'arte di arrangiarsi. E io voglio diventare maestro di quest'arte.
Per quasi tutta la vita ho nascosto la mia pazzia dentro di me, ma è qui, esiste.
Per esempio un tale, uomo o donna, mi sta parlando di una certa cosa: bé, quando inizia a rompermi l’anima con i soliti luoghi comuni, me lo immagino con la testa sul ceppo della ghigliottina, oppure dentro un enorme tegame, a friggere, e intanto mi guarda con occhi terrorizzati. Se queste fantasie si avverassero, molto probabilmente tenterei un salvataggio, ma mentre sono lì che mi parlano non posso fare a meno di immaginarmeli così. O, più pietosamente, li vedo allontanarsi di corsa in bicicletta. Il fatto è che ho dei problemi con gli esseri umani. Gli animali, li adoro. Non mentono mai e di rado tentano di aggredirti. A volte fanno i furbi, ma questo è tollerabile. Non vi sembra?
Gran parte della mia vita da ragazzo e da adulto l’ho passata in piccole stanze, raggomitolato a guardare le pareti, le persiane rotte, i pomelli dei cassetti del comò. Non ero indifferente alla femmina, e la consideravo, ma non così tanto da dannarmi per procurarmela.
Mi piacevano i soldi, ma anche lì, come per la femmina, non volevo fare le cose necessarie per averli. Volevo appena quanto mi bastava per una stanza e qualcosa da bere. Bevevo da solo, generalmente a letto, con le cortine abbassate. A volte andavo in un bar a dare un’occhiata alla specie umana ma la specie restava sempre uguale – niente di straordinario nella migliore delle ipotesi.
In tutte le città setacciavo le biblioteche. Un libro dopo l’altro. Pochi mi dicevano qualcosa. Per lo più erano polvere nella mia bocca, sabbia nella mia mente. Nessuno aveva niente a che vedere con me o con quel che provavo; dove mi trovavo – in nessun posto – che cosa facevo – niente – e cosa volevo – sempre niente. I libri del passato servivano solo ad ingigantire il mistero di avere un nome e un corpo, di camminare, parlare, fare le cose. Nessuno sembrava corrispondere alla mia particolare pazzia.
In alcuni bar diventavo violento, ci furono risse di strada dalla maggior parte delle quali uscii pesto e sconfitto. Ma non lottavo contro nessuno in particolare, non ero inferocito, soltanto che non riuscivo a capire le persone, il loro modo di essere, di agire, di presentarsi. Entravo e uscivo di galera, venivo sfrattato dalle stanze. Dormivo sulle panchine dei parchi, nei cimiteri. Ero confuso, ma non ero infelice. Non ero cattivo. Solo che non riuscivo a ricavare niente da quello che avevo intorno. La mia violenza si contrapponeva all’evidenza del tranello, io gridavo e loro non capivano. E anche nelle risse più furibonde, guardavo il mio avversario e pensavo: perché è arrabbiato? Vuole uccidermi. Allora dovevo tirare pugni per liberarmi della bestia che avevo dentro. La gente non ha senso dell’umorismo, si prendono tutti così cazzutamente sul serio.
A un certo punto e non so proprio da dove mi sia sbucata, mi è venuta l’idea che forse avrei dovuto diventare uno scrittore. Forse potevo scrivere le parole che non avevo letto, forse così facendo, mi sarei scrollato dalla schiena quella tigre. Così ho iniziato ed è passato qualche decennio senza troppa fortuna. Adesso ero un matto scrittore. Altre camere, altre città. Sprofondai sempre più in basso. Una volta, ad Atalanta, mi stavo congelando in una baracca di carta catramata, vivevo con un dollaro e un quarto a settimana. Né acqua corrente, né luce, né riscaldamento. Stavo seduto ad assiderarmi nella mia camicia da californiano. Un mattino trovai un mozzicone di matita e cominciai a scrivere poesie sui margini dei vecchi giornali sparsi sul pavimento.
Finalmente a quarant’anni, pubblicarono il mio primo libro, una raccoltina di poesie. Era arrivato un pacco di libri con la posta; aprii il pacco e dentro c’erano i libricini, si rovesciarono sul pavimento e io mi inginocchiai fra loro, raccolsi una copia e la baciai. Questo trent’anni fa.
Scrivo ancora, nei primi quattro mesi di quest’anno ho scritto duecentocinquanta poesie. Sento ancora la follia scorrermi dentro, ma ancora non ho scritto le parole che avrei voluto, la tigre mi è rimasta sulla schiena. Morirò con addosso quella figlia di puttana, ma almeno le ho dato battaglia. E se fra voi c’è qualcuno che si sente abbastanza matto da voler diventare scrittore, gli consiglio: va avanti, sputa in un occhio al sole, schiaccia quei tasti, è la migliore pazzia che possa esserci, i secoli chiedono aiuto, la specie aspira spasmodicamente alla luce e all’azzardo e alle risate. Regalateglieli. Ci sono abbastanza parole per tutti noi. (C.B.)
sarebbe bello morire alla macchina da scrivere invece che in un letto
con il culo appiccicato a una padella fredda.
una volta andai all’ospedale a trovare un mio amico scrittore che stava morendo
un pezzetto alla volta
il peggior modo possibile.
così a ogni visita(quando era in sè) continuava a
parlarmi
della sua
scrittura (di come non fosse un dono
ma una magica ossessione)
e non si preoccupava delle
mie visite perché
lui sapeva che io capivo perfettamente che cosa stava
dicendo.
al suo funerale
mi aspettavo che si alzasse dalla
bara e dicesse: "Chinaski, è stato bello così,
ne è valsa pena" .
non ha mai saputo come ero fatto
perché prima che ci conoscessimo
era già diventato cieco,
ma sapeva che io capivo
la sua lenta e terribile
morte.
una volta gli dissi che
gli dei lo stavano punendo
perché scriveva troppo
bene.
io spero di non essere mai così
bravo, io voglio morire con la mia testa buttata su questa
macchina da scrivere
3 righe alla fine della
pagina
una sigaretta consumata tra ledita, la radio ancora accesa.
voglio solo scrivere
abbastanza bene per finire così.
C.Bukowski (per John Fante)
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