Al galoppo sul mio cavallo, sfilavo fra i ventilatori.
Avevo sette anni. Niente era più piacevole che avere troppa aria nel cervello. Più la felicità fischiava, più entrava ossigeno che faceva piazza pulita.
Tenevo le redini con una mano. L’altra mano si abbandonava ad un’esegesi della mia immensità interiore, carezzando ora il dorso del cavallo, ora il cielo di Pechino.
L’eleganza del mio equilibrio lasciava senza fiato i passanti, gli sputi, gli asini e i ventilatori.
Non avevo bisogno di spronare la mia cavalcatura. La Cina l’aveva creata a mia immagine: era una fanatica delle grandi velocità. Andava a passione interiore e a folle in delirio.
Fin dal primo giorno avevo capito l’assioma: nella Città dei ventilatori, tutto quello che non era splendido, era orribile.
Il che equivale a dire che quasi tutto era orribile.
Corollario immediato: la bellezza del mondo ero io.
Non che questi sette anni di pelle, carne, capelli e scheletro avessero di che eclissare le creature di sogno dei giardini di Allah e del ghetto della comunità internazionale.
La bellezza del mondo ero io che mi pavoneggiavo a lungo, offrendomi alla luce, era il mio cervello spiegato come una vela ai soffi dei ventilatori.
Pechino puzzava di vomito di bambino.
Nel Viale della Bruttezza Abitabile c’era solo il rumore del galoppo per coprire i raschiamenti di gola, il divieto di comunicare coi Cinesi e il vuoto terribile degli sguardi.
Avvicinandosi al recinto, il destriero rallentò per permettere alle guardie di identificarmi. Non mi trovarono più sospetta del solito.
Penetrai all’interno del ghetto di San Li Tun, dove vivevo dall’epoca dell’invenzione della scrittura, cioè da circa due anni, verso il neolitico, sotto il regime della Banda dei Quattro.
Il mondo è tutto ciò che accade – scrive Wittgenstein nella sua prosa mirabile.
Nel 1974 Pechino non aveva luogo: non vedo come potrei meglio esprimere la situazione. Wittgenstein non era la lettura preferita dei miei sette anni. Ma i miei occhi avevano anticipato il sillogismo di cui sopra per giungere alla conclusione che Pechino non aveva molto a che vedere con il mondo.
Mi adattavo: avevo un cavallo e una fame d’aria tentacolare nel cervello.
Avevo tutto. Ero un’epopea senza fine.
Mi sentivo in relazione solo con la Grande Muraglia: unica costruzione umana visibile dalla Luna, lei almeno rispettava la mia scala. Non delimitava lo sguardo, lo trascinava verso l’infinito.
Ogni mattina una schiava veniva a pettinarmi.
Lei non sapeva di essere la mia schiava. Pensava di essere una Cinese. In realtà non aveva nazionalità visto che era la mia schiava.
Prima di Pechino vivevo in Giappone, dove si trovavano le schiave migliori. In Cina la qualità delle schiave lasciava a desiderare.
In Giappone, quando avevo quattro anni, avevo una schiava che mi era molto devota. Si prosternava spesso ai miei piedi. Andava bene.
La schiava di Pechino ignorava questi usi. La mattina cominciava a pettinare i miei lunghi capelli: ma lo faceva in modo brutale. Urlavo di dolore e le affibbiavo parecchi colpi di frusta mentali. Poi mi faceva una o due trecce meravigliose, con quell’arte ancestrale della treccia cui la Rivoluzione culturale non aveva torto un capello. Preferivo che mi facesse una treccia unica: mi pareva più adatta a una persona del mio rango.
La Cinese si chiamava Tre, nome che già di suo mi sembrava inammissibile. La avvertii che avrebbe portato il nome della mia schiava giapponese, che era molto bello. Lei mi guardò stupita e continuò a chiamarsi Tre. Da quel giorno capii che c’era qualcosa di marcio nella politica di quel paese.
Certi paesi fanno l’effetto di una droga. E’ il caso della Cina, che ha lo straordinario potere di rendere pretenziosi tutti quelli che ci sono stati, e addirittura tutti quelli che ne parlano.
La pretenziosità fa scrivere. Donde una quantità straordinaria di libri sulla Cina. A somiglianza del paese che le ha ispirate, queste opere sono quanto c’è di meglio (Leys, Segalen, Claudel) o di peggio.
Non ho fatto eccezione alla regola.
La Cina mi aveva reso molto pretenziosa.
Ma io avevo una scusa che ben pochi sino mani da quattro soldi potevano vantare: avevo cinque anni quando ci sono arrivata e otto quando me ne sono andata via.
Mi ricordo molto bene il giorno in cui ho saputo che sarei andata a stare in Cina. Avevo appena cinque anni ma avevo già capito l’essenziale, cioè che avrei potuto vantarmene.
E’ una regola senza eccezioni: anche i più grandi detrattori della Cina vivono la prospettiva di metterci piede come un’investitura.
Niente dà un’aria più distinta del dire con distacco: - Sono appena tornato dalla Cina. – e ancora oggi quando trovo qualcuno che per me non ha abbastanza ammirazione, lascio cadere con voce indifferente, tra una frase e l’altra, un – Quando vivevo a Pechino -.
E’ davvero una proprietà specifica: dopotutto potrei dire altrettanto bene un : – quando vivevo in Laos – che sarebbe decisamente più straordinario. Ma è meno chic. La Cina è il classico, l’assoluto, è Chanel n° 5.
Lo snobismo non è la sola spiegazione.
L’illusione ha un ruolo enorme e invincibile. Il viaggiatore che sbarcasse in Cina senza una bella dose di fantasie Cinesi avrebbe solo una visione da incubo.
Mia madre ha sempre avuto il carattere più sereno dell’universo. La sera del nostro arrivo a Pechino, la bruttezza l’ha talmente scossa che ha pianto. E’ una donna che non piange mai.
Certo, c’erano la Città Proibita, il Tempio del cielo, la Collina Profumata, La grande Muraglia, le tombe dei Ming. Ma questo la domenica.
Il resto della settimana c’erano l’immondizia, la disperazione, il cemento, il ghetto, la sorveglianza – tutti campi in cui i Cinesi eccellono.
Nessun paese rende ciechi a tal punto: chi lo lascia parla delle cose splendide che ha visto. Pur con tutta la buona fede c’è una certa tendenza a non nominare una laidezza tentacolare che non può essere passata inosservata. E’ uno strano fenomeno. La Cina è come un’abile cortigiana capace di far dimenticare le innumerevoli imperfezioni del suo corpo senza neppure nasconderle, e di far innamorare tutti i suoi amanti.
Due anni prima mio padre aveva accolto il suo trasferimento a Pechino con un’aria grave.
Quanto a me, avevo trovato del tutto inconcepibile lasciare il villaggio di Shukugawa, le montagne, la casa, il giardino.
Mio padre mi spiegò che il problema non era quello.
- C’è la guerra? – chiesi io speranzosa.
- No.
Metto il muso. Mi fa abbandonare il mio amato Giappone per un paese che non è nemmeno in guerra. D’accordo, è la Cina, suona bene. E’ già qualcosa. Ma come farà il Giappone senza di me? L’incoscienza del Ministero mi preoccupa.
Nel 1972 si organizza la partenza. La situazione è tesa. I miei orsacchiotti di peluche vengono imballati. Sento dire che la Cina è un paese comunista. Ci tornerò su. Ma c’è di peggio: la casa si vuota degli oggetti. Un giorno non rimane più niente. E’ ora di partire.
Aeroporto di Pechino: non ci sono dubbi, è un altro paese. Per misteriosi motivi, i bagagli non sono arrivati insieme a noi. Bisogna restare qualche ora all’aeroporto ad aspettarli. Quante ore? Forse due, forse quattro, forse venti. Una delle cose belle della Cina è l’imprevisto.
Benissimo. Questo mi permetterà di cominciare immediatamente la mia analisi della situazione. Vado in giro per l’aeroporto con fare inquisitorio. Non mi avevano mentito: questo paese è molto diverso. Di preciso non saprei dire in cosa consista la sua diversità. E’ brutto, si capisce, ma di una bruttezza che non ho mai visto. Ci dev’essere una parola per qualificare quel tipo di bruttezza: io non la conosco ancora.
Mi domando cosa può essere il comunismo. Ho cinque anni e sono troppo consapevole della mia dignità per chiedere agli adulti che significa. Dopotutto non ho avuto bisogno di loro per imparare a parlare. Se avessi dovuto domandare a loro ogni volta il significato delle parole, sarei ancora ai primi balbettii. Ho capito da sola che cane voleva dire cane, e cattivo, cattivo: non vedo perché mi dovrebbero aiutare per capire una parola nuova.
Tanto più che non può essere difficile: c’è qualcosa di molto particolare qui. Mi chiedo da che dipenda: la gente è vestita tutta uguale; la luce è come quella dell’ospedale di Kobe, la…
Non perdiamo la testa. Il comunismo c’è, questo è sicuro, ma non attribuiamogli un senso alla leggera. E’ una parola, quindi una cosa seria.
Qual è allora la cosa più strana che c’è qui?
All’improvviso questa domanda mi sfinisce. Mi sdraio a terra su una lastra di pietra dell’aeroporto e mi addormento all’istante.
Mi risveglio. Non so quante ore ho dormito. I miei genitori sono ancora lì che aspettano i bagagli, hanno un’aria un po’ abbattuta. Mio fratello e mia sorella dormono per terra.
Ho dimenticato il comunismo. Ho sete. Mio padre mi dà una banconota per comprare da bere.
Vado in giro. Non c’è modo di comprare bibite colorate e frizzanti come in Giappone. Si vende solo tè. – la Cina è un paese dove si beve tè – mi dico. Bene. Mi avvicino al vecchietto che serve la bevanda. Mi allunga una tazza di tè bollente.
Mi siedo a terra con questa tazza enorme. Il tè è forte e fantastico. Non ne ho mai bevuto uno così. Mi dà alla testa in pochi secondi. Sperimento il primo delirio della mia vita. Mi piace proprio tanto. Farò grandi cose in questo paese. Saltello per l’aeroporto girando come una trottola.
E all’improvviso mi trovo faccia a faccia con il comunismo.
E’ notte fonda quando arrivano i bagagli.
Un’auto ci conduce attraverso gente incredibilmente strana. E’ quasi mezzanotte, le strade sono larghe e deserte.
I miei genitori hanno sempre l’aria abbattuta, i miei fratelli maggiori guardano le cose con stupore.
La teina mi sta provocando fuochi d’artificio nel cervello. Senza darlo a vedere sono pazzamente eccitata. Tutto mi sembra grandioso, a cominciare da me. Le idee giocano a campana dentro la mia testa.
Non mi rendo conto che quest’estasi non è adatta alle circostanze. Sono sfasata rispetto alla Cina della banda dei Quattro. Uno sfasamento che durerà tre anni.
La macchina arriva al ghetto di San li Tun. Il ghetto è circondato da alte mura, le mura sono circondate da soldati Cinesi. Gli edifici somigliano a prigioni. Ci assegnano un appartamento al quarto piano. Non c’è ascensore, e le otto rampe di scale sono piene d’urina.
Portiamo su i bagagli. Mia madre piange. Capisco che non sarebbe di buon gusto mostrare il mio accesso d’euforia. Me lo tengo per me.
Dalla finestra della mia nuova camera, la Cina è brutta da far ridere. Rivolgo al cielo uno sguardo di condiscendenza. Gioco a saltare sul letto.
Il mondo è tutto ciò che accade – scrive Wittgenstein.
Secondo il giornale cinese, a Pechino avevano luogo cose edificanti d’ogni sorta.
Nessuna era verificabile.
Ogni settimana le valigie diplomatiche portavano alle ambasciate i giornali nazionali: i pezzi sulla Cina davano l’impressione di riferirsi ad un altro pianeta.
Una circolare a diffusione limitata veniva distribuita ai membri del governo cinese e per un aberrante scrupolo di trasparenza, ai diplomatici stranieri: la fonte era lo stesso ufficio stampa del Quotidiano del Popolo e conteneva notizie completamente diverse. Queste ultime erano abbastanza poco trionfalistiche da essere vere, senza che da questo si potesse concludere che erano attendibili: sotto la Banda dei Quattro i fabbricanti di versioni divergenti si perdevano anche loro.
Per la comunità straniera era difficilissimo raccapezzarsi. E non pochi diplomatici dicevano che in fondo non avevano alcun’idea di quello che succedesse in Cina.
Così i rapporti che dovevano scrivere ai loro ministeri furono i più belli e i più letterari delle loro carriere. Parecchie vocazioni di scrittore nacquero a Pechino, senza bisogno di trovare un’altra spiegazione.
Se Baudelaire avesse saputo che “ dovunque fuori dal mondo” sarebbe stato esemplificato da quell’accozzaglia cinese di vero, di falso e di né vero né falso, non l’avrebbe considerato con tanto ardore.
A Pechino, nel 1974 io non leggevo né Wittgenstein, né Baudelaire, né il Renmin Ribao.
Leggevo poco: avevo troppo da fare. La lettura era roba per quegli sfaccendati degli adulti. Dovevano pure fare qualcosa.
Io invece avevo funzioni importanti.
Avevo un cavallo che occupava tre quarti del mio tempo.
Avevo folle da abbagliare.
Avevo un’immagine da tutelare.
Avevo una leggenda da costruire.
Martin Fletcher - los chicos |
E poi, soprattutto c’era la guerra: la guerra epica e terribile del ghetto di San Li Tun.
Prendete una banda di ragazzini di tutte le nazionalità: rinchiudeteli insieme in uno spazio ristretto e cementificato. Lasciateli liberi e senza sorveglianza.
Chi suppone che i ragazzini si daranno una mano con amicizia è davvero un ingenuo.
Il nostro arrivo coincise con una conferenza al vertice in cui fu deciso che la Seconda Guerra mondiale era stata conclusa in modo affrettato.
Bisognava rifare tutto da capo, visto che niente era cambiato: i cattivi non avevano mai smesso di essere i Tedeschi.
E i Tedeschi non scarseggiavano certo a San Li Tun.
Inoltre, la Seconda Guerra mondiale non era stata abbastanza vasta; stavolta dell’esercito alleato sarebbero entrate a far parte tutte le nazionalità possibili, compresi i Cileni e i Camerunesi.
Ma né Americani, né Inglesi.
Razzismo? No geografia.
La guerra era limitata al ghetto di San Li Tun. Gli Inglesi invece abitavano nel vecchio ghetto che si chiamava Wai Jiao Ta Lu e gli americani vivevano tutti insieme nel loro recinto privato, intorno al loro ambasciatore, un certo George Bush. L’assenza di queste nazioni non ci arrecò il minimo disturbo. Si poteva benissimo fare a meno degli Americani e degli Inglesi. In compenso non si poteva fare a meno dei Tedeschi.
La guerra cominciò nel 1972. Fu proprio quello l’anno in cui ho capito una grandissima verità: a questo mondo nessuno è indispensabile, tranne il nemico.
Senza il nemico l’essere umano è poca cosa. La sua vita è un tormento, un’oppressione di vuoto e di noia.
Il nemico è il Messia.
La sua stessa esistenza basta a dinamizzare l’essere umano.
Grazie al nemico la vita, questo sinistro accidente, si trasforma in epopea.
Così Cristo aveva ragione a dire: - Amate i vostri nemici-.
Ma ne ricavava corollari aberranti: che bisognava riconciliarsi con il proprio nemico, porgere l’altra guancia ecc.
Che idea! Se uno si riconcilia con il nemico, quello non è più il nemico.
E se non c’è più un nemico bisogna trovarsene un altro: si deve ricominciare tutto da capo.
Il che dimostra che così non si va da nessuna parte.
Perciò bisogna amare il proprio nemico senza dirglielo. In nessun caso bisogna pensare a riconciliarsi.
L’armistizio è un lusso che l’essere umano non si può permettere.
La prova è che i periodi di pace finiscono sempre con nuove guerre.
Mentre le guerre si chiudono generalmente con periodi di pace.
Il che dimostra che all’uomo la pace è nociva, mentre la guerra gli fa bene.
I pochi fastidi della guerra vanno dunque presi con filosofia.
Nessun quotidiano, nessuna agenzia di stampa, nessun resoconto storiografico ha mai menzionato la guerra mondiale del ghetto di San Li Tun che durò dal 1972 al 1975.
E’ così che, fin dalla più tenera età, ho avuto le idee chiare sulla censura e la disinformazione.
Perché, insomma, come si fa a trovare irrilevante un conflitto di tre anni a cui parteciparono decine di nazioni e durante il quale furono perpetrate atrocità così spaventose?
Pretesto per questo silenzio dei media: l’età media dei combattenti si aggirava intorno ai dieci anni. I bambini sarebbero dunque estranei alla storia?
In seguito alla conferenza internazionale del 1972, una talpa informò gli adulti del conflitto che stava per cominciare.
I genitori capirono che la tensione bellica era troppo forte e che loro non avrebbero potuto impedire il conflitto imminente.
Tuttavia una nuova guerra con i Tedeschi avrebbe avuto ripercussioni insostenibili sulle relazioni con i Teutoni adulti a Pechino i paesi non comunisti devono fare fronte comune.
Così una delegazione di genitori venne ad imporre le sue condizioni; - sì alla guerra mondiale, dato che è inevitabile. Ma nessun tedesco dell’Ovest potrà essere considerato nemico-.
Questa clausola non ci arrecò il minimo disturbo: i Tedeschi dell’est erano abbastanza numerosi per farci da avversari.
Ma gli adulti volevano di più: esigevano che i Tedeschi dell’Ovest fossero incorporati nell’esercito alleato. Non potemmo risolverci a tanto. Accettavamo di non distruggerli, ma combattere al loro fianco ci sarebbe sembrato contro natura. D’altronde neppure i bambini della Germania Ovest acconsentirono: per mancanza di un nemico i poveretti furono ridotti alla neutralità. Si annoiarono da morire. (Con l’eccezione di qualche piccolo traditore che passò all’Est: defezioni anomale che non sono mai state menzionate.)
Così i grandi erano convinti che la situazione fosse normalizzata: la guerra dei bambini era una guerra contro il comunismo. Posso testimoniare che per i bambini non è mai stato così. Per la parte dei cattivi solo i Tedeschi ci entusiasmavano. La prova è che non abbiamo mai combattuto contro gli Albanesi o altri Bulgari di San Li Tun. Queste quantità trascurabili restarono fuori dal gioco.
Quanto ai russi la questione non si pose nemmeno: anche loro avevano un recinto privato. Gli altri paesi dell’Est risiedevano a Wai Jiao Ta Lu, con l’eccezione degli Jugoslavi che non avevamo ragione di considerare nemici, e dei Romeni, che gli adulti ci costrinsero ad arruolare, tanto era considerato distinto all’epoca, avere amici romeni.
Furono le sole incursioni dei genitori nella nostra dichiarazione di guerra. Mi preme sottolineare quanto ci sembrassero artificiali.
Nel 1974 io, con i miei sette anni ero la più piccola degli Alleati. Il più anziano, che ne aveva tredici, mi sembrava un vecchio. Il grosso delle nostre truppe era francese, ma il continente meglio rappresentato era l’Africa; i nostri battaglioni erano pieni di Camerunesi, Maliani, Zairesi, Marocchini, Algerini, ecc.
C’erano poi i Cileni, gli Italiani e quei famosi Romeni che non potevamo sopportare perché erano stati imposti e sembravano una delegazione ufficiale.
I Belgi si limitavano a tre: mio fratello André, mia sorella Juliette ed io. Non c’erano altri bambini della nostra nazionalità. Nel 1975 arrivarono due piccole Fiamminghe deliziose, ma erano disperatamente pacifiste: non riuscimmo a cavarne niente.
All’interno dell’esercito si venne a formare fin dall’inizio un nucleo di tre paesi indefettibili sia nell’amicizia che in battaglia: i Francesi, i Belgi e i Camerunesi. Questi ultimi portavano nomi sbalorditivi, avevano la voce grossa e ridevano di continuo: tutti li adoravano. I Francesi ci sembravano pittoreschi: ci chiedevano con autentico candore di parlare in belga, il che ci faceva morire dal ridere, e parlavano spesso di un tipo sconosciuto il cui nome – Pompidou – scatenava la mia ilarità.
Gli Italiani erano il meglio o il peggio: fra loro c’erano tanti vigliacchi quanti coraggiosi. Non solo, l’eroismo dei coraggiosi obbediva ai loro sbalzi d’umore. I più temerari potevano rivelarsi i più codardi già il giorno dopo le loro imprese. Fra loro c’era una mezza italiana mezza egiziana che si chiamava Jihan: a dodici anni era alta un metro e settanta e pesava 65 chili. Avere questo mostro nelle nostre fila era una carta vincente: lei da sola riusciva a mettere in fuga una pattuglia tedesca, ed era uno spettacolo vedere questo corpo che menava colpi. Ma la sua crescita terrificante le aveva scombinato il carattere. I giorni in cui Jihan cresceva era inutilizzabile e infrequentabile.
La guerra assunse presto proporzioni serie e fu evidente che il nostro esercito non poteva fare a meno di un ospedale. Al centro del ghetto, vicino alla mattonaia, trovammo una gigantesca cassa di legno che era servita per un trasloco. Dieci di noi ci potevano entrare in piedi. La cassa del trasloco fu dichiarata all’unanimità ospedale militare. Ci mancava ancora il personale medico. Mia sorella Juliette, che aveva dieci anni, fu decretata troppo carina per combattere al fronte. Fu nominata infermiera-medico-chirurgo-psichiatra-amministratore, e se la cavò a meraviglia. Rubò a dei diplomatici svizzeri, riconosciuti come salubri, garza sterile, mercuro-cromo, aspirine e vitamina C – a quest’ultima lei attribuiva poteri straordinari contro la vigliaccheria. In occasione di una spedizione ad ampio raggio, il nostro esercito riuscì ad assaltare il garage di una famiglia della Germania Est. I garage rappresentavano posizioni strategiche di grande importanza, perché era lì che gli adulti tenevano le provviste. E Dio sa se quelle scorte erano preziose a Pechino, dove al mercato si vendevano solo maiale e cavolo.
In quel garage teutonico scovammo una cassa piena di bustine di minestra liofilizzata. Fu confiscata e messa in deposito all’ospedale. Bisognava solo trovare come utilizzarla. Un’assemblea considerò con attenzione la faccenda e scoprì che la minestra in busta era molto meglio allo stato in polvere. I generali si riunirono segretamente con l’infermiera-medico e decisero che questa polvere sarebbe stata il nostro placebo di guerra: le sarebbe stato attribuito un valore di panacea sia per le ferite fisiche che per i tormenti dell’anima. Chi vi avesse aggiunto acqua sarebbe stato deferito al tribunale militare.
Il placebo ottenne un successo tale che l’ospedale non si svuotò mai. I simulatori erano scusabili: Juliette aveva trasformato il dispensario in un’anticamera dell’Eden. Faceva sdraiare i malati e i feriti su materassi di Remin Ribao, con dolcezza e serietà li interrogava sui loro disturbi, cantava loro la ninna-nanna, li sventagliava versando nelle loro bocche aperte il contenuto di una bustina di minestra in polvere. I giardini di Allah non potevano essere un luogo più piacevole.
I generali sospettavano la vera natura di quelle epidemie ma non disapprovarono uno stratagemma che, in fin dei conti sembrò loro utile per il morale delle truppe e fruttò all’esercito parecchi arruolamenti volontari: è evidente che le nuove reclute volevano diventare soldati nella speranza di essere feriti. Ma i capi non persero per questo la loro speranza di fare di esse dei valorosi guerrieri.
Mi ci volle tutta la mia ostinazione per essere ammessa nell’esercito alleato. Mi trovavano troppo piccola. Nel ghetto c’erano bambini della mia età, anche più piccoli, ma non avevano ancora ambizioni militari.
Feci valere i miei meriti: coraggio, tenacia, lealtà senza limiti e soprattutto rapidità a cavallo.
Quest’ultima virtù attirò l’attenzione. Ci furono lunghe discussioni fra i generali. Alla fine mi convocarono. Arrivai tremante. Mi fu annunciato che, in ragione della mia piccola statura e della mia velocità, venivo nominata esploratore.
- E poi, siccome sei una bambina piccola il nemico non avrà sospetti.
La meschinità di quell’insinuazione non riuscì ad intaccare la felicità che produsse in me la nomina.
Esploratore: non riuscivo a concepire niente di più bello, di più grande, di più degno di me.
Potevo prendere quella parola da un capo all’altro, in tutti i sensi, inforcarla come un mustang, appendermici come ad un trapezio: restava sempre bella.
L’esploratore era colui da cui dipendeva la sopravvivenza dell’esercito. A rischio della vita, egli avanzava solo in territorio sconosciuto al fine di scovare i pericoli. Per un minimo capriccio del destino, poteva calpestare una mina ed esplodere in mille pezzi – e il suo corpo, un puzzle di eroismo, sarebbe ricaduto a terra lentamente disegnando nell’aria un fungo atomico di coriandoli di carne - e i suoi compagni, rimasti al campo, vedendo un turbine di frammenti organici salire verso il cielo, avrebbero esclamato: - E’ l’esploratore! -. E dopo essersi elevati in proporzione alla loro importanza storica, , i mille pezzi si sarebbero fermati per un momento nell’etere, poi sarebbero atterrati con tale grazia, che perfino il nemico avrebbe pianto una così nobile oblazione. Sognavo di morire così: quel fuoco d’artificio avrebbe reso eterna la mia leggenda.
…
In tutta la mia vita, nessuna nomina mi ha mai reso felice quanto quella: mai un titolo mi è sembrato accordarsi così intimamente al valore che mi attribuivo.
Più tardi, quando mi sarei contentata di essere Premio Nobel o martire, avrei accettato senza troppo fastidio quei destini un po’ volgari, ricordando che avevo ormai alle spalle la parte più nobile della mia esistenza, e che sarebbe rimasta mia per l’eternità. Fino alla morte avrei potuto stupire la gente con questa semplice frase: - A Pechino, durante la guerra, facevo l’esploratore.-
Ho avuto un bel leggere Ho Chi Min nel testo originale, tradurre Marx in ittita, abbandonarmi ad un’analisi stilistica delle epanadiplosi del Libretto Rosso, non sono riuscita ad andare oltre le conclusioni di quando avevo cinque anni. Avevo appena messo piede in terra rossa, non ero nemmeno uscita dall’aeroporto, e avevo già capito.
Amélie Nothomb |
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