Autore Pamuk, Orhan
Editore Einaudi
Anno 2006
Un’avvincente monografia su Istanbul (per favore, pronunciamolo correttamente con l’accento sulla a), vera chicca editoriale, impreziosita da una generosa raccolta di stupende foto d’epoca, con cui l’autore ci illustra l’anima triste della città e la malinconia e l’irrequietezza da lui provati nei primi vent’anni della sua vita in un parallelismo quasi simbiotico.
La narrazione, avvalendosi di numerose descrizioni geografiche, cronache di eventi storici, resoconti giornalistici e il corale ammirato giudizio di intellettuali giunti in visita da tutta Europa, è documentata da centinaia di foto d’autore pescate dagli archivi cittadini o dall’album di famiglia, e va ad intrecciarsi con la nostalgica rievocazione dei ricordi d’infanzia dell’autore, cresciuto in un ambiente agiato e borghese che gli ha fornito una comoda posizione di osservatore privilegiato.
Nei primi capitoli, Pamuk cerca di farci comprendere come mai questa città babilonica, multirazziale e pluriculturale, centro del glorioso impero bizantino e contraltare di Roma, poi califfato dei nababbi ottomani che vi regnarono sfarzosamente fino alla prima guerra mondiale, sia entrata in profonda crisi d’identità quando, scalzata dal suo ruolo millenario di capitale morale e politica e inglobata nel processo di nazionalizzazione turco, per pagare il tributo dovuto alla modernizzazione, ha visto mutare in breve tempo la sua fisionomia. Dispersa l’aristocrazia ottomana, aboliti la poligamia e gli harem, epurato il tessuto sociale dalle minoranze etniche, europeizzato l’abbigliamento, unificati la lingua e la religione e adottato l’alfabeto occidentale, si è trasformata in una città in bianco e nero in cui aleggia un sentimento collettivo di tristezza e perdita irreversibili.
Attraverso la sensibilità visiva di Pamuk bambino e poi adolescente, si va a zonzo come viaggiatori immaginari nel presente e nel passato di Istanbul, per strade sconnesse, taverne e venditori ambulanti, fra tram sferraglianti e cani sciolti che rovistano fra le rovine, nel tentativo di comprendere la confusione, l’anarchia e il disordine che regnano in questa città sospesa fra la gloria di un passato ormai chiuso e l’immane sforzo di guardare con umiltà ad occidente, cosciente dei propri limiti economici e culturali.
La magia delle luci notturne, le nebbie che sfumano i contorni dei minareti, la pittoresca fatiscenza di vicoli e strade disseminati di ruderi in fantastico contrasto con la sontuosità dei palazzi principeschi, lo sfarzo delle moschee, l’imponenza delle vestigia bizantine, tutto questo è documentato con aneddoti e istantanee in cui le biografie d’Istanbul e di Pamuk continuano ad incontrarsi e sovrapporsi in chiaroscuri di grande suggestione.
La descrizione degli interni di vita famigliare, tratteggiati nelle abitudini casalinghe, nei vizi, nei comportamenti sociali e nella mentalità benpensante dell’epoca, vi sorprenderanno per la stretta somiglianza con i ricordi che farà affiorare, svelando un legame d’insospettata affinità con i nostri vicini mediterranei.
E non manca lo spettacolo grandioso del Bosforo, con lo sfolgorio incessante delle acque agitate dalle navi in transito, i suoi cieli arruffati dall’aria gelida di neve che spira dal mar Morto e copre tutto di bianco con effetto da fiaba, le antiche costruzioni di legno abbandonate, disseminate sulle rive, che s’incendiano all’improvviso e ardono per ore spandendo scintille nelle notti estive. Folgorato da questi panorami e suggestionato dalla pittura e dal fascino negativo di Utrillo, l’adolescente Pamuk inizia a dipingere Istanbul come fosse a Parigi, in un’ostinata ricerca espressiva, convinto di poter accedere alla propria anima attraverso quella della città.
Verso i vent’anni, una cocente delusione gli farà intuire con chiarezza la sua reale vocazione e, abbandonando le fisime di pittore maledetto, butterà i pennelli per dedicarsi alla scrittura e dimostrandoci che si può dipingere altrettanto bene con le parole.
Una lettura per viaggiatori e sognatori romantici, per i nostalgici del tempo perduto, per gli avidi di conoscenza. E per chi si sente attratto anche dalle cose piccole, trascurate e umili non disdegnando il lato in ombra delle cose. Se ne esce più colti, più consapevoli, quasi stupiti di un incontro che forse sembrava improbabile.
Un’avvincente monografia su Istanbul (per favore, pronunciamolo correttamente con l’accento sulla a), vera chicca editoriale, impreziosita da una generosa raccolta di stupende foto d’epoca, con cui l’autore ci illustra l’anima triste della città e la malinconia e l’irrequietezza da lui provati nei primi vent’anni della sua vita in un parallelismo quasi simbiotico.
La narrazione, avvalendosi di numerose descrizioni geografiche, cronache di eventi storici, resoconti giornalistici e il corale ammirato giudizio di intellettuali giunti in visita da tutta Europa, è documentata da centinaia di foto d’autore pescate dagli archivi cittadini o dall’album di famiglia, e va ad intrecciarsi con la nostalgica rievocazione dei ricordi d’infanzia dell’autore, cresciuto in un ambiente agiato e borghese che gli ha fornito una comoda posizione di osservatore privilegiato.
Nei primi capitoli, Pamuk cerca di farci comprendere come mai questa città babilonica, multirazziale e pluriculturale, centro del glorioso impero bizantino e contraltare di Roma, poi califfato dei nababbi ottomani che vi regnarono sfarzosamente fino alla prima guerra mondiale, sia entrata in profonda crisi d’identità quando, scalzata dal suo ruolo millenario di capitale morale e politica e inglobata nel processo di nazionalizzazione turco, per pagare il tributo dovuto alla modernizzazione, ha visto mutare in breve tempo la sua fisionomia. Dispersa l’aristocrazia ottomana, aboliti la poligamia e gli harem, epurato il tessuto sociale dalle minoranze etniche, europeizzato l’abbigliamento, unificati la lingua e la religione e adottato l’alfabeto occidentale, si è trasformata in una città in bianco e nero in cui aleggia un sentimento collettivo di tristezza e perdita irreversibili.
Attraverso la sensibilità visiva di Pamuk bambino e poi adolescente, si va a zonzo come viaggiatori immaginari nel presente e nel passato di Istanbul, per strade sconnesse, taverne e venditori ambulanti, fra tram sferraglianti e cani sciolti che rovistano fra le rovine, nel tentativo di comprendere la confusione, l’anarchia e il disordine che regnano in questa città sospesa fra la gloria di un passato ormai chiuso e l’immane sforzo di guardare con umiltà ad occidente, cosciente dei propri limiti economici e culturali.
La magia delle luci notturne, le nebbie che sfumano i contorni dei minareti, la pittoresca fatiscenza di vicoli e strade disseminati di ruderi in fantastico contrasto con la sontuosità dei palazzi principeschi, lo sfarzo delle moschee, l’imponenza delle vestigia bizantine, tutto questo è documentato con aneddoti e istantanee in cui le biografie d’Istanbul e di Pamuk continuano ad incontrarsi e sovrapporsi in chiaroscuri di grande suggestione.
La descrizione degli interni di vita famigliare, tratteggiati nelle abitudini casalinghe, nei vizi, nei comportamenti sociali e nella mentalità benpensante dell’epoca, vi sorprenderanno per la stretta somiglianza con i ricordi che farà affiorare, svelando un legame d’insospettata affinità con i nostri vicini mediterranei.
E non manca lo spettacolo grandioso del Bosforo, con lo sfolgorio incessante delle acque agitate dalle navi in transito, i suoi cieli arruffati dall’aria gelida di neve che spira dal mar Morto e copre tutto di bianco con effetto da fiaba, le antiche costruzioni di legno abbandonate, disseminate sulle rive, che s’incendiano all’improvviso e ardono per ore spandendo scintille nelle notti estive. Folgorato da questi panorami e suggestionato dalla pittura e dal fascino negativo di Utrillo, l’adolescente Pamuk inizia a dipingere Istanbul come fosse a Parigi, in un’ostinata ricerca espressiva, convinto di poter accedere alla propria anima attraverso quella della città.
Verso i vent’anni, una cocente delusione gli farà intuire con chiarezza la sua reale vocazione e, abbandonando le fisime di pittore maledetto, butterà i pennelli per dedicarsi alla scrittura e dimostrandoci che si può dipingere altrettanto bene con le parole.
Una lettura per viaggiatori e sognatori romantici, per i nostalgici del tempo perduto, per gli avidi di conoscenza. E per chi si sente attratto anche dalle cose piccole, trascurate e umili non disdegnando il lato in ombra delle cose. Se ne esce più colti, più consapevoli, quasi stupiti di un incontro che forse sembrava improbabile.
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