Qui non mi trovate,
io qui non ci sono.
Sto nella stanza accanto
dove non c'è nessuno.

26.2.11

NEL MARE CI SONO I COCCODRILLI

*

I coccodrilli sono le paure che i piccoli profughi devono affrontare, una volta scaraventati nel grande mare della migrazione.





SILENZIO SI LEGGE



Il fatto, ecco, il fatto è che non me l’aspettavo che lei andasse via davvero. Non è che a dieci anni, addormentandoti la sera, una sera come tante, né più scura, né più stellata, né più silenziosa o puzzolente di altre, con i canti dei muezzin, gli stessi di sempre, gli stessi di ovunque a chiamare la preghiera dalla punta dei minareti, non è che a dieci anni,- e dico dieci tanto per dire, perché non è che so con certezza quando sono nato, non c’è anagrafe o altro nella provincia di Ghazni – dicevo, non è che a dieci anni anche se tua madre prima di addormentarti, ti ha preso la testa e se l’è stretta al petto, per un tempo lungo, più lungo del solito, e ha detto: Tre cose non devi mai fare nella vita, Enaiat Jan, per nessun motivo. La prima è usare le droghe. Ce ne sono che hanno un sapore e un odore buono e ti sussurrano alle orecchie che sapranno farti stare meglio di come tu potrai mai stare senza di loro. Non credergli. Promettimi che non lo farai.
Promesso.
La seconda è usare le armi. Anche se qualcuno farà del male alla tua memoria, ai tuoi ricordi o ai tuoi affetti, insultando Dio, la terra, gli uomini, promettimi che la tua mano non si stringerà mai attorno a una pistola, a un coltello o a una pietra e neppure intorno a un mestolo di legno per il qhorma palaw, se quel mestolo di legno serve a ferire un uomo. Promettilo.
Promesso.
La terza è rubare. Ciò che è tuo ti appartiene, ciò che non è tuo, no. I soldi che ti servono li guadagnerai lavorando, anche se il lavoro sarà faticoso. E non trufferai mai nessuno, Eniat jan, vero? Sarai ospitale e tollerante con tutti. Promettimi che lo farai.
Promesso.       
Ecco. Anche se tua madre dice cose come queste, e poi , alzando lo sguardo in direzione della finestra, comincia a parlare di sogni senza smettere di solleticarti il collo, di sogni come la luna, alla cui luce è possibile mangiare la sera, e di desideri – che un desiderio bisogna sempre averlo davanti agli occhi, come un asino una carota, e che è nel tentativo di soddisfare i nostri desideri che troviamo la forza di rialzarci e che se un desiderio, qualunque sia, lo si tiene in alto a una spanna dalla fronte,, allora di vivere varrà sempre la pena- bè anche se tua madre, mentre ti aiuta a dormire, dice tutte queste cose con una voce bassa e strana, che ti riscalda le mani come brace e riempie il silenzio di parole, lei che è sempre stata così asciutta e svelta per tenere dietro alla vita, anche in quell’occasione è difficile pensare che ciò che ti sta dicendo sia: khoda negahdar, addio.
Così.


La mattina, quando mi sono svegliato, ho allungato le braccia per far uscire il mio corpo dal sonno e ho tastato a destra per cercare fiducia nel corpo di mamma, nell’odore rassicurante della sua pelle che per me era come dire: sveglia, alzati ecc. Ma sotto il palmo non ho trovato nulla e tra le dita, solo la coperta di cotone bianco….
Da fuori arrivava il frastuono di Quetta che è molto, molto più rumorosa del mio piccolo paese, quella striscia di terra, case e torrenti da cui provengo, il posto più bello del mondo, non lo dico per vantarmi, ma perché è vero, nella provincia di Ghazni.
Piccolo, grande.
Non ho pensato che fosse la grandezza della città a causare quel baccano, credevo si trattasse di normali differenze tra nazioni, come il modo di condire la carne. Ho pensato che il rumore del Pakistan fosse diverso da quello dell’Afghanistan, punto. E che ogni nazione avesse il proprio rumore che dipendeva da un sacco di cose, tipo da cosa mangiava la gente e come si muoveva.
Mamma, ho chiamato.
Nessuna risposta. Allora sono uscito da sotto le coperte, mi sono infilato le scarpe, ho stropicciato gli occhi e sono andato a cercare il padrone che dirigeva quel posto per chiedere se l’avesse vista, dato che, appena arrivati tre giorni prima, aveva detto che nessuno entrava e usciva dal samavat senza che lui se ne accorgesse, cosa che a me era sembrata strana, perché supponevo che anche lui avesse bisogno di dormire, di tanto in tanto.
Il sole tagliava in due il Samavat Qgazi. Da quelle parti li chiamano anche hotel, i posti così, ma non assomigliano nemmeno un po’ agli hotel che voi avete in mente. Più che un hotel, il samavat era un magazzino di corpi e anime, un deposito dove stiparsi in attesa di essere impacchettati e spediti in Iran o in Afghanistan, o chissà dove.
Un posto per entrare in contatto con i trafficanti di uomini…..
***

E' da qui che prende l’avvio la storia di Enaiatollah Akbari, un bambino di dieci anni che mai mossosi dal suo paesino di poche anime, si trova da solo a valicare i confini di cinque nazioni.
Fabio Geda
Partito dall’Afghanistan, sua terra natale, per cercare salvezza da morte certa, viaggia nella polvere di Pakistan, Iran, Turchia e Grecia, fino a raggiungere l’Italia, in cui si arresta il suo viaggio, avendo qui ottenuto aiuti e asilo politico.   
                         
La storia ce la racconta in 150 pagine e con parole tradotte direttamente dal linguaggio semplice del protagonista, l’autore torinese Fabio Geda,  già conosciuto ai lettori per due suoi precedenti romanzi
Per il resto del viaggio ho sparato agli Indiani“ e “L’esatta sequenza dei gesti “.
Geda (38 anni) scrive anche per la Stampa e per Linus e ha già ottenuto diversi premi e riconoscimenti.
Si occupa da tempo di problemi giovanili.
  
Raggiunta venturosamente la Grecia, dopo una traversata infernale a bordo di un canotto con altri compagni di sorte più piccoli di lui,  senza saper nuotare, senza acqua, senza una bussola, l’odissea del nostro amico inizia subito un nuovo capitolo:




Ci hanno trascinato in caserma, ci hanno chiuso in una stanzetta. Sentivamo i passi nel corridoio e voci che dicevano cose che non capivamo, e io, più di tutto – ricordo - più delle eventuali botte e della prigione, che avevo paura per le impronte digitali. Della questione delle impronte digitali me ne avevano parlato alcuni ragazzi che lavoravano alla fabbrica di pietre, in Iran. Avevano detto che in Grecia, appena ti catturavano, ti prendevano le impronte delle dita e, a quel punto, qualunque clandestino era fregato, perché non poteva più chiedere asilo politico in nessun altro Paese d’Europa.
Così Hussein Alì e io abbiamo decido di trasformarci in seccatori per farci cacciare prima che arrivassero quelli delle impronte digitali. Ma per farti cacciare devi essere un seccatore serio, un professionista. Come prima cosa abbiamo cominciato a piagnucolare e a strillare che avevamo male allo stomaco per la fame, e loro, i poliziotti, ci hanno portato dei biscotti secchi. Poi che dovevamo andare in bagno. Dicevamo: toilette, toilette. Dopo il bagno abbiamo cominciato a piangere e gridare e a lamentarci finché è arrivata la notte, e di notte i poliziotti di turno hanno meno pazienza, e se ti va male, ti picchiano a sangue, ma se ti va bene, ti lasciano andare.
Abbiamo rischiato. E’ andata bene.
Era quasi mattina, ancora buio, e in giro c’erano pochissime macchine, quando due poliziotti, stufi delle nostre grida, hanno spalancato la porta della stanzetta e ci hanno trascinato per le orecchie fuori della questura, scaraventandoci per strada e urlandoci di tornare da dove eravamo venuti, razza di scimmie urlatrici. O una cosa così.
La mattina è svanita nella ricerca di Soltan e Rahmat. Li abbiamo ritrovati dalle parti della spiaggia, fuori città, e quando li ho visti non ho fatto nemmeno in tempo ad essere felice che subito mi sono infuriato perché speravo che nel frattempo avessero recuperato qualche vestito – pantaloni, magliette o che so io, delle scarpe, magari –e invece no, invece nulla, eravamo ancora tutti e quattro straccioni come prima, e non è mica vero che l’abito non fa il monaco, anzi.
Una cosa che avevo fatto in questura fin tanto che ero lì (bisogna saper sfruttare tutte le occasioni da clandestino), era stato di curiosare su una grossa mappa dell’isola appesa al muro: il posto dove ci trovavamo era segnato in rosso. Mitilene in blu.   Era a Mitilene* che ci si imbarcava per Atene. In un giorno di cammino, forse, tra campi e strade secondarie, ci saremmo arrivati, nonostante il male ai piedi.
Ci siamo avviati lungo i margini di una strada. Il sole era buono per cuocere il pane, si sudava anche a stare fermi. Soltan si lamentava - Hussein Alì credo non avesse più fiato per farlo, altrimenti si sarebbe lamentato anche lui, come al solito – e di tanto in tanto si sporgeva mezzo nudo facendo segno con le braccia alle macchine di fermarsi, di darci un passaggio. Io lo trascinavo via. Dicevo: No. Cosa fai? Quelli chiamano di nuovo la polizia. Ma lui continuava.
Lui: Fermiamoci, ti prego. Aspettiamo che qualcuno ci carichi.
Io: Se continui così sarà la polizia a caricarti. Vedrai.
E non è che volessi fare l’uccello del malaugurio, o come si dice, figuriamoci. Era mio interesse continuare il viaggio con loro, proteggerci a vicenda, ma loro si sono incaponiti che erano stanchi e che era meglio cercare un passaggio da un furgoncino eccetera , allora a quel punto io ho detto: No. E mi sono allontanato dal gruppo.

Lì accanto c’era un negozietto con una pompa di benzina e, sulla destra, scrostata e unta, una vecchia cabina telefonica mezza nascosta tra le fronde di un albero. Sono entrato, ho stretto il telefono in mano e ho fatto finta di essere lì a telefonare, invece spiavo i miei compagni per vedere cosa combinavano.
Quando è arrivata la macchina della polizia – con le luci accese ma senza sirena -, per un attimo ho pensato di uscire, di urlare scappate, scappate, ma non ho fatto in tempo. Mi sono rannicchiato. Ho seguito la scena di loro che correvano, che venivano raggiunti e catturati (sono volati dei colpi di manganello). Ho visto tutto in ginocchio, nascosto, attraverso i vetri sporchi, senza poter far nulla e pregando, dentro di me che a nessuno venisse voglia di telefonare.
Appena la macchina della polizia se n’è andata, facendo fischiare le ruote, sono uscito dalla cabina, ho girato l’angolo della stazione di servizio controllando bene che non ci fosse nessuno e correndo a perdifiato mi sono infilato in una stradicciola di campagna, sabbiosa e deserta e ho continuato a correre e a correre senza sapere dove andare, finché mi sono scoppiati i polmoni e mi sono sdraiato a terra per ritrovare me stesso. Quando ho capito che stavo bene, mi sono alzato e ho ripreso a camminare.
Dopo una mezz’ora il sentiero ha preso a costeggiare un cortile. Era il cortile di un’abitazione privata delimitato da un muretto basso, con un grosso ulivo al centro. Non ho visto nessuno, ho scavalcato. C’era un cane, ma era legato. Mi ha visto. S’è messo ad abbaiare e io mi sono nascosto sotto la fronda spessa dell’albero. Dovevo essere stanco, perché mi sono addormentato.
Non era solo il fatto che ero stanco, c’era qualcosa che mi tranquillizzava in quel posto. Non saprei dire, certe cose si sentono e basta.
Infatti a un certo punto, è arrivata questa signora anziana che abitava lì. Mi ha svegliato ma con delicatezza. Io sono scattato in piedi, velocissimo e stavo per fuggire, ma lei mi ha fatto segno di entrare in casa. Mi ha dato da mangiare del cibo buono, verdura e non so cos’altro. Mi ha fatto fare la doccia. Mi ha fatto vestire molto bene: una camicia con le righe azzurre, jeans e un paio di scarpe da ginnastica bianche, era incredibile che avesse quei vestiti in casa e della mia taglia, per giunta. Non so di chi fossero, forse di qualche nipote.
Parlava tanto la signora, in continuazione, in greco e in inglese, e io capivo poco. Quando vedevo che sorrideva dicevo: Good, good. Quando faceva la faccia seria, allora anch’io facevo la faccia seria e con larghi cenni del capo dicevo: No, no.
Dopo un po’, nel pomeriggio, dopo che avevo fatto la doccia e tutto, quella nonna mi ha accompagnato alla stazione dei pullman, mi ha fatto il biglietto (fatto da lei, sì), mi ha dato cinquanta euro in mano, dico, cinquanta euro, mi ha salutato e se ne è andata. Certo, ho pensato, ce n’è della gente molto strana e gentile, al mondo.

* Mitilene è capoluogo di Lesbo, isola greca del Mar Egeo




Saffo abbandonata - Giovanni Dupré 1857
Roma - Galleria d'Arte moderna


Mi pare uguale agli dei
chi a te vicino così dolce
suono ascolta mentre tu parli
e ridi amorosamente. Subito a me
il cuore si agita nel petto
solo che appena ti veda, e la voce
si perde sulla lingua inerte.
Un fuoco sottile affiora rapido alla pelle,
e ho buio negli occhi e il rombo
del sangue alle orecchie.
E tutta in sudore e tremante
come erba patita scoloro:
e morte non pare lontana
a me rapita di mente.
(Saffo)



  
Saffo,  in greco Σαπφώ, prima figura di donna nella letteratura occidentale, nacque da una famiglia aristocratica a Ereso, nell'isola di Lesbo e visse fra il VII e il VI secolo a.C. Trascorse la maggior parte della sua esistenza a Mitilene, la più importante città dell'isola, educando le giovani degli ambienti nobili.
Saffo fa raramente menzione delle lotte politiche da cui Lesbo era travagliata; tuttavia dovette trascorrere un periodo d'esilio in Sicilia.
Ebbe un marito, il cui nome è forse Cercila di Andro, e una figlia di nome Cleide.
Non si conosce la data della sua morte ma da alcuni scritti si desume sia avvenuta in età matura. Dato leggendario, ripreso dagli antichi commediografi, è che si sia gettata da un faro sull'isola di Lefkada per l'amore non corrisposto verso un giovane battelliere.







25.2.11

guardo vedo tocco amo


Guardo in ginocchio la terra



guardo l’erba


guardo l’insetto


guardo l’istante fiorito e azzurro


sei come la terra di primavera amore


io ti guardo.


*

Sdraiato sul dorso vedo il cielo

vedo i rami degli alberi


vedo le cicogne che volano


sei come il cielo di primavera amore


io ti vedo.


Ho acceso un fuoco di notte in campagna


tocco l’acqua

tocco la stoffa e l’argento


tocco il fuoco


sei come un fuoco di bivacco all’addiaccio


io ti tocco.




Sono tra gli uomini amo gli uomini



amo l’azione


amo il pensiero


amo la mia lotta


sei un essere umano nella mia lotta


io ti amo.



Nazim Hikmet
1943
(traduzione Joyce Lussu)



*

22.2.11

A che cosa serve la poesia



A che cosa serve la poesia? Può servire.
Vi faccio un esempio.
Prendete una coppia che va abbastanza bene:  


due o tre lustri di convivenza


casa figli interessi comuni.
I coniugi però, non essendo nè sordi nè orbi
nè privi di altri sensi
naturalmente non immuni
dal notare che il mondo è pieno di persone attraenti
dell'altro sesso

di cui alcune, per circostanze favorevoli,
sarebbero passibili di un incontro più ravvicinato.
***
Sorge allora un problema che propone tre soluzioni.


La prima è la tradizionale repressione:
non concupire eccetera

non appropriarti dell'altrui proprietà
per cui il coniuge viene equiparato a un comò
Luigi XVI o a un televisore a colori


o a un qualsiasi oggetto di un certo valore
che non sarebbe corretto rubare.




La seconda soluzione è l'adulterio
altrettanto tradizionale

che crea una quantità di complicazioni



la lealtà (glielo dico o non glielo dico?)
la desolazione di motel occasionali

la necessità di costruire stratagemmi di copertura
che non sopprimono la paura
di scoccianti spiegazioni.


La terza soluzione è senz'altro la più pratica.
Si prendono i turbamenti e i sentimenti
le emozioni e le tentazioni
si mescolano bene si amalgama l'immagine

con una salsa di fantasia
e ci si fa sopra una poesia
che si mastica e si sublima
fino a corretta stesura sulla macchina da scrivere


e infine si manda giù
si digerisce con un po' di amaro
d'erbe naturali

e non ci si pensa più.


                                           da una poesia di Joyce Lussu


*

Vivere non è necessario; quel che è necessario è creare

Quelquer caminho leva a toda a parte,
quelquer caminho
em quelquer ponto seu em dois se parte
e um leva a onde indica a'strada
outro é sòzinho.
                                                                           Ah! Os caminhos 'stao todos em mim.
                                                            Quelquer distancia ou direcçao, ou fim
                                                            pertence-me, sou eu. O resto é a parte
                                                            de mim que chamo o mundo exterior.
                                                            Mas o caminho Deus eis se biparte
                                                            em o que eu sou e o alheio a mim.
                                                            Nao vejo mais esse a quem quis.


                                                                           Fernando Pessoa
                                                                           (Abdicaçao)
                



                                                               Ogni sentiero porta da qualche parte,
                                                               tutti i sentieri a un certo punto
                                                               in due si dividono
                                                               e uno conduce dove guida la strada,
                                                               l'altro è solo.                                                
Ah... tutti  i sentieri son dentro me.
Qualsiasi direzione, distanza o limite
m' appartiene, son io. Il resto è di me la parte
che definisco mondo esterno. 
Ma il sentiero  Cielo  si sdoppia
in quel ch'io sono e nell' altro da me.
Più non scorgo chi amai.
                                                  (traduzione di mca)









Lagoa Henriques
Statua di Fernando Pessoa








    Fernando Pessoa dorme nel Pantheon di Lisbona presso il Monastero dei Jeronimos, a poca distanza dai sarcofagi di Camoes e Vasco de Gama. Ma accanto a lui ci sono altri tre: Alberto Caeiro, Ricardo Reis e Alvaro de Campos. Nomi incisi sulle diverse facce del tetragono assieme al suo nome, perché sono sue creature.
Come un medium le ha convocate da un altrove che era dentro di lui, ha vissuto e dialogato con loro, associandole ad una folla di altri personaggi e attivando un’esperienza poetica destinata a segnare il Novecento.
Un progetto ispirato da un’ambizione vertiginosa che è poi la formula della sua opera, plurale e unitaria nello stesso tempo, quella di essere non tanto uno scrittore, quanto un’intera letteratura.

Caeiro, Reis e de Campos sono gli alter ego più importanti e consacrati di Pessoa. Sono gli eteronomi. Cioè gli altri nomi, di individui diversi, scaturiti dalla sua mente. Un fenomeno ben più complesso rispetto agli espedienti di comodo rappresentati dagli pseudonimi, apocrifi e altri travestimenti di firma utilizzati da artisti e uomini di pensiero per mimetizzarsi..

Gli eteronimi sono proiezioni dell’autore. 
Così scrive egli stesso: "Ricordo quello che mi sembra sia stato il mio primo eteronimo o, meglio, il mio primo conoscente inesistente: un certo Chevalier de Pas di quando avevo sei anni, attraverso il quale scrivevo lettere a me stesso, e la cui figura, non del tutto vaga, ancora colpisce quella parte del mio affetto che confina con la nostalgia."
Figli-fratelli generati dal Pessoa ortonimo che nascono da viaggi di trasferimento nel pensiero e nelle forme degli altri se stesso, registrandone l’esistenza a fianco della propria. Figure che il poeta portoghese ha moltiplicato in un’autofecondazione permanente, dando ad ognuno corpo e anima, sbozzandone il ritratto fisico, e per parecchie delle quali ha inventato le biografie e persino gli oroscopi. E che in qualche caso ha messo in relazione uno con l’altro, a volte fino a farli litigare o addirittura fino ad aizzarli contro di sé. Sub-persone cui ha prestato i suoi sentimenti, scrivendo per loro conto, con stili differenti, e adottando per ciascuno complesse linee evolutive, fedeli ai manifesti di avanguardie da loro lanciate.

Il suo destino era già presente nel nome: Pessoa in portoghese significa persona e persona in latino indica la maschera dell’attore, mentre la stessa parola in francese suona come nessuno. Un gorgo profondo di significati e si sa- ce lo ha detto Nietzsche – tutto ciò che è profondo ama la maschera...

Ci sono tante vite a fertilizzare il drama em gente dello scrittore lusitano. Un moderno *Proteus sempre in bilico fra verità e finzione. Perché scrivere è esattamente questo per lui: creare creature creanti, creature di finzione che producono a loro volta finzione letteraria.
*da Proteus proviene l' aggettivo proteiforme, con il significato generale di "versatile", "mutabile", "in grado di assumere molte forme";  ha una connotazione positiva di flessibilità, versatilità e adattabilità.


Il primo studioso straniero di Fernando, il francese Pierre Hourcade, lo conobbe nel caffè Martinho da Arcada nel 1930 e grazie a questo primo e agli altri incontri  che seguirono, ci ha lasciato un ritratto fisico e morale del poeta, in cui emergono nitidamente i tratti più salienti delle sue sembianze e del suo carattere.  Scrisse Hourcade qualche anno dopo " Lo credevo piccolo, melancolico e scuro, soggetto al funesto fascino della saudade con cui si intossica tutta la sua razza, e d'improvviso m'imbatto nel più vivo degli sguardi, in un sorriso sicuro e malizioso, un volto che trabocca di  vita segreta."
E, in un'altra occasione, racconta come si sentiva affascinato dinanzi a lui. " Da quell'uomo malaticcio, i cui occhi erano protetti da spesse lenti, irradiava un incanto indefinibile, fatto di estrema cortesia, di perfetta semplicità, di buonumore e anche di umorismo, in quell'uomo disperato e torturato come nessun altro,  e di una sorta di intensità febbrile che ardeva sotto la facciata apparente delle buone maniere. Il mio cuore batteva più in fretta, la mia attenzione eccessivamente concentrata si confondeva, come se l'atmosfera attorno a Fernando Pessoa fosse più ricca di ossigeno."

 
 
 
« O poeta é um fingidor.
Finge tão completamente
Que chega a fingir que é dor
A dor que deveras sente. »
                                                                          


                                                                                            « Il poeta è un fingitore.
                                                                             Finge così completamente
                                                                             Che arriva a fingere che sia dolore
                                                                             Il dolore che davvero sente. »

*
Fonti:
Marzio Breda
dalla prefazione Poesie Scelte - Passigli
Wikipedia
(mca ringrazia)




18.2.11

L'OR DEDANS TOI

             *                               *           *              *                                    *                                                                                               *                                                                                           *
      

          *                                                                                 *               *                   *                            *                                                                 *
,

                                                                                                              *

              *
 *
             *                
 *             

*                                           


                       *
LLa La Valse - Camille Claudel (1864 -1943)
"Se avrai l'oro dentro di te, scoprirai l'oro dentro la materia"

L'opera è stata concepita e realizzata quando Camille aveva solo 25 anni ed era già in atto la rottura con Rodin, dopo anni  di intensa relazione professionale  e di passione senza misure. 
Camille, ancora adolescente quando lo conobbe, fu sedotta dal genio di Rodin e fu per lui l'allieva devota, la seguace indipendente in grado di emularne la regola e di superarne gli esiti. 
Camille,  nella sua inesperienza,  nel confronto con  l'uomo e l'artista, non ne aveva intuito l'indole: quella di un maestro capace di guardare alla forma e alla morale, ma non ancora pronto al salto epocale nell'era del concetto, perché figlio di una cultura romantica. 
"Non ne intravide la dualità che, nell'opera quanto nella vita, segnarono il destino di un autore in bilico fra passato e presente, portavoce di una stagione che, fra Ottocento e modernità, stava attraversando ignara l'inquietudine decadente."

Per dieci anni i due scultori vissero insieme nella casa che era già stata di Alfred de Mousset e George Sand all'epoca del loro amore, creando opere immortali in uno stato di simbiosi sorprendente. *
Sullo sfondo di una Parigi fin de siècle, si disegnò così  l'episodio drammatico di colei che è definita "l'ultima scultrice romantica".
Bella, altera e bravissima nell'apprendere i segreti di ogni insegnamento, Camille seppe elaborare, seguendo da vicino l'opera del suo insegnante, un linguaggio di transizione, in bilico fra cultura figurativa impressionista e pre-avanguardia.
Una caratteristica di stile che rende le sue sculture uniche e indipendenti dal percorso parallelo di Rodin, che ha rappresentato solo lo stimolo alla sua produzione personalissima.
Camille aveva sperato di poter prima o poi sposare Auguste anche per evitare di rendere scandalosa la loro unione. Ma Rodin, malgrado le infinite promesse, non volle sposarla, pur (forse) amandola. I legami artistici fra i due a questo punto si allentarono e ben presto il maestro-amante l'abbandonò definitivamente per tornare dalla sua compagna storica e sposarla. Dalla rottura della relazione Camille uscì distrutta. Andò a vivere per conto proprio, affrontando notevoli difficoltà economiche.
Cercò di rifarsi una vita, immergendosi nell'esperienza sentimentale con Claude Débussy, con il quale tuttavia si lasciò dopo soli due anni.
Il pensiero di Rodin le rodeva l'anima e la condusse irrimediabilmente alla depressione.
Camille finì col rimanere paralizzata da una sofferenza interiore che imporrà il silenzio alle sue mani.








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