Qui non mi trovate,
io qui non ci sono.
Sto nella stanza accanto
dove non c'è nessuno.

30.5.11

BaSTA COSì PoCO PEr SeNTIRsI FeLICi






                                                                                               


                                                       


*

29.5.11

NON TORNA AMORE

                                                                            diritti dell'immagine riservati AlessioBlve 2011
                                                                                                                               (mca ringrazia)




Ahi tu passasti.
Se torna maggio,
per me non torna
primavera giammai,
né torna amore.

                         G.L.





*

27.5.11

CINEAMOUR


Dimentichiamo per un attimo questa città imbufalita dal clima pre-elettorale insolitamente agguerrito per la posta in gioco che è altissima e parliamo di…di….di…..ehm non mi viene in mente niente.


Anch’io sto risentendo del clima teso che si respira e penso già alla mia prossima fuga in Sardegna, così vicina ormai che quasi stento a crederci. Ogni tanto corro  a guardare il biglietto e controllo che sia tutto corretto, porto d’imbarco, data, targa-auto, prenotazione cabina, ecc. per la paura che sia tutto solo un sogno.


Vabbè, visto che è da un po’ che non si parla di cinema, facciamo quattro chiacchiere sul festival di Cannes appena concluso. Non che pretenda di saperne più di voi. Non ho avuto tempo di approfondire e men che meno di assistere a qualche anteprima. I media come al solito hanno dato poco risalto alla manifestazione, quest’anno di livello notevole e quindi inadatto per il gossip salottiero che preferisce continuare a disquisire sui delitti irrisolti.


Comunque ciò che conta è che alla fine siano stati premiati i nostri beniamini: Brad Pitt e Sean Penn diretti dal grande maestro Terrence Malick in The tree of life, che s’è beccato la Palma d’oro; e il regista Lars Von Trier, (già autore di DogvilleDancing in the dark ) di cui in Heroic Roses si era parlato il 7 gennaio scorso e che era stato ufficialmente dichiarato “persona non grata” al festival di Cannes per le sue inopportune esternazioni riguardanti il fenomeno del nazismo, espresse con questa frase: “ I understand much about him [Hitler] and I sympathize with him a little bit."
Il regista è stato estromesso ma il suo film, Melancholia è rimasto in gara e si è meritato un premio per la migliore interpretazione femminile,  conquistato dalla bionda attrice Kirsten Dunst (nella foto sotto insieme al regista e all'altra protagonista del film Charlotte Gainsbourg).
 Il film chiaramente non avendolo visto non lo posso valutare, ma ho potuto invece vedere il filmato della conferenza stampa incriminata, e ascoltare le poco felici e ancor meno diplomatiche risposte date a mezze labbra da un Von Trier intimidito dall’arroganza della platea degli astanti. Fra le risa e l'imbarazzo della sala gremita, le sue risposte risultavano in buona sostanza così nebulose, che a chiunque avesse saputo interpretarle nella maniera giusta, sarebbero dovute apparire come un eccesso di difesa contro le provocazioni intellettualoidi dei giornalisti, un frutto del disagio e della confusione linguistica più che un'autentica espressione di antisemitismo.
Va ricordato che il regista, universalmente conosciuto come orso polare, asociale e sempre depresso, aveva comunque immediatamente porto le sue scuse alla giuria del Festival, asserendo di aver inciampato nelle provocazioni dei giornalisti.


Von Trier non ha bisogno di difesa in quanto é un regista di altissimo livello, che si è sempre espresso a favore dei bistrattati, fornendo loro nei suoi film le armi per la giusta vendetta ma, come tutti gli artisti, è lunatico e suscettibile e facile bersaglio di chiunque lo voglia prendere di mira.
Il premio ha comunque messo fine alla querelle scoppiata, che aveva avvelenato per diversi giorni il clima rilassato della manifestazione.

Il Grand Prix è stato assegnato ex aequo a Jean Pierre e Luc Dardenne per Il ragazzo con la bicicletta, storia di abbandono minorile, e a Nuri Bilge Ceylan per Once upon a time in Anatolia, un polar film per il regista turco.

Parlando di casa nostra,  Bernardo Bertolucci ha ricevuto la Palma d'oro alla carriera proprio nella giornata d'apertura. Ritirandola ha esclamato: "Habemus palmam!", parafrasando il titolo del film di Nanni Moretti in concorso - di cui si è avuto modo di parlare in questo blog recentemente - sperando che la battuta potesse rivelarsi di buon auspicio. Invece grande delusione per Moretti, che è rimasto a bocca asciutta, benché il suo film sia stato apprezzato dai giurati.
Accoglienza un po’ tiepida anche per il napoletano Paolo Sorrentino con il suo This Must Be The Place, girato negli USA e premiato dalla giuria ecumenica. Film coraggioso e intraprendente il cui torto, al pari di Habemus papam di Moretti, è forse quello di essere un po' provinciale  rispetto alle opere più filosofico-metafisiche dei concorrenti stranieri.
Il film comunque sarà destinato di certo a scatenare le solite discussioni e giudizi contrastanti, o a diventare addirittura film ”di culto”.
La miglior regia è stata attribuita a Nicola Winding Refn per Drive, mentre il premio della giuria è andato a Polisse, opera diretta da Maiwenne Le Besco. Infine il premio per la miglior  sceneggiatura è stato consegnato a Joseph Cedar per Footnote. Vedremo, e caso mai ne riparleremo più avanti.
Tanto per citare altri nostri beniamini, molto apprezzato pare sia stato il film Midnight in Paris, di Woody Allen che fuori da Manahattan sembra non combinarne una giusta, ma stavolta pare aver  fatto centro. Diremo anche di lui, soprattutto se risulterà vero che il pezzo in cui appare la première dame de France sia stato segato via all’ultimo momento.

Antonio Banderas, che si è presentato al festival accompagnato dalla sua bella signora Melanie Griffith, ha partecipato alla kermesse recitando nel film noir di Pedro Almodovar "La piel que abito.
Ma il film, come gli ultimi visti del bravo regista spagnolo, non appare molto convincente. Provaci ancora Pedro.
Per concludere, Bertolucci ha dedicato il suo premio a tutti gli Italiani che hanno ancora la voglia di indignarsi e protestare. E allora, Italiani, protestiamo!!! (che indignati lo siamo di già).
Last but not least  cito la strepitosa, elegantissima giurata Uma Turman che, a fianco di Robert De Niro, ha saputo come sempre "essere all'altezza").
Mi scuso se ho certamente tralasciato nomi meritevoli, mes bons gens, ma è notte fonda oramai, e domani purtroppo ci tocca lavurà.

Alle prossime Buone Visioni.
Ciao à tout le monde,  mca

24.5.11

ridicolo, un altro voler essere che te


Metti in versi la vita,


Magritte

trascrivi fedelmente,
senza tacere particolare alcuno,
l’evidenza dei vivi.
Ma non dimenticare che vedere
non è sapere, né potere,
bensì ridicolo
un altro voler essere che te.
Nel sotto e nel soprammondo
s’allacciano complicità di visceri,
saettando occhiate d’accordi.
E gli astanti s’affacciano
al limbo delle intermedie balaustre:
applaudono, compiangono entrambi i sensi
del sublime – l’infame, l’illustre.
Inoltre metti in versi che morire
è possibile più che nascere
e in ogni caso l’essere è più del dire.

Giovanni Giudici  26 giugno 1924 – 24 maggio 2011
La vita in versi
da Autobiologia

*

22.5.11

UN CLIENTE FEDELE...


    SILENZIO, SI LEGGE


Consumato tutto il carbone; vuoto il secchio; inutile la pala; la stufa che respira aria gelida; la stanza gonfia di gelo; davanti alla finestra, gli alberi rigidi nella brina; il cielo, uno scudo d’argento contro chi cerca da lui un aiuto.
Devo procurarmi del carbone; non posso certo morire congelato; dietro di me la stufa impietosa, impietoso il cielo davanti a me; perciò devo andare al trotto in mezzo a loro, e nel frattempo, cercare aiuto dal carbonaio.
Questi però è ormai indurito contro le mie solite preghiere; devo dimostrargli con chiarezza che non ho più neppure la più piccola particella di carbone, e che dunque lui rappresenta per me il sole nel firmamento.
Devo arrivare come il mendicante intenzionato a morire sulla soglia rantolando di fame, e al quale perciò la cuoca si decide a lasciare i fondi dell’ultimo caffè; similmente il carbonaio, pur schiumante di rabbia, ma sotto il raggio del comandamento «Non uccidere!», dovrà scaraventarmi nel secchio un’intera badilata.
Già il mio decollo sarà decisivo; e dunque mi metto a cavalcare sul secchio.
Da cavaliere del secchio, la mano in alto sull’impugnatura, che è la briglia più semplice, scendo con difficoltà le curve della scala; quando però sono giù, il mio secchio allora sale splendido, splendido; i cammelli sdraiati bassi per terra, quando il bastone del padrone li incita, non si sollevano con maggiore eleganza. Trottando a velocità adeguata percorro le strade congelate; spesso mi sollevo fino all’altezza del primo piano; non scendo mai fino alle porte d’ingresso. E a straordinaria altezza mi libro sulle arcate della cantina del carbonaio, dove questi sta rannicchiato laggiù al suo tavolino scrivendo; per lasciar defluire l’eccessivo calore ha aperto la porta.
«Carbonaio!» grido con voce arsa e arrochita dal freddo, avvolto dalle nuvole di vapore del mio respiro, «Per favore carbonaio, dammi un po’ di carbone. Il mio secchio ormai è tanto vuoto che ci posso cavalcare sopra. Sii buono. Appena posso te lo pago.»
Il carbonaio mette la mano all’orecchio. «Ho sentito bene?» chiede da sopra la spalla a sua moglie, che lavora a maglia vicino alla stufa, «ho sentito bene? Ci sono clienti.»
«Io non sento proprio niente», dice la donna, respirando tranquilla sopra i ferri, piacevolmente riscaldata sulla schiena.
«Oh sì», grido io, «sono un cliente, un vecchio cliente, un cliente fedele, solo al momento impossibilitato a pagare.»
«Moglie», dice il carbonaio, «è così, c’è proprio qualcuno; non posso ingannarmi fino a questo punto; dev’essere un vecchio, un vecchissimo cliente se sa toccarmi così profondamente il cuore.»
«Che ti prende, marito?» chiede la donna, e riposandosi un attimo preme sul petto il suo lavoro a maglia, «non c’è proprio nessuno; il vicolo è vuoto; tutti i nostri clienti sono stati riforniti; potremmo anche chiudere il negozio per giorni interi e riposarci.»
«Ma io sono qui, seduto sul secchio» grido, e lacrime insensibili di freddo mi velano lo sguardo, «per favore, guardate in su; mi troverete subito; vi prego, datemi una palata di carbone; e se me ne darete due, mi farete felice oltre misura. In fondo, tutti gli altri clienti sono riforniti. Ah, se lo sentissi già risuonare nel secchio!»
«Vengo», dice il carbonaio e con le sue gambe corte vorrebbe già salire le scale della cantina, ma la moglie gli è già vicina, lo ferma prendendogli il braccio e dice: «Resta qui. Se non la finisci con questa idea, salirò io stessa. Ricordati che tosse hai avuto stanotte. Per un affare, e per di più immaginario, dimentichi moglie e figli e metti in pericolo i tuoi polmoni.
«Vado io.»
«Allora però digli tutti i tipi di carbone che abbiamo in magazzino; io da sotto ti dirò i prezzi.»
«Va bene», dice la moglie, e sale nel vicolo.
Naturalmente mi vede subito.
«Signora carbonaia», grido, «i miei saluti più devoti; solo una palata di carbone; subito qui nel secchio; me la porto a casa da solo; una palata del peggiore. Naturalmente la pago a prezzo intero, non subito però, non subito.»
Che suono di campane, nelle due parole «non subito», e come disorienta il loro mescolarsi con le campane serali che proprio ora cominciano a suonare dal vicino campanile.
«Allora, cosa vuole?» grida il carbonaio.
«Niente», gli risponde la moglie, «non c’è nessuno; non vedo nessuno, non sento nessuno; solo hanno suonato le sei e noi chiudiamo il negozio. Il freddo è terribile; c’è da prevedere che domani avremo molto lavoro.»
Non vede niente e non sente niente; però scioglie il grembiule e agitandolo cerca di soffiarmi via. Purtroppo ci riesce.
Il mio secchio ha tutti i vantaggi di qualsiasi buon animale da cavalcare; ma non ha capacità di resistenza; è troppo leggero; basta il grembiule di una donna per cacciarlo a gambe levate.
«Cattiva!» le grido dietro, mentre lei, voltandosi verso il negozio, agita la mano in aria un po’ sprezzante, un po’ soddisfatta di se stessa, « Cattiva! Ti ho chiesto una palata di carbone del peggiore e tu non me l’hai data.»
E dicendo così salgo nelle regioni delle montagne di ghiaccio e mi perdo per non tornare mai più.
*
Nel manoscritto del quaderno in ottavo, separato da una linea, il testo prosegue con: Forse che qui è più caldo che sulla terra invernale? Tutto intorno il bianco è accecante, l’unica cosa scura è il mio secchio. Se prima ero in alto, ora sono profondamente in basso, mi si sloga il collo a guardare verso le montagne. Il cielo una distesa bianca e ghiacciata, attraversata a strisce dal passaggio di pattinatori scomparsi. Sulla neve alta, che sprofonda per un pollice appena, seguo le orme dei piccoli cani artici.
La mia cavalcata non ha più senso, sono sceso e porto il secchio in spalla.

Franz Kafka - aprile 1917

Dall'età di trent'anni circa, Kafka diventò vegetariano. Scrisse: «mio padre dovette per mesi coprirsi il viso col giornale durante la mia cena prima di abituarsi». Abituarsi cioè a: «castagne, datteri, fichi, uva, mandorle, uva passa, zucche, banane, mele, pere, arance».
*
Kafka aborriva la carnalità e la sua stessa corporeità. Egli racconta il disgusto per il proprio corpo quando il padre accompagnandolo in piscina lo costringeva a denudarsi. Lo stesso senso di ripugnanza egli lo esprimeva nei confronti dell'amore sessuale che descrive ad esempio nel Castello come qualcosa di sporco e che riduce l'uomo all'animalità.
Nel 1912 incontrò Felice Bauer, una giovane donna con la quale iniziò una sofferta relazione, accompagnata da un fitto scambio epistolare. Kafka ne descrive in modo raccapricciante i difetti fisici: la brutta dentatura con i denti incapsulati in vista, il volto spigoloso e ossuto, il generico aspetto insignificante.
Eppure è di questa donna poco attraente che egli s'innamorerà e con cui inizierà una corrispondenza dallo stile e dall'immaginazione pari, se non superiore, alla sua più famosa produzione letteraria. Le lettere gli permettono di aprire il suo animo ai sentimenti più segreti e nello stesso tempo di non impegnarsi in un rapporto materiale che lo spaventa. Si dibatte tra il desiderio di sposarla, il che gli permetterebbe di assolvere ai suoi doveri di ebreo e di figlio e di assestare infine la sua vita, e la convinzione che questa unione sarà la sua rovina ed un ostacolo alla sua libertà di scrivere.
Volle così mantenere Felice a distanza per qualche tempo, abitando lei a Berlino e lui a Praga , riuscendoci  sino a quando i due s'incontreranno e finalmente avverrà anche il rapporto fisico.
L'incontro con Felice ebbe l'effetto di liberare tutta la forza creatrice di Kafka
*
Nel dicembre del 1917 la scoperta di essere ammalato di tubercolosi porterà Kafka alla dolorosa rottura con questa donna che egli amò intensamente. Come racconta Max Brod, suo amico e biografo, fu quella l'unica volta che egli vide Franz Kafka piangere.
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fonte di documentazione Wikipedia
(mca ringrazia)

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21.5.11

TU RICORDAMI

Tu ricordami quando sarò andata                                             
lontano, nella terra del silenzio,
né più per mano mi potrai tenere,
e io potrò il saluto ricambiare.

Ricordami anche quando non potrai
giorno per giorno raccontarmi i tuoi sogni:
ricorda e basta, perché a me, lo sai,
non giungerà parola né preghiera.

Pure se un po' dovessi tu scordarmi
e dopo ricordare, non dolerti:
perché se tenebra e rovina lasciano

tracce dei miei pensieri passati,
meglio per te sorridere e scordare
che dal ricordo essere tormentato.
Christina Rossetti

Giulio Monteverde - L'angelo della resurrezione - Cimitero di Genova

Christina Rossetti fu una poetessa britannica, nata a Londra nel 1830.E' conosciuta soprattutto come sorella del pittore Dante Gabriel Rossetti, artista tra i fondatori del movimento artistico dei Preraffaelliti, i cui dipinti sono ascrivibili alla corrente europea del Simbolismo.
La famiglia ebbe un grave dissesto economico per la precaria salute fisica e mentale del padre. A 14 anni anche Christina cominciò a soffrire di crisi nervose e cadde in depressione.
Iniziò a scrivere molto presto, ma dovette superare i trent’anni per vedere pubblicata la sua prima raccolta di poesie Goblin Market and Other Poems, che ottenne tuttavia una critica molto favorevole, che la salutava come naturale erede di Elizabeth Barret Browning. Il titolo che dà il nome alla raccolta è il lavoro più famoso di Christina Rossetti, e nonostante a prima vista sembri semplicemente una filastrocca sulle disavventure di due sorelle in mezzo agli gnomi (goblins), la poesia è complessa e ha diversi livelli di lettura, che la critica ha interpretato in modi molto differenti: un'allegoria sulla tentazione e la redenzione, un commento sui ruoli sessuali nell'epoca vittoriana, e la tematizzazione del desiderio erotico e della redenzione sociale.
Morì di cancro nel 1894.
Con l'arrivo del Modernismo, agli inizi del '900, la sua popolarità venne offuscata, come quella di molti altri scrittori d'epoca vittoriana. Christina Rossetti rimase dimenticata fino a quando negli anni settanta, non venne riscoperta dalle studiose femministe.

fonte di documentazione: Wikipedia
(mca ringrazia)




19.5.11

P.F. NON RACCONTATECI LE SOLITE FAVOLE





                                                               Image by Daniele Longoni - tutti i diritti riservati
                                            Elaborazione by mca (mca ringrazia)


*
basta con le


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16.5.11

I stood like a stone


I winged my bird.

Though he flew toward the setting sun;

But just as the shot rang out, he soared

Up and up through the splinters of golden light,

Till he turned right over, feathers ruffled,

With some of the down of him floating near,

And fell like a plummet into the grass.

I tramped about, parting the tangles,

Till I saw a splash of blood on a stump,

and the quail lying close to the rotten roots.

I reached my hand, but saw no brier,

But something pricked and stung and numbed it.

And then, in a second, I spied the rattler -

The shutters wide in his yellow eyes.

The head of him arched, sunk back in the rings of him,

A circle of filth, the color of ashes,

Or oak leaves bleached under layers of leaves.

I stood like a stone as he shrank and uncoiled

And started to crawl beneath the stump,

When I fell limp in the grass.


                Immagine di Nello Alberti (tutti i diritti riservati)




Ferii l’ala all’uccello,
 
benché volasse verso il sole morente;

ma proprio mentre risuonava il colpo , lui s’innalzò

alto, più in alto, attraverso schegge di luce dorata,

fino a che si rovesciò, le penne arruffate,

con qualche piuma che mi planava vicina,

e cadde come piombo nell’erba.

Avanzai calpestandola, dividendo i grovigli,

fino a vedere uno spruzzo di sangue su un tronco tagliato,

e la quaglia abbandonata accanto alle radici marcite.

Allungai la mano e di rovi non ne vidi,

ma qualcosa la punse, la trafisse gelandola.

E un secondo dopo, scorsi il serpente a sonagli,

le palpebre larghe sugli occhi gialli,

la testa arcuata affondata nelle spire,  

un cerchio lurido, color di cenere,

o di foglie di quercia sbiancate sotto strati di fronde.

Rimasi impietrito mentre lui si contraeva srotolandosi

e cominciava a strisciare sotto il tronco,

quando caddi inerte, fra l’erba.
Bert Kessler


Edgar Lee Masters
Antologia di Spoon River
Trad. Letizia Ciotti (riv.mca)

15.5.11

Se siete annoiati e disgustati dalla politica

Se siete annoiati e disgustati dalla politica e non vi disturbate a votare, di fatto votate per gli arroccati establishment dei due principali partiti, i quali, potete starne certi, stupidi non sono, ma anzi hanno una consapevolezza profonda di quanto gli convenga mantenervi in una condizione di disgusto e noia e cinismo, fornendovi ogni possibile motivazione psicologica perché il giorno delle primarie ve ne stiate in casa a farvi i cilum (= canne o pippe ) guardando Mtv. Sia chiaro: avete tutto il diritto di stare a casa, se volete, ma non prendetevi in giro pensando di non votare. In realtà, non votare è impossibile: si può votare votando, oppure votare rimanendo a casa e raddoppiando tacitamente il valore del voto di un irriducibile.
(da Forza, Simba di D.F.W.)

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"Succedono cose davvero terribili. L'esistenza e la vita spezzano le persone in tutti i cazzo di modi possibili e immaginabili...."
David Foster Wallace - NON SIGNIFICA NIENTE - Brevi interviste con uomini schifosi 

Questo è un racconto di abiezione un po' disturbante, tratto dalla raccolta di David Foster Wallace, ed è stato da me scelto  fra i tanti bellissimi disponibili, per un mero discorso di brevità ma anche per il tema sconvolgente che l'attualità continua a riproporci.
Purtroppo questi casi, nemmeno così rari come si vorrebbe credere o sperare, lasciano la vittima in una posizione di tormentata incertezza che la fa giungere a sentirsi quasi colpevole nei confronti del proprio aguzzino.
Per riuscire a salvarsi non esiste altro mezzo che quello della rimozione.

SILENZIO, SI LEGGE

Eccovene una stramba. E’ stato un paio d’anni fa, avevo 19 anni e mi preparavo a lasciare casa dei miei per andare a stare per conto mio, e un giorno che mi stavo preparando, all’improvviso mi torna in mente questo ricordo di mio padre che si mena l’uccello sotto il mio naso una volta che ero piccolo. Il ricordo viene fuori di punto in bianco, ma il fatto, che è così particolareggiato e sembra così concreto, mi dice che è assolutamente vero. All’improvviso so che è successo veramente, non è stato un sogno anche se aveva lo stesso tipo di stramberia bislacca che hanno i sogni. Ecco il ricordo improvviso. Potevo avere 8 o 9 anni e me ne stavo da solo nella stanza del tempo libero, dopo la scuola, a guardare la TV. Mio padre scende ed entra nella stanza e si piazza davanti a me, cioè tra me e la TV, senza dire niente, e io non dico niente. E, senza dire niente, tira fuori l'uccello e si mette come a menarselo sotto al mio naso. Mi ricordo che a casa non c'era nessuno. Doveva essere inverno, perchè mi ricordo che faceva freddo giù nella stanza del tempo libero, e io mi ero avvolto nello scialle che si metteva la mamma per guardare la TV.
Parte dell’assoluta stramberia dell’episodio di mio padre che si mena l’uccello davanti a me là sotto, era che, per tutto il tempo, non ha detto niente (me lo ricorderei se avesse detto qualcosa) e nel ricordo non c’è niente che riguarda la faccia che aveva, tipo che espressione aveva. Non mi ricordo nemmeno se mi guardava. Mi ricordo soltanto l’uccello. Cioè l’uccello reclamava tutta la mia attenzione. Stava lì a menarselo sotto il mio naso, senza dire niente né fare alcun commento, scuotendolo più o meno come fai al cesso, cioè quando te lo sgrulli, ma c’era anche un che di minaccioso e un po’ spaccone nel modo come lo faceva, mi ricordo anche come se l’uccello fosse un pugno che mi metteva sotto il naso sfidandomi a dire qualcosa, e mi ricordo che ero avvolto nello scialle, e non riuscivo a alzarmi o a liberarmi, e mi ricordavo soltanto di spostare la testa di qua e di là, cercando di levarmelo da sotto il naso (l’uccello). E’ uno di quei fatti veramente bislacchi, talmente strambi che non ti sembra che stiano succedendo perfino mentre succedono. Prima, l’unica volta che avevo visto l’uccello di mio padre era stato negli spogliatoi. Mi ricordo che spostavo la testa dappertutto sul collo, con l’uccello che mi seguiva dappertutto, e mentre lo facevo mi venivano alla mente pensieri veramente bislacchi, tipo: sto muovendo la testa tale e quale a un serpente, ecc. non ce l’aveva duro. Mi ricordo che l’uccello era un po’ più scuro del resto, e grosso, con una grossa orribile vena che gli correva su un lato. Il buchino sull’estremità sembrava lungo e stretto e incazzato, e si apriva e chiudeva un po’ mentre mio padre si menava, tenendo il coso minacciosamente dritto sotto il mio naso ogni volta che spostavo la testa di qua e di là.
Questo il mio ricordo. Dopo avercelo avuto (il ricordo) mi aggiravo per casa dei miei come frastornato, cioè come stordito, completamente allucinato, senza raccontarlo a nessuno, e senza chiedere niente. So che quella era l’unica volta che mio padre aveva fatto una cosa del genere. Questo mentre preparavo i bagagli, e andavo in giro per negozi a rimediare scatoloni per il trasloco. Certe volte mi aggiravo per casa dei miei sotto shock, sentendomi assolutamente strambo. Continuavo a pensare al ricordo improvviso. Andavo in camera dei miei e poi giù nella stanza del tempo libero. Nella stanza del tempo libero c’era un nuovo impianto audiovisivo invece della vecchia TV, ma lo scialle della mamma era sempre lì, steso sullo schienale del divano quando non veniva usato. Era lo stesso scialle del ricordo. Cercavo continuamente di pensare perché mio padre avesse fatto una cosa del genere, che cosa poteva aver pensato, cioè che significato poteva aver avuto, e cercavo di ricordarmi se c’erano stati uno sguardo o un’emozione di qualche tipo, durante la cosa, sulla sua faccia.
Ora diventa ancora più strambo, perché alla fine, il giorno che mio padre prese una mezza giornata libera e andammo a affittare un furgone che mi serviva per fare fagotto e trasferirmi, alla fine, nel furgone, tornando a casa dal noleggio, sputai il rospo, e gli chiesi di quel ricordo. Glielo chiesi a bruciapelo. Mica c’è un modo di arrivare per gradi a una cosa del genere.. mio padre aveva addebitato l’affitto del furgone sulla sua carta, ed era lui a guidare. Mi ricordo che la radio del furgone non funzionava. Nel furgone, di punto in bianco (dalla sua prospettiva), dico improvvisamente a mio padre che ultimamente mi ero ricordato quel giorno che lui era sceso e si era menato l’uccello sotto il mio naso quand’ero piccolo, e più o meno gli descrivo brevemente quello che mi ero ricordato, e gli chiedo: si può sapere che cazzo voleva dire? Visto che lui si limitava a guidare il furgone e non diceva o faceva niente in risposta,  insisto, tirando di nuovo in ballo quell’episodio, e gli faccio di nuovo la stessa domanda (fingendo che magari non aveva sentito quello che gli avevo detto la prima volta). A quel punto mio padre una cosa la fa – siamo nel furgone, su un breve rettilineo lungo la strada che porta alla casa dei miei, così mi posso preparare per andarmene a stare per conto mio, - lui, senza muovere le mani dal volante, né muovere un solo muscolo tranne il collo, gira la testa per guardarmi, e mi rivolge quello sguardo. Non è uno sguardo incazzato, o confuso come se credesse di non aver sentito bene. E non è come a dire: - si può sapere che diavolo ti prende? O - levati dai coglioni, o una delle cose che dice di solito per farti capire che è incazzato. Non dice nemmeno mezza cosa, anche se quello sguardo che mi rivolge dice tutto, cioè che non riesce a credere di aver appena sentito quella stronzata uscirmi dalla bocca, cioè che è veramente incredulo e disgustato, cioè che non solo in vita sua non si è mai menato l’uccello senza motivo davanti a me quand’ero piccolo ma già il fatto che mi sono potuto anche solo immaginare che lui si sia mai venuto a menare l’uccello davanti a me, e poi ci ho creduto, e poi me ne vengo davanti a lui in quel furgone in affitto, e poi lo accuso. Ecc. ecc. lo sguardo che mi lanciò di rimando nel furgone mentre guidava, dopo che avevo tirato in ballo il ricordo e gli avevo chiesto spiegazioni a bruciapelo…fu quello a farmi saltare completamente la bussola, nei suoi confronti. Lo sguardo che voltandosi mi lanciò lentamente diceva che era imbarazzato per me, e imbarazzato per se stesso anche per il solo fatto di essere imparentato con me. Immaginate di essere a una grande, scicchissima cena in giacca e cravatta o a un banchetto in grande stile con vostro padre, quando tutto a un tratto prendete e salite sopra al tavolo del banchetto, vi accovacciate e vi mettete a cacare proprio lì sul tavolo, davanti a tutti…è quello il genere di sguardo che vi lancerebbe vostro padre, mentre lo fate. Grosso modo fu allora, nel furgone, che sentii che avrei potuto ucciderlo. Per un secondo cioè sentii che avrei voluto che il furgone si aprisse e mi ingoiasse, tanto ero imbarazzato. Ma, dopo qualche frazione di secondo, sentii di essere così assolutamente incazzato che avrei potuto ucciderlo.. era strano…il ricordo in sé per sé, sul momento, non mi aveva fatto sentire incazzato, ma solo allucinato, come sotto shock. Ma quel giorno, nel furgone noleggiato, il modo come mio padre non aveva sprecato una sola parola, limitandosi a guidare verso casa in silenzio, con tutte e due le mani sul volante, e quello sguardo sulla faccia perché gli avevo chiesto quella cosa…bé, ora ero veramente incazzato. Avevo sempre pensato che quella cosa che si dice sul fatto, che quando ti imbestialisci ci vedi rosso fosse una figura retorica, invece è vero. Dopo aver caricato tutte le mie cianfrusaglie sul furgone me ne andai e non mi feci più vivo coi miei per oltre un anno. Neanche una parola. Il mio appartamento, nella stessa città, non distava più di un paio di miglia, ma non gli diedi nemmeno il numero di telefono. Fingevo che non esistessero. Tanto ero disgustato e incazzato. Mia madre non aveva la minima idea del perché non mi facevo vivo, ma con lei avrei tenuto la bocca cucita, poco ma sicuro, e sapevo, mi ci sarei giocato i coglioni, che mio padre non avrebbe aperto bocca. Tutto quello che vedevo mantenne un lieve colorito rosso per qualche mese, dopo che me ne andai senza farmi più vivo, o, se non altro, una sfumatura rosa. Non pensavo spessissimo al ricordo di mio padre che si menava l’uccello davanti a me da piccolo, ma non passava giorno che non ricordassi quello sguardo che mi aveva lanciato nel furgone quando avevo di nuovo tirato in ballo quella storia. Lo volevo uccidere. Per qualche mese pensai di andare a casa quando non c’era nessuno e prenderlo a calci in culo.. mia sorella non aveva la minima idea del perché non mi facevo vivo coi miei e disse che dovevo essere uscito di testa, stavo spezzando il cuore alla mamma, e quando chiamai mi trattarono come una merda per non essermi fatto più vivo senza dare spiegazioni, ma ero così incazzato da sapere che sarei finito nella fossa senza dire un altro cazzo di parola su quella faccenda. Non è che non dicevo niente perché me la facevo sotto, è che quella cazzo di cosa mi aveva talmente fatto perdere la bussola da farmi sentire che se l’avessi di nuovo tirata fuori e qualcuno mi avesse lanciato un’occhiata di qualche tipo, sarebbe successo il finimondo.. quasi ogni giorno, mi immaginavo di andare a casa e prendere mio padre a calci in culo, mentre lui non faceva che chiedermi perché, e che voleva dire, e io che non dicevo una parola, e sulla mia faccia non ci sarebbero stati uno sguardo o un’emozione mentre gli facevo sputare l’anima.
Poi col passare del tempo, io, a poco a poco, mi liberai di tutta la faccenda. Sapevo ancora che il ricordo di mio padre che si menava l’uccello davanti a me nella stanza del tempo libero era assolutamente reale, ma, a poco a poco, cominciai a capire che, perché ero io a ricordare l’episodio, non significava necessariamente che mio padre l’avesse fatto. Cominciai a capire che magari lui si era dimenticato di tutta la faccenda. Era possibile che tutta la faccenda fosse talmente stramba e inspiegabile che mio padre l’aveva psicologicamente rimossa dai suoi ricordi, e che quando io, di punto in bianco (dal suo punto di vista) l’avevo ritirata in ballo nel furgone, lui non ricordasse di aver fatto mai una cosa così bislacca e inspiegabile come venire di sotto a menarsi minacciosamente l’uccello davanti a un bambino, e aveva pensato che mi fossi bevuto il cervello, e mi aveva lanciato quello sguardo che esprimeva tutto il suo disgusto.. cioè non ero proprio convinto che mio padre non se ne ricordava, ma cominciavo a considerare, poco a poco, la possibilità che l’aveva rimosso. Poco a poco, sembrava che la morale del ricordo di un episodio così strambo è: tutto è possibile. Dopo quell’anno, ero arrivato alla conclusione che, se mio padre era disposto a dimenticare tutta la faccenda di me nel furgone che tiravo in ballo il ricordo di quell’episodio, e a non tirarla più in ballo,  allora io ero disposto a dimenticare tutta la faccenda. Sapevo, e mi sarei giocato tutti e due i coglioni, che io non l’avrei più tirata in ballo. Quando arrivai a questa conclusione riguardo all’intera faccenda, era più o meno l’inizio di luglio, poco prima del 4 luglio, che è anche il compleanno della mia sorellina, così, di punto in bianco (secondo loro), prendo e chiamo i miei chiedendo se potevo passare per il compleanno di mia sorella e vederli nello speciale ristorante dove per tradizione portavano sempre mia sorella per il suo compleanno, visto che le piace tanto (il ristorante). Questo ristorante, che è il centro del nostro centro abitato, è italiano, costo setto, con decorazioni per lo più scure, di legno, e i menu in italiano. (la nostra famiglia non è italiana.) era buffo che proprio in quel ristorante, in occasione di un compleanno, mi sarei fatto vivi coi miei, perché quand’ero piccolo i miei sapevano che quello era per tradizione il mio ristorante preferito, dove volevo sempre andare per il mio compleanno. Chissà perché, da piccolo, mi ero fatto l’idea che fosse gestito dalla mala, cosa che su di me esercitava un fascino incredibile, da piccolo, e rompevo sempre le scatole ai miei per farmici portare almeno per il compleanno, finché, poco a poco, crescendo, diventai troppo grande per quel posto, che, chissà perché, cominciò a diventare il ristorante preferito di mia sorella, come se l’avesse ereditato. Ha le tovaglie a quadretti rossi e neri e tutti i camerieri sembrano malavitosi, e, sui tavoli del ristorante ci sono sempre delle bottiglie di vino vuote con le candele ficcate nel buco, che si sono sciolte, e la cera di vari colori indurita le ricopre su tutti i lati formando linee e disegni variegati. Da piccolo ricordo che avevo una strana attrazione per le bottiglie di vino tutte coperte di cera secca, e mio padre doveva dirmi in continuazione di non staccare la cera. Quando arrivai al ristorante in giacca e cravatta, loro erano già tutti lì, a tavola. Mi ricordo che mia madre sembrava veramente entusiasta e contenta di vedermi, e si capiva che era disposta a perdonarmi per quell’anno intero che non mi ero fatto vivo, tanto era contenta di sentire che eravamo di nuovo una famiglia.
Mio padre disse – Sei in ritardo. Accenni di una qualche espressione, zero.
Mia madre disse – Abbiamo già ordinato, se per te va bene.
Mio padre disse che avevano ordinato anche per me visto che ero arrivato con un po’ di ritardo.
Mi misi a sedere, e chiesi sorridendo cosa mi avevano ordinato.
Mio padre disse – Pollo al piatto. Te l’ha ordinato tua madre.
Io dissi – Ma io odio il pollo. L’ho sempre odiato. Come avete fatto a dimenticare che odio il pollo?
Per un attimo ci guardammo tutti intorno al tavolo, anche la mia sorellina, anche il suo ragazzo capelluto. Per una lunga frazione di secondo ci fu uno scambio di sguardi. Questo mentre il cameriere portava il pollo per tutti. Allora mio padre sorrise, e fece per scherzo il gesto di mollare un pugno e disse – Levati dai coglioni.
Allora mia madre si mise una mano sul petto, come fa quando ha paura di mettersi a ridere troppo forte, e rise. Il cameriere mi mise il piatto davanti, e io feci finta di guardarlo con una smorfia, e tutti a ridere.
Era buonissimo.    
David Foster Wallace
(da Brevi interviste con uomini schifosi)
David Foster Wallace (1962 –2008) è stato un narratore, saggista e autore statunitense, noto per il suo realismo isterico e la cupa ironia.
Considerato uno dei rappresentati della corrente letteraria Avantpop, movimento artistico statunitense scaturito dal postmodernismo degli anni novanta
È caratterizzato dall'uso di materiali provenienti dai mass media montati in testi letterari (nei quali si adottano tecniche narrative ispirate a cinema, musica pop, televisione, fumetti, internet, videogiochi.
Wallace è stato definito dal New York Times un "Émile Zola post-millennio" e " La mente migliore della sua generazione".
E’ stato spesso paragonato ad autori celebrati come Thomas Pynchon, Don DeLillo, Vladimir Nabokov, Jorge Luis Borges.

Laureatosi nel 1985 in letteratura inglese e in filosofia, con una specializzazione in logica modale e matematica, a soli venticinque anni già si distingueva per il suo stile ironico, complesso e acuto, un talento letterario che i critici non tardarono a notare.
Nel 1989 uscì negli Stati Uniti La ragazza con i capelli strani, una raccolta di racconti considerata un suo manifesto poetico e stilistico.
Il secondo romanzo, Infinite Jest fu un libro-evento, un tomo di oltre 1400 pagine che consacrò Wallace autore di culto internazionale: uscì nel 1996 negli USA e in Italia nel 2000, lanciato da Fandango e ottenne ampia e immediata eco.
Il romanzo, considerato il capolavoro dello scrittore americano, descrive la complessità della società contemporanea: le difficoltà nei rapporti interpersonali, l'uso delle droghe, il ruolo sempre più importante del mondo dello spettacolo, dei media e dell'intrattenimento, l'esasperata competizione sociale.
In Brevi interviste con uomini schifosi , impiegando un linguaggio intellettualistico, sbracato e chirurgicamente dissezionante, Wallace ci vuole dire che siamo tutti dei Mostri. E la vera schifezza risiede nel fatto che tale mostruosità è stata omologata come normalità e ad essa ci siamo ormai assuefatti.
La sera del 12 settembre 2008, Wallace ha deciso di farla finita impiccandosi nel patio di casa propria a Claremont, in California, lasciando nello sconcerto più totale il mondo letterario, i suoi fedeli e i suoi estimatori.


9.5.11

QUANDO TUTTO SEMBRA SVANIRE



La poesia
              è
                      il      salvagente
           cui mi
                           AGGRAPPO     quando
                 tutto sembra
svanire.
                                  Quando il
    mio cuore
                                  gronda

 per lo strazio
               delle parole
                                       che feriscono>
                              dei silenzi che
t   r   a   s   c   i   n   a   n   o
                         verso il precip
                                             i z
                                               i
                                               o
  Quando ormai
                        sono
 così   
                     impenetrabile


che neanche
                                             più
        l' a r i a
                      riesce

      ++++ a passare++++.



image by Celeste Molinari
from a poem of  Kahlil Gibran

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