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Oh, quale mai felicità più bella,
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eccomi qua buonissimo e servizievole!/
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Non navighiamo sullo stesso mare,
eppure così sembra.
Grossi tronchi e ferro in coperta,
sabbia e cemento nella stiva,
io resto nel profondo,
avanzo con lentezza,
a fatica nella tempesta,
urlo nella nebbia.
Tu veleggi in una barca di carta
e il sogno sospinge l’azzurra vela,
così dolce è il vento, così delicata l’onda.
Olav H. Hauge
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Welcome back to New York!
Si festeggia con questo film il fugace ritorno di Woody Allen alla beneamata New York con gran tripudio del pubblico storicamente legato all’umorismo metafisico e alla soda caustica con cui questo cineasta ha firmato le divagazioni delle sue migliori sceneggiature. Un pubblico, diciamolo, di maggiori pretese, affezionato a quell’ipocondriaco, narcisista, rancoroso, misantropo, disfattista ebreo, il cui miglior territorio di caccia passa per le vie di Brooklin e Manhattan, e quella che riesce a prendere meglio di mira è la gente della middle class newyorchese, con i suoi tanti vizi e poche virtù, razza di cui si sente l'ispirato teorico, nonché capro espiatorio ideale.
Sradicato dal questo ecosistema intellettuale, Allen suscita, in chi lo ammira, la malinconica impressione di un delfino che boccheggi dentro a una vasca di pesci rossi.
Fugace ritorno s’è detto, perché, da quanto si sa, sarebbe già in cantiere un altro film da girare di nuovo in Europa (Parigi forse), la prossima estate.
Qualora Allen non vi fosse mai piaciuto fin dagli albori, saltate il giro, perché alle origini vi ci riporta di peso.
Se non altro ci prova, con questa vecchia sceneggiatura rimasta nel cassetto per un trentennio, rispolverata e riadattata all’interpretazione di un esuberante Larry David, venuto buono per l'occasione. Questo attore, da noi ancora sconosciuto, ma in America già in evidenza per aver partecipato ad una serie comica televisiva, si è meritato, per questa prova, il titolo onorifico di suo "alter ego" cinematografico.
David riesce ad assomigliargli quasi come un fratello. Un fratello maggiore, diciamo, possedendo quella naturale tendenza prevaricatrice che i fratelli più anziani sperimentano a danno dei secondo-terzo geniti.
David tenta di eguagliare il maestro ma, per mostrarsi all’altezza, forza la caratterizzazione del suo personaggio, con effetto sconcertante, che in parte gioca contro aspettative di tratto più sottile.
Siamo lontani dalla misura e dal distacco recitativo di Allen, straordinario caposcuola nell’interpretazione impacciata dello scetticismo ateo, della disillusione esistenziale, dell’auto compatimento e del rassegnato disgusto per la nullità del mondo circostante.
Avremmo preferito vedere interpretato da lui questo ruolo, che poteva calzargli a pennello.
Ma forse il nostro Allen comincia ad accusare la difficoltà di un sempre più imbarazzante confronto fisico con le splendide attrici che sceglie per protagoniste, nonostante molte di loro si siano tranquillamente accompagnate a lui anche nella vita vera, dicendola lunga circa la caccia femminile ai maschi dotati di cervello, prede ormai in via di estinzione.
Il film convince a patto si sia disposti a digerire l’amara verità che nessuno, ma proprio nessuno, corrisponde realmente a ciò che appare; ognuno è indotto a scelte che risultano funzionali ai propri conflitti interiori e non ai reali bisogni di cui spesso ignora persino l’esistenza, tirando avanti alla bene-meglio e usando gli altri per la propria convenienza, finché fila.
Non è l’ideale, certo, ma la morale cinica è: non bisogna sottilizzare…basta che funzioni!
Woody Allen dimostra ancora di essere un cineasta di tutto rispetto, all’altezza della sua certificata abilità di narrazione.
Il suo personaggio regge nei panni di questo alter ego anche se meno ironico, più acido, dissacrante e aggressivo nell’espressione di rabbia e disprezzo, e che spesso si rivolge direttamente allo spettatore attraverso un'invisibile quarta parete, sotto lo sguardo stupefatto di chi lo osserva chiedendosi se per caso è ammattito. Una trovata paradossale ma geniale, con effetto urticante di grande efficacia.
Andrebbe registrato che in questa sceneggiatura non tutto è perfetto come ci si aspetterebbe da un regista così collaudato.
Volendo per forza sottilizzare, l’impianto psicologico risulta un po’ traballante, ma il mio giudizio globale resta comunque positivo perché Allen ha il grande merito di riuscire a farmi ridere e sorridere senza sforzo, cosa non da poco in tempi in cui, al contrario, quasi tutti riescono con grande facilità a farmi piangere, seppur in senso metaforico, ma che poi tanto metaforico non è detto lo sia.
Quindi, visto che funziona…viva per sempre Allen. (a New York, naturalmente!)
Voto 8,5
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