"Autenticità è affondare le mani nella terra."
GERBRAND BAKKER
nato nel 1962 a Wieringerwaard (Olanda)
C'è silenzio lassù è il suo primo romanzo premiato
con il Gouden Ezelsoor, tradotto in dieci paesi
e in via di riduzione cinematografica.
Lassù, poco più a Nord di Amsterdam, a poche bracciate dall’isola di Texel, la terra è piatta come la vita di chi la abita.
Ci abita Helmer, in una solitaria fattoria affacciata su uno dei tanti canali. Helmer è un uomo di mezza età, inaridito dagli avvenimenti, ama la scrittura e forse gli sarebbe piaciuto diventare un poeta.
Nel lontano 1967, tutti i giorni Helmer inforcava la sua bici e pedalava fino ad Amsterdam, per andare a seguire le lezioni di letteratura all’università.
Oggi si alza alle cinque di mattina, scende nella stalla, munge le vacche, dà da mangiare a asini e manze, conta pecore e agnelli, pulisce il letame e osserva il traffico volatile in cielo.
Non ha un televisore, non fuma, mangia quello che capita e non va mai in nessun posto, ad eccezione del mulino Bosman per girare le pale.
Ne ha piene le scatole di quella vita: pensa troppo spesso al suo gemello Henk - loro due facevano un corpo solo - finito annegato in un canale a 19 anni per colpa di una spregiudicata ragazza che, oltre ad averlo fatto innamorare, stava portandoglielo via un pezzo al giorno.
Perché vedo sempre
ogni volta che chiudo gli occhi
a letto o nei miei pensieri
i tuoi capelli, il tuo naso, il tuo petto?
A volte vedo me stesso
in uno specchio o in un vetro
subito dopo aver visto te:
l’altra metà del mio corpo.
Anche se sei giovane e bello,
penso di somigliarti,
il mio naso e il petto e i capelli
sono del tutto identici ai tuoi.
Un desiderio,
una ricerca dell’intero.
Helmer ormai ha più di cinquant’anni e nessun affetto su cui contare; non ha avuto tempo di costruirsene o forse non ci è predisposto: vive isolato nella casa rurale con l'anziano genitore relegato in un letto al piano di sopra, padre autoritario che lui detesta, che non gli ha mai fatto una carezza, non l’ha mai capito e, se vogliamo dirla tutta, gli ha rovinato la vita, forzandolo, alla morte del fratello, ad abbandonare gli studi per mettersi al lavoro nella fattoria, facendo di lui un contadino costretto a occuparsi di faccende per cui non sente alcuna inclinazione.
Helmer vive solo con una metà di sé ora, l’altra è anestetizzata o morta, forse svanita per sempre insieme a Henk.
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fattoria olandese - Piet Mondrian |
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Notevole è la tensione vissuta dall’io narrante, tra nostalgia di un’eterna appartenenza al proprio gemello – la metà di uno stesso essere – e l’esigenza di sentirsi finalmente "qualcuno", un intero, esperienza che ha potuto provare una sola volta nella vita e si è subito interrotta.
Ma, a dispetto della solitudine spaventosa che prova dentro, qualcuno c’è che sa riconoscere la sua individualità e saprà restituirgliela. Una sorpresa per Helmer, perchè non era fra quelli da cui aspettarsi qualcosa.
Pochi i fatti che accadono in questa narrazione che assomiglia più che altro a un diario.
E'un confronto continuo del protagonista con se stesso, il racconto del suo rapporto con la natura e gli animali, quasi più assiduo e profondo di quello che riesce ad avere con le persone.
Una ricchezza di atmosfere che sembrano contare più della trama stessa:
- L’osservazione del tempo meteorologico che declina le stagioni, l’assuefazione al silenzio rivitalizzato da piccoli rumori subito dissolti, come uno squillo di telefono, il fruscio di una bicicletta che passa sfrecciando lungo la strada, il brontolio sommesso degli animali.
- Una solitudine interrotta solo da rapidi passaggi terrestri, aerei od acquatici.
- Minuziose descrizioni di gesti minimi che scandiscono le ore e i pensieri della quotidianità e le lentezze legate alla semplicità della vita contadina.
Qualcuno potrebbe temere di annoiarsi, ma non è capitato a me.
Struttura scarna, prosa lenta, ma costruita con un piacevole linguaggio diversamente essenziale, che purtroppo, nella parte finale, perde la sua primitiva efficacia e fluidità: non si capisce se dovuto alla traduzione manchevole o ad una sorta di stanchezza emersa in corso d’opera.
Fatto sta che l’epilogo appare un po’ sbrigato via, sicuramente non adeguato alle attese prodotte, e penalizza il risultato dell’intero lavoro. Non va certo dimenticato che è un'opera prima.
Peccato però! mca
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