Qui non mi trovate,
io qui non ci sono.
Sto nella stanza accanto
dove non c'è nessuno.

27.11.11

TE FARURU

Le maggiori notizie di Paul Gauguin sono quelle rintracciabili nei Diari da lui stesso redatti, nei quali si rileva tuttavia un’evidente  tendenza a dipingere se stesso in modo piuttosto idealistico.
L’episodio più universalmente conosciuto su di lui è quello relativo al litigio con l’amico Van Gogh che in quel periodo, essendo egli senza mezzi, lo stava ospitando (e mantenendo) a Arles e in seguito al quale Vincent  si ritrovò con un orecchio mozzato. Le cronache ufficiali vogliono che fu lo stesso Van Gogh a tagliarselo in un raptus autodistruttivo, ma si vocifera che Van Gogh abbia invece cavallerescamente scagionato l’amico Paul dall’avergli procurato la lesione, asserendo di essersela auto-inflitta. Fatto è che Gauguin tagliò rapidamente la corda e se quella volta riuscì a scampare alla denuncia, la prigione non gli fu risparmiata in altre occasioni.

L’ampia raccolta di lettere intercorse fra Gauguin, Van Gogh e il di lui fratello Theo tra il 1887 e il 1891 rappresenta una testimonianza fondamentale di quel particolare legame artistico e umano che unì i tre amici, evidenziando i più intimi particolari della loro personalità, del loro carattere e dei loro pensieri sull’arte, la pittura e la vita. Il rapporto tra Van Gogh e Gauguin era iniziato a Parigi nel 1887 con uno scambio reciproco di quadri che avrebbe fornito poi il pretesto per le prime lettere. L’anno seguente, mentre Theo si fermava a Parigi rimanendo un punto di riferimento per i due pittori, i due artisti partirono separatamente alla ricerca del “selvaggio”, guidati dalla comune e urgente smania di dipingere. Gauguin si recò in Bretagna mentre Vincent andò a sud, in Provenza, il paese dei toni azzurri e dei colori allegri, precisamente ad Arles.
Tutta la prima parte dell’epistolario è incentrata sulle difficoltà economiche di Gauguin, complicate dal suo debole stato di salute, e sull’invito ad Arles da parte di Vincent, desideroso di condividere il suo studio e la sua casa gialla con quel pittore assai in gamba che egli dimostra di stimare oltre misura. Le preoccupazioni per la salute, l’umore e lo stato economico di Gauguin da parte di Vincent erano reali e sincere. La soluzione auspicata per risolvere i comuni problemi di sussistenza che impedivano a entrambi il sereno svolgimento del loro lavoro, era quella di convivere temporaneamente ad Arles, dividendo vitto, alloggio e spese e lavorando affiancati con il sostegno economico di Theo.
Era il 22 ottobre 1888 quando Gauguin, senza eccessive aspettative o speranze, lasciò la Bretagna per la Provenza. Ripensando a quell’esperienza nel 1903, poco prima di morire, nei suoi diari avrebbe così ricordato: “ Impiegai alcune settimane per cogliere l’aspro sapore di Arles e dintorni. Ciò non toglie che si lavorasse sodo, soprattutto Vincent. All’interno di due esseri, lui e io, uno un vero vulcano e l’altro non meno focoso, si stava preparando i qualche modo una lotta.”
Per nove settimane i due quindi lavorarono insieme, realizzando ciascuno una ventina di quadri. Il loro rapporto però, che fino a quel momento era rimasto molto superficiale, riservò a entrambi più di una delusione. Così Gauguin scrisse. “ Io e Vincent ci troviamo in generale ben poco d’accordo, soprattutto in pittura. I miei quadri gli piacciono molto, ma quando ci lavoro, trova sempre che sbaglio a fare questo o quello. E’ un romantico, mentre io sono più portato a uno stato primitivo.”
A impedire un sereno rapporto c’era dunque una differenza di carattere e di personalità.
Gauguin era infastidito dalla debolezza della psiche e dall’instabilità delle emozioni di Vincent. Lo stato di estrema tensione fra i due sarebbe alla fine sfociata nel tragico evento del taglio dell’orecchio che avrebbe indotto Gauguin a lasciare Arles in tutta fretta. I due amici non si sarebbero mai più rincontrati.


Paul Gauguin - Otahi ( solitaria ) - 1893
Donde veniamo? Chi siamo? Dove andiamo?
Ecco le cruciali domande a cui Gauguin tentò di dare risposta.
Nella sua costante ricerca espressiva, che aveva già registrato un fugace passaggio attraverso Impressionismo e Simbolismo, Gauguin si era aperto a uno stile di pittura che aveva sostanzialmente abolito prospettiva ed effetti luce-ombra per adottare forme piatte, semplificate e dai colori puri, stesi a grandi pennellate entro profili scuri ben delineati.
Quello che Gauguin capì di stare idealmente cercando era una società dove i rapporti fra uomo e donna fossero armoniosi, naturali, regolati da un codice implicito, tipico delle collettività ancora provviste di tradizione.
Nella società europea questo codice era stato profondamente sconvolto e il sogno artistico era ormai generalmente affollato da figure di donne minacciose e fatali.
Fu questo ideale di spiritualità quasi buddhista a determinare la partenza di Gauguin verso le isole remote del Sud Pacifico, ancora inesplorate dagli artisti fino a quell' epoca.
A bordo di un mercantile sbarcò a Papeete nella primavera del 1891, colmo di speranza e con questo saluto nel cuore:

Giungo in questo luogo dove è ignota la terra sotto i miei piedi
Giungo in questo luogo dove è nuovo il cielo sopra la mia testa.
Giungo in questa terra che sarà la mia dimora…
Spirito della terra, lo straniero t’offre il suo cuore perché tu te ne nutra.
Inseriti nell' eden naturalistico e spirituale delle isole, ecco rappresentati in un’inattività sognante i seni nudi e le magnifiche schiene e i fianchi delle Tahitiane solcate dalle nere ciocche dei capelli e fasciate nei parei fiorati .
La grande suggestione creata da queste atmosfere esotiche è principalmente frutto delle armonie coloristiche e della primitività delle forme.
Le figure semplificate fanno pensare ad una pittura eseguita di getto; in realtà ogni composizione è stata accuratamente studiata alla ricerca di nuove soluzioni stilistiche
Un' innovazione fondamentale nell'Arte, che avrà grande influenza sulla pittura posteriore e spianerà la strada all’astrattismo.

 *
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22.11.11

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  From morning to night I stayed out of sight Didn't recognize I'd become
                 No more than alive I'd barely survive


                              In a word...overrun
Won't hear a sound From my mouth
                  I've spent too long On the inside out My skin is cold

To the human touch This bleeding heart's
Not beating much
                               I murmured a vow of silence and now

I don't even hear when I think aloud Extinguished by light I turn on the night

 Wear its darkness with an empty smile
                        I'm creeping back to life My nervous system all awry

                         I'm wearing the inside out Look at him now

He's paler somehow But he's coming round He's starting to choke
It's been so long since he spoke
                             Well he can have the words right from my mouth

And with these words I can see Clear through the clouds that covered me

                                      Just give it time then speak my name Now we can hear ourselves again
         I'm holding out For the day

When all the clouds
                                                Have blown away I'm with you now

   Can speak your name Now we can hear
                                                               Ourselves again



*
*
*Wearing The Inside Out


Pink Floyd


 Image by mca







11.11.11

È UNA FORTUNA

                                                              Immagine Matteo Zarini diritti riservati (mca ringrazia)
                                 





                                                                È una fortuna passeggiare tra i castagni
                                               mi dici un mattino di novembre
                 mentre i gambi riversi del granturco
                                                      splendono sotto le finestre e le donne dei paesi
                                                                                   aprono la porta della bottega. È una fortuna
 
                                                                       marinare la vita che non ci appartiene
                                                            per ascoltare lo scricchiolìo tutto nostro
                                     delle foglie: le parole cadono felici
                                                                   come le bacche rosse dal corniolo.
                                                                                           È una fortuna non sbagliare sentiero
                                             verso il poggio da dove l'eremita
                                                        qualche secolo fa guardava la Lombardia
                                                                                            e dove noi ci abbracciamo tra le stoppie.

                                                                                                                Alberto Nessi


*

8.11.11

IN SOGNO O NO

On aura vu aussi ces femmes - en rêve ou non
mais toujours dans les enclos vagues de la nuit -
sous leurs crinières de jument, fougueuses,
avec de longs yeux tendres à lustre de cuir,
non pas la viande offerte à ces nouveaux étals de toile,
bon marché, quotidienne, à bâfrer seul entre deux draps,
mais l'animale soeur qui se dérobe et se devine,
encore moins distincte de ses boucles, de ses dentelles
que l'onduleuse vague ne l'est de l'écume,
le fauve souple dont tous sont chasseurs
et que le mieux armé n'atteint jamais
parce qu'elle est cachée plus profond dans son propre corps
qu'il ne peut pénétrer - rugirait-il d'un prétendu triomphe -,
parce qu'elle est seulement comme le seuil
de son propre jardin, ou une faille dans la nuit
incapable d'en ébranler le mur, ou un piège
à saveur de fruit ruisselant, un fruit,
mais qui aurait un regard - et des larmes.

*
Philippe Jaccottet




Ophelia



Le avremo ben viste anche queste donne - in sogno o no,
ma sempre nei recinti vaghi della notte -
focose sotto le loro criniere di giumenta,
con larghi occhi teneri dai bagliori di cuoio,
non già la carne in quotidiana svendita alle nuove
macellerie di immagini, che ingurgiti
solo, fra le lenzuola,
ma l'animale sorella che sfugge e s'indovina,
ancora meno distinta dai suoi riccioli, dalle sue trine
di quanto la vaga linea dell'onda sia dalla schiuma,
l'agile fiera di cui tutti vanno a caccia
e che il più armato non raggiunge mai
perché è nascosta giù in fondo al suo stesso corpo
ch'egli non può penetrare - se anche ruggisse di vano trionfo -
perché ella è soltanto la soglia
del suo stesso giardino,
o un'incrinatura nella notte
incapace di abbatterne il muro, o una tagliola
dal sapore di frutto gocciolante, solo un frutto,
ma dotato di sguardo - e anche di lacrime.




- trad. Philippe Jaccottet (chapeau!)  -






Philippe Jaccottet è un poeta, traduttore e critico svizzero nato a Moudon il 30 giugno 1925. Dopo gli studi in lettere all'università di Losanna, ha vissuto a Parigi, lavorando come corrispondente dell'editore Mermod.
Dal 1953 si è stabilito nel Sud della Francia con la moglie pittrice.
Traduttore dal greco (Odissea), dal tedesco (Goethe, Hölderlin, Rilke, l'opera omnia di Robert Musil), dall'italiano (Leopardi, Carlo Cassola, Giuseppe Ungaretti, Giovanni Raboni) e dallo spagnolo (Góngora).
Considerato uno dei maggiori poeti contemporanei europei è stato più volte candidato al Premio Nobel. (Wiki)

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6.11.11

TAMARA E GABRIELE

Tamara De Lempicka - La Camicia Rosa
olio su tavola - 1927
(collezione privata)


Il nudo nell’arte era stato considerato fino alla metà dell’Ottocento decoroso soltanto se nobilitato da riferimenti storici, mitologici, o religiosi. Già Platone, nel suo Simposio, aveva spiegato che esistono due tipi di venere: quella divina e quella volgare. Renoir aveva ribadito il concetto in modo più schietto: “ la donna nuda sorge dal mare o dal letto”. In sintesi se non era santa era puttana.
La bellezza che impose Tamara nei suoi nudi era invece rassicurante per la società dell’epoca, dagli albori del fascismo fino al dopoguerra.
Allineata al modello della diva o della pin-up promosso da Hollywood, era il tipo di donna che usciva dalle pagine patinate dalla rivista Vogue, additata come prototipo del fascino dalle grandi industrie cosmetiche come Elisabeth Arden e Helena Rubinstein, un simbolo di successo che le donne si sforzavano d’imitare.
I ritratti di Tamara de Lempicka emanano un fascino particolare perché avvolti nella luce del desiderio: le sue modelle sembrano godere e compiacersi nel ricordo del piacere assaporato. 
Scarna la biografia di Tamara: nata a Varsavia sul finire dell’Ottocento, fu attiva dapprima in Francia, dove studiò arte negli anni ‘20, e in seguito negli Stati Uniti dove tenne numerose esposizioni che la resero ricca e famosa. La sua formazione artistica prese ispirazione dall’Art Déco e dal Futurismo.
Sue caratteristiche personali furono fascino, eccentricità e ambivalenza, che si ritrovano ampiamente riflesse nelle sue opere. Sposata due volte, le cronache dell’epoca la ricordano soprattutto per la tormentata liaison con il poeta Gabriele d’Annunzio a quei tempi celebrato in tutta Europa come romanziere, drammaturgo e soprattutto dongiovanni.








Mademoiselle Poum Rachou - 1933

Scarna la biografia di Tamara: nata a Varsavia sul finire dell’Ottocento, fu attiva dapprima in Francia, dove studiò arte negli anni ‘20, e in seguito negli Stati Uniti dove tenne numerose esposizioni che la resero ricca e famosa. La sua formazione artistica prese ispirazione dall’Art Déco e dal Futurismo.
Sue caratteristiche personali furono fascino, eccentricità e ambivalenza, che si ritrovano ampiamente riflesse nelle sue opere. Sposata due volte, le cronache dell’epoca la ricordano soprattutto per la tormentata liaison con il poeta Gabriele d’Annunzio a quei tempi celebrato in tutta Europa come romanziere, drammaturgo e soprattutto dongiovanni.


Per Tamara può significare l'inizio del successo e il passaggio dalla bohème alla dolce vita. Se però D'Annunzio mira ad aggiungere questa creatura straordinariamente smart alla sua collezione di amanti, Tamara, da parte sua, fiuta subito una ghiotta occasione per farsi pubblicità. L'intera operazione fu condotta da lei con grande cinismo. Ansiosa di affermarsi nel suo successo d'artista e ossessionata dal ricordo della povertà, si era posta l'obiettivo di riuscire a fare un ritratto all'uomo dall'eccentrica personalità che stava influenzando un'intera epoca e che una larga cerchia di frequentazioni altolocate ammirava e celebrava.
Un ritratto di D'Annunzio eseguito dalla Lempicka avrebbe fatto notizia, richiamato l'attenzione e messo in ombra la sua rivale Romaine Brooks, che già con D'Annunzio aveva avuto una relazione ambigua.
Tamara aveva capito perfettamente le intenzioni del poeta, sapeva come erano fatti gli uomini e lei ci si era abituata, fondendo arte e sensualità.  D'Annunzio era ormai un anziano signore non più molto attraente, ma aveva un carattere molto forte ed era dotato di fascino non comune che Tamara voleva esplorare e catturare sulla tela.

Foto autografa con dedica a Tamara
A quei tempi il suo successo era ancora più di natura sociale che artistica ed essendone consapevole voleva fargli credere di poter rivolgergli le sue attenzioni e sfruttare l'infatuazione del poeta per dare una spinta alla propria arte.
Alla fine degli anni '70, quando furono ritrovati i diari della governante di D'Annunzio, che era stata anche sua amante, con i dettagli di quella storia per certi versi quasi grottesca dati in pasto al pubblico, Tamara ne fu contrariata e protestò energicamente perché il suo nome era stato accostato a quello di una serva, lamentando anche l'oltraggio inferto al grande poeta italiano, che però lei stessa aveva un tempo definito come "un vecchio nano in uniforme". Protestò anche contro un libro pubblicato dall'editore Ricci che, con la pretesa di discutere d'arte, traboccava di pettegolezzi sulla sua vita intima. Nonostante le sue vivaci proteste, il libro conobbe un grande successo in tutta Europa, risvegliando il generale interesse verso le sue opere e le quotazioni dei suoi quadri schizzarono alle stelle.


La parte del diario intitolata " Tamara al Vittoriale" risulta oggi abbastanza innocua.
Il Vittoriale, com'è noto, era una proprietà sulle sponde del lago di Garda che D'Annunzio, seguendo la sua non comune fantasia, aveva trasformato in un castello da favola, una sorta di scenografia hollywoodiana.
A giudicare dalle lettere che i due si scambiarono, fu Tamara che gli propose di incontrarlo, lo si deduce dal tono delle sue prime lettere, scritte in un francese non sempre impeccabile:
Venerdì.
Caro maestro e amico (come spero e desidero) eccomi a Firenze!!! Perché proprio Firenze? Per lavorare e purificarmi a contatto della vostra arte sublime...
Quanto mi rattrista non essere in grado di esprimere le mie idee. Avrei tanto voluto poter parlare con voi, confidarvi i miei pensieri, perché credo che voi capireste tutto...
Per Natale rientro a Parigi poi passo per Milano, dove conto trattenermi due giorni. Volete che passi anche da voi (in senso buono, s'intende). Io ne sarei felice, e voi? V’invio, caro fratello, tutti i miei pensieri, quelli buoni e quelli cattivi, quelli lascivi e quelli che mi fanno soffrire.
Tamara de Lempicka
E questo stile galante e affettato non si esaurirà con il primo scambio epistolare:
Domenica.
Grazie, vengo! Sono così felice, ma anche intimidita.
Come siete? Chi siete? E io, chissà se vi piacerò, così, una studentella, senza il mio guardaroba parigino, i miei cosmetici....ecc. ecc.
Il fratello D'Annunzio intanto non perde tempo e tende la sua trappola: l'unico punto delle lettere che lo interessa veramente riguarda la lascivia a cui Tamara allude.
Tuttavia D'Annunzio è cinico e scaltrito,  non si lascia ingannare facilmente.
Venite al Vittoriale, le scrive, troverete qui riunite le Muse dell'Arte, della Musica e della Letteratura.

 
Scrive questo mentre la Principessa del Piemonte, un'altra delle sue amanti, è appena partita lasciando il letto ancora tiepido.
E' comunque intenzionato a essere molto discreto anzichè impetuoso come al solito e di volerla trattare come una vera signora.
Chi non si fa nessuna illusione è il primo marito della Lempicka, Tadeusz che sa che gli uomini da lei ritratti sono stati anche suoi amanti e l'accusa di umiliarlo agli occhi del mondo intero con quei ritratti incriminati. Tadeusz seguirà da lontano l'evolversi della relazione con D'Annunzio, inviando ogni due giorni un telegramma alla moglie, intimandole di ritornare o almeno di scrivergli.
Nel frattempo il Vittoriale è in subbuglio per l'arrivo della bella polacca. L'anziano poeta è circondato da un vero e proprio harem - ospiti di passaggio, la sua concubina, la sorella di lei, la governante del famoso diario e uno stuolo di prostitute (non si chiamavano ancora escort) - che si preoccupa di organizzare per lui ogni sorta di piaceri, compresa la dose quotidiana di cocaina.
D'Annunzio il cui principio era do ut des, ha deciso di fare le cose in grande e all'arrivo di Tamara fa sparare un paio di cannonate a salve dall'incrociatore Puglia che si trova alla fonda davanti al parco della villa. Insieme ad ogni sparo risuona un sonoro "Alla Polonia! " " Alla vostra Arte!" " Alla vostra bellezza!".
Ma i suoi auguri non servono a molto: Tamara non è affatto disposta a farsi conquistare per così poco.
Lei che ha già avuto così tanti amanti, uomini e donne, decide di fare la preziosa... 
D'Annunzio dal canto suo è poco avvezzo a incontrare una qualche resistenza, la giudica capricciosa e non tarda a volersene sbarazzare. O almeno così fa credere alla governante che scrive sul diario: La Polacca non la può vedere e non aspetta altro che se ne vada. E' una smorfiosa, spera di fargli perdere la testa (povera illusa!). Una volta gli ha detto di temere di rimanere incinta perché ha solo ventisette anni - così dice - in realtà ne dimostra trentacinque. Una volta gli ha detto che per paura della sifilide non si è mai lasciata andare ad avventure sentimentali. "Vedete, ho un marito giovane e preferirei evitargli un regalo del genere." Voi avete così tante donne perciò mi chiedo se potrei fidarmi".
Come si vede Tamara se non altro sa fare buon uso della litote, ma D'Annunzio non crede alle proprie orecchie: una donna che osa parlargli in quel modo!
La governante ci va giù dura nel parlare col maestro: "Cose del genere le può pensare solo una prostituta! Del resto accetta i vostri omaggi fin troppo di buon grado: in due giorni le avete dato più di venticinquemila lire!" Avreste fatto meglio a donarle ai poveri."
La leziosità porta i suoi frutti e il fratello scalpita. Tamara capisce che è anche venuto il momento di concedere qualcosa,  si lascia baciare la nuca e il collo e poi  si spoglia per farsi accarezzare tutta, ma quando lui tenta un approccio più stretto, lei gli mette altri paletti, imponendogli di fare ciò che crede rimanendo vestito.
Il fatto che qualcuno tenti di resistergli non lascia indifferente il maestro che sa come vendicarsi con le parole . " Voi non siete una signora, siete solo una sgualdrina. Ma una sgualdrina di classe, lo ammetto. Solo la cortesia mi impedisce di farvi mettere alla porta dall'ultima delle mie serve. Ma resterò un signore fino alla fine. Lo faccio per vostro marito, che d'altra parte posso solo compatire per aver avuto in sorte una donna come voi."
Sempre sul diario si può leggere che il poeta cenò quella sera con Tamara per poi lasciarla sola molto presto e passare la notte con una giovane amica. Il loro rapporto continua a limitarsi al petting spinto  ma senza avere mai da lei il consenso a penetrarla.
La commedia giunge al suo apice con una lettera dal tono mellifluo con cui Tamara gli fa sapere che lo sta aspettando. D'Annunzio va da lei convinto che questa volta avrebbe ceduto, portando con sé persino la valigetta dell'amore, con tutti gli "accessori".
Sempre secondo il diario la trova più lucida che mai ma contraria a sniffare cocaina per paura di ricadere nel vizio che già l'aveva tormentata anni prima. Lui allora si toglie il pigiama per cercare di sedurla con la prestanza del suo fisico atletico, ma lei distoglie lo sguardo e dicendogli che detesta la pornografia.
A questo punto Gabriele le domanda una volta per tutte che cosa vuole da lui e Tamara inizia a parlargli del ritratto e dei prezzi che lei chiede. Lui risponde che non si permetta di parlare in questo modo a Gabriele D'Annunzio e le dà l'addio.
I protagonisti sono senz'altro uno più irriducibile dell'altro, ma pur sempre troppo civili e intelligenti per far scadere la commedia in un dramma e il duello terminò quindi senza vincitori nè vinti .
Tamara pensava al quadro che non avrebbe mai dipinto, mentre il maestro sarebbe rimasto schiavo infelice della sua voluttà insoddisfatta, solo in mezzo al suo harem.
Tuttavia non manca un finale degno di predatori del loro rango.
Nel diario si racconta ancora che qualche giorno più tardi Tamara, che nel frattempo si era trasferita a Gardone da alcuni amici, si vide recapitare uno scrigno con un rotolo di pergamena contenente una poesia che D'Annunzio le dedicava mentre nel portagioie c'era un anello d'argento massiccio, sormontato da un gigantesco topazio, che scivolò perfettamente lungo il dito della sua mano sinistra.
Nell'ultimo scambio epistolare il poeta la saluta con queste parole: "Ho trascorso notti di grande tristezza, grazie!" a cui lei rispose: "Ho trascorso ore di grande tormento, grazie!"



fonte:
Avventure sentimentali:
la giovane e bella
e il nano brutto e vecchio
Gilles Néret

1.11.11

DANAE

« Danae Acrisii et Aganippes filia. Huic fuit
fatum, ut, quod peperisset Acrisium interficeret;
quod timens Acrisius, eam in muro lapideo
praeclusit. Iovis autem in imbrem aureum
conversus cum Danae concubuit, ex quo
compressu natus est Perseus. Quam pater ob
stuprum inclusam in arca cum Perseo in mare
deiecit. Ea voluntate Iovis delata est in insulam
Seriphum, quam piscator Dictys cum invenisset,
effracta ea vidit mulierem cum infante, quos ad
regem Polydectem perduxit, qui eam in coniugio
habuit et Perseum educavit in templo Minervae.
Quod cum Acrisius rescisset eos ad Polydectem
morari, repetitum eos profectus est; quo cum
venisset, Polydectes pro eis deprecatus est,
Perseus Acrisio avo suo fidem dedit se eum
numquam interfecturum. Qui cum tempestate
retineretur, Polydectes moritur; cui cum
funebres ludos facerent, Perseus disco misso,
quem ventus distulit in caput Acrisii, eum
interfecit. Ita quod voluntate sua noluit, deorum
factum est; sepulto autem eo Argos profectus
est regnaque avita possedit. »
Igino Astronomo - Fabulae
II secolo-III secolo d.C

<>     
Gustav Klimt - Danae - 1907/08
olio su tela ( Graz, collezione privata )


La più alta espressione della bellezza rigogliosa è qui rappresentata dalla mitica Danae,
fecondata da Zeus con la penetrazione di una pioggia d'oro.
La forma, e l'elemento ornamentale curvilineo ripetuto,
sono i principi compositivi dell'intera rappresentazione
che risultano particolarmente accentuati dalla cromaticità dell'oro.
Apposita, da parte dell'artista, la scelta del taglio e della prospettiva deformante
che si rivelano utili a sensualizzare l'intensa corporeità di questo nudo dormiente.


Racconto di Danae
*
Dell'epoca in cui il mito era storia, si racconta che nella lontana città di Argo, regnasse il re Acriso, assieme alla sua sposa Euridice (o Aganippe secondo altri) e alla loro figlia Danae.
La tragica storia di re Acriso ebbe inizio quando si recò a Delfi per consultare l'oracolo. Non riuscendo ad avere figli maschi, era preoccupato per la sorte del suo regno, non sapendo a chi dover lasciare i suoi possedimenti. Il responso dell'oracolo fu travolgente in quanto gli predisse che non solo non avrebbe avuto figli maschi ma che un giorno sarebbe morto per mano di suo nipote, il futuro figlio di sua figlia Danae.
Il re, terrorizzato dalla profezia, fece rinchiudere la figlia in una torre dalle porte di bronzo, sperando in questo modo che non fosse mai avvicinata da uomo alcuno.
Ma Zeus che dall’alto dell’Olimpo seguiva le vicende mortali, impietosito dalla sorte toccata alla fanciulla ed invaghitosi di lei, entrò nella sua cella e, sotto forma di pioggia di gocce d’oro, concepì con lei quello che un giorno sarebbe diventato uno dei più grandi uomini della storia antica: Perse

Re Acriso, scoperta la gravidanza della figlia che fu costretta a confessare le origini divine del figlio, nonostante la paura e la grande rabbia, non ebbe il coraggio di ucciderla ma aspettò che il bambino nascesse, per rinchiudere entrambi in un sarcofago che abbandonò alla deriva in mezzo al mare. La loro sorte sarebbe stata sicuramente segnata se Zeus non avesse sospinto il cofano verso le rive dell’isola di Serifo, nelle Cicladi, dove un pescatore la trovò e una volta apertala, vide che la donna ed il bambino erano ancora vivi. Immediatamente li portò dal re Polidette, che li accolse nella sua reggia.
*
Passarono gli anni e Perseo, circondato dall’amore della madre, cresceva forte e valoroso. Danae, che la maturità aveva reso ancora più bella, era diventata oggetto dei desideri del re Polidette che cercava in tutti i modi di convincerla a sposarlo, ma Danae, il cui unico pensiero era il figlio, non ricambiava il suo amore. Polidette allora cercò di averla con l'inganno: finse di voler sposare un'altra donna e chiese ai suoi amici di fargli come dono nuziale un cavallo ciascuno. Perseo, che non possedeva e non poteva comprare un cavallo da donare al re, si scusò e disse imprudentemente che gli avrebbe procurato qualsiasi altro dono fosse di suo gradimento.
<>    <> <>   
Bernini -Musei Capitoli, Roma
*
Narra la leggenda che Medusa una delle tre Gorgoni e l’unica alla quale il fato non avesse concesso l’immortalità, era un tempo tra le donne più belle. Invaghitasi di Poseidone, aveva fatto con lui l’amore nel tempio di Atena.
Quest'ultima profondamente irritata dall’affronto subito, aveva trasformato la fanciulla in un orribile mostro: le mani le aveva trasformate in pezzi di bronzo; aveva fatto comparire delle ali d’oro e ricoperto il corpo di scaglie; i denti erano diventati simili alle zanne di un cinghiale; i capelli erano stati trasformati in serpenti ed al suo sguardo aveva dato la capacità di trasformare in pietra chiunque la guardasse negli occhi.
Aiutato da Ermes e Atena, Perseo, nel paesaggio desolato di uomini e animali che lo sguardo del mostro aveva pietrificato, camminando all’indietro e guardandola riflessa nello scudo lucente si avvicinò a Medusa. Non appena le fu dappresso, vibrò il colpo mortale che tagliò di netto la testa mentre i serpenti tentavano in tutti i modi di avvolgerlo nelle loro spire.

Presa la testa, la ripose immediatamente nella bisaccia mentre dal sangue che sgorgava copioso nacque Pegaso il magico cavallo alato che divenne suo fedele compagno nelle avventure lungo il ritorno a casa.
Le sorelle della vittima cercarono in tutti i modi di inseguirlo ma grazie all’elmo di Ade che lo rendeva invisibile e al magico
Pegaso, riuscì a sfuggire, volando via veloce come il pensiero, da quell’isola tetra e nefasta.
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Benvenuto Cuto Cellini - 1545/1554
Firenze Piazza della Signoria




Stanco del lungo viaggio costellato di vicessitudini e lutti, Perseo ritornò a Serifo, dalla madre Danae, appena in tempo per salvarla dalla morte alla quale il re Polidette l’aveva condannata perché continuava a non ricambiare il suo amore. Il re, messo di fronte alla testa di Medusa, fu pietrificato all’istante.  



Morto Polidette, madre e figlio poterono finalmente fare ritorno ad Argo, loro terra natale, per riconciliarsi con re Acriso, verso il quale gli anni avevano oramai cancellato ogni risentimento.
Ma il re Acriso, saputo dell’arrivo del nipote e della figlia, temendo l’antica profezia fuggì dal suo regno e riparò a Larissa in Tessaglia dove si svolgevano i giochi olimpici.  
Sembrava che finalmente il triste destino di Perseo fosse giunto al termine.

  *


Invece il destino volle che grazie alle sue doti atletiche fosse invitato a partecipare proprio a Larissa alle stesse gare sportive e mentre lanciava il disco, la potenza impressa dal suo forte braccio fece sì che questo oltrepassasse gli spalti, per colpire uno sfortunato spettatore che altri non era che il re Acriso mischiato alla folla. Scoperta la triste fine toccata al nonno al quale Perseo, nonostante tutto, voleva bene, triste e sfiduciato fece rientro ad Argo. Ma non accettò di diventare re anche se gli spettava di diritto e scambiò il suo trono con quello di Tirinto dove regnò in pace e con saggezza fino alla fine dei suoi giorni.
 

mca ringrazia
Wikipedia - Danae
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29.10.11

Nei miei primi anni


                Nei miei primi anni abitavo al terzo piano
                e dal fondo del viale di pitòsfori
                il cagnetto Galiffa mi vedeva
                e a grandi salti dalla scala a chiocciola
                mi raggiungeva.


                                 Ora non ricordo
                                 se morì in casa nostra e se fu seppellito
                                 e dove e quando. Nella memoria resta
                                 solo quel balzo e quel guaito né
                                 molto di più rimane dei grandi amori
                                 quando non siano disperazione e morte.


                                                                 Ma questo non fu il caso del bastardino
                                                                 di lunghe orecchie che portava un nome
                                                                 inventato dal figlio del fattore
                                                                 mio coetaneo e analfabeta,
                                                                 vivo meno del cane, e strano,
                                                                 nella mia insonnia.
                                                                                                                  Eugenio Montale


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23.10.11

Con le taglie milionarie ci si sbarazza del problema di dover istruire processi imbarazzanti

Mark Kostaby
Da tutti i canali TV l'istigazione a guardare e riguardare il video dell'orrore sull'esecuzione del colonnello Gheddafi, avvertendo con pruderie che si tratta di immagini molto forti, adatte ad un pubblico adulto.
Siamo al cinema : ormai non c'è più differenza tra finzione e realtà.
Ma per i bambini è più dannosa un' eventuale visione del barbaro omicidio o la vicinanza con adulti ipocriti che non sanno più dove stia la misericordia e il rispetto per la persona umana?
Gheddafi, lo avessi incontrato da vivo, odioso come mi stava, forse gli avrei sputato in faccia, certo non gli avrei stetto la mano nè tantomeno gliela avrei baciata! E non ho mai assistito ai Tg che trasmettevano gli  onori e l'ossequio che venivano tributati a lui e a tutto il ridicolo apparato al suo seguito.
E tantomeno ci tengo a guardarlo ora mentre agonizzante viene letteralmente liciato da giustizieri prezzolati.
Mi vanto, in questo contesto autodefinito "cristiano", di professarmi atea! Il mio raccapriccio davanti all'invito continuativo  ad assistere ad uno spettacolo così obbrobrioso non ha radici nel falso moralismo, bensì nell'umana pietà verso un mio simile.
E aggiungo: in nome della democrazia sono troppe le taglie milionarie e le esecuzioni compiute senza l'appoggio di un doveroso processo. Per me è una vergogna!



SILENZIO SI LEGGE!



L'UCCISIONE DEL DRAGO


Nel maggio 1902 un contadino del conte Gerol, tale Giosuè Longo, che andava spesso a caccia per le montagne, raccontò di avere visto in valle Secca una grossa bestiaccia che sembrava un drago. A Palissano, l’ultimo paese della valle, era da secoli leggenda che fra certe aride gole vivesse ancora uno di quei mostri. Ma nessuno l’aveva mai preso sul serio. Questa volta invece l’assennatezza del Longo, la precisione del suo racconto, i particolari dell’avventura, più volte ripetuti senza la minima variazione, persuasero che ci dovesse essere qualche cosa di vero e il conte Martino Gerol decise di andare a vedere. Certo egli non pensava a un drago; poteva darsi tuttavia che qualche grosso serpente di specie rara vivesse in quelle gole disabitate. Gli furono compagni nella spedizione il governatore Quinto Andronico con la bella e intrepida moglie Maria, il naturalista professor Inghirami e il suo collega Fusti, versato specialmente nell’arte dell’imbalsamazione. Il fiacco e scettico governatore da tempo si era accorto che sua moglie aveva per il Gerol grande simpatia, ma non se ne dava pensiero. Acconsentì anzi volentieri quando Maria gli propose di andare col conte alla caccia del drago. Egli non aveva per il Martino la minima gelosia, né lo invidiava pur essendo il Gerol molto più giovane, bello, forte, audace e ricco di lui.
Due carrozze partirono dopo la mezzanotte dalla città con la scorta di otto cacciatori a cavallo e giunsero verso le sei del mattino al paese di Palissano.
Giosuè Longo che faceva parte dei cacciatori e conosceva la strada si mise in testa al convoglio. Alzandosi il sole, la sonnolenza dei viaggiatori scomparve e i cavalli accelerarono il passo e i cocchieri si misero a canticchiare. Erano circa le nove quando le vetture si fermarono perché la strada finiva. I cacciatori, scesi dalla carrozza, si accorsero di trovarsi ormai nel cuore di quelle montagne sinistre. Viste da presso parevano fatte di rocce fradice e crollanti, quasi una frana da cima a fondo.
-          Ecco, qui comincia il sentiero – disse il Longo indicando una traccia di passi umani che saliva dall’imboccatura di una valletta. - Procedendo di là, in tre quarti d’ora si arrivava al Burel, dove il drago era stato visto.
-          E’ stata presa l’acqua? – domandò Andronico ai cacciatori.
-          Ce ne sono quattro fiaschi, e poi due altri di vino, eccellenza – rispose uno dei cacciatori,
-  ce n’è abbastanza, credo…
Strano, adesso che erano lontani dalla città, chiusi dentro alle montagne, l’idea del drago cominciava a sembrare meno assurda. I viaggiatori si guardavano attorno, senza scoprire cose tranquillizzanti. Creste giallastre dove non era mai stata anima viva, vallette che si inoltravano ai lati, nascondendo alla vista i loro meandri: un grandissimo abbandono.
S’incamminarono senza dire parola. Precedevano i cacciatori coi fucili, le colubrine e gli altri arnesi da caccia, poi veniva Maria, ultimi i due naturalisti. Per fortuna il sentiero era ancora in ombra; fra le terre gialle il sole sarebbe stato una pena.
Anche la valletta che menava al Burel era stretta e tortuosa, non c’era torrente sul fondo, non c’erano piante né erba ai lati, solamente sassi e sfasciumi. Non canto di uccelli o di acque, ma isolati sussurri di ghiaia.
Mentre il gruppo così procedeva, sopraggiunse dal basso, camminando più presto di loro, un giovanotto con una capra morta sulle spalle. – Va dal drago, quello. – Fece il Longo; e lo disse con la massima naturalezza, senza alcuna intenzione di celia, la gente di Palissano, spiegò, era superstiziosissima, e ogni giorno mandava una capra al Burel per rabbonire gli umori del mostro. L’offerta era portata a turno dai giovani del paese. Guai se il mostro faceva sentire la sua voce. Succedeva disgrazia.
-          E ogni giorno il drago si mangia la capra? – domandò scherzoso il conte Gerol.
-          Il mattino dopo non trovano più niente, questo è positivo.
-          Nemmeno le ossa?
-          Eh, no, la va a mangiare dentro la caverna.
-          E non potrebbe darsi che fosse qualcuno del paese a mangiarsela?- fece il governatore, - la strada la sanno tutti. L’hanno veramente mai visto il drago acchiapparsi la capra?
-          - non so questo, eccellenza – rispose il cacciatore.
Il giovane con la capra li aveva intanto raggiunti.
-          Dì, giovanotto ! – disse il conte Gerol  col suo tono autoritario – Quanto vuoi per quella capra?
-          Non posso venderla, signore – rispose quello.
-          Nemmeno per dieci scudi?
-          Ah, per dieci scudi – accondiscese il giovanotto – ne andrò a prendere un’altra. -  E depose la bestia a terra.
Andronico chiese al conte Gerol: -  A che cosa ti serve quella capra? Non vorrai mica mangiarla, spero.
-          Vedrai, vedrai a che cosa mi serve. – fece l’altro, allusivamente.
La capra venne presa sulle spalle da un cacciatore il giovanotto di Palissano ridiscese di corsa verso il paese (evidentemente andava a procurarsi un’altra bestia per il drago) e la comitiva si rimise in cammino.
Dopo meno di un’ora finalmente arrivarono. La valle si apriva improvvisamente in un ampio circo selvaggio, il Burel, una specie di anfiteatro circondato da muraglie di terra e rocce crollanti, di colore giallo-rossiccio. Proprio nel mezzo, al culmine di un cono di sfasciumi, un nero pertugio: la grotta del drago.
-          E’ là, disse il Longo.-  Si fermarono a poca distanza, sopra una terrazza ghiaiosa che offriva un ottimo punto di osservazione, una decina di metri sopra il livello della caverna e quasi di fronte a questa. La terrazza aveva anche il vantaggio di non essere accessibile dal basso perché difesa da una paretina a strapiombo. Maria ci poteva stare con la massima sicurezza.
Tacquero, tendendo le orecchie. Non si udiva che lo smisurato silenzio delle montagne, toccato da qualche sussurro di ghiaia. Ora a destra ora a sinistra una cornice di terra si rompeva improvvisamente, e sottili rivoli di sassolini cominciavano a colare, estinguendosi con fatica. Ciò dava al paesaggio un aspetto di perenne rovina: montagne abbandonate da Dio, parevano, che si disfacessero a poco a poco.
-          E se oggi il drago non esce? – domandò Quinto Andronico.
-          Ho la capra, - replicò Gerol – ti dimentichi che ho la capra.
Si comprese quello che voleva dire. La bestia sarebbe servita da esca per fare uscire il mostro dalla caverna.
Si cominciarono i preparativi: due cacciatori s’inerpicarono a fatica una ventina di metri sopra l’ingresso della caverna per scaraventare giù sassi se mai ce ne fosse stato bisogno. Un altro andò a depositare la capra sul ghiaione, non lontano dalla grotta. Altri si appostarono ai lati, ben difesi dietro grossi macigni, con le colubrine e i fucili. L’Andronico non si mosse con l’intenzione di stare a vedere.
La bella Maria taceva. Ogni intraprendenza era in lei svanita. Con quanta gioia sarebbe tornata subito indietro. Ma non osava dirlo a nessuno. I suoi sguardi percorrevano le pareti attorno, le antiche e le nuove frane, i pilastri di terra rossa che sembrava ad ogni momento dovessero cadere. Suo marito, il conte Gerol, i due naturalisti e i cacciatori gli parevano pochi, pochissimi, contro tanta solitudine.
Deposta che fu la capra morta dinanzi alla grotta, cominciarono ad aspettare. Le dieci erano passate da un pezzo e il sole aveva completamente invaso il Burel, portandolo ad un intenso calore. Ondate ardenti si riverberavano dall’una all’altra parte. Per riparare dai raggi il governatore e sua moglie, i cacciatori alzarono alla bell’ e meglio una specie di baldacchino con le coperte della carrozza e Maria mai si stancava di bere.
-          Attenti gridò a un tratto il conte Gerol, in piedi sopra un macigno, giù sul ghiaione, con in mano una carabina e appeso al fianco un mazzapicchio metallico.
-          Tutti ebbero un tremito e trattennero il fiato scorgendo dalla bocca della caverna uscire cosa viva. – Il drago, il drago! – gridarono due o tre cacciatori, non si capiva se con letizia o sgomento.
L’essere emerse alla luce con dondolio tremulo, come di biscia. Eccolo il mostro delle leggende la cui sola voce faceva tremare un intero paese!
-          Oh che brutto! – esclamò Maria con evidente sollievo perché si era aspettata ben di peggio.
-          Forza, forza! – gridò un cacciatore scherzando. E tutti ripresero sicurezza in se stessi.
-          Sembra un piccolo ceratosaurus! – disse il prof. Inghirami a cui era tornata sufficiente tranquillità d’animo per i problemi della scienza.
Non appariva infatti tremendo, il mostro, lungo poco più di due metri, con una testa simile ai coccodrilli, un esagerato collo da lucertola, il torace quasi gonfio,la coda breve, una specie di cresta molliccia lungo la schiena. Più che a modestia delle nuove dimensioni erano però i suoi movimenti stentati, il colore terroso di pergamena con qualche striatura verdastra, l’apparenza complessivamente floscia del corpo a spegnere le paure. L’insieme esprimeva una vecchiezza immensa. Se era un drago, era un drago decrepito, quasi al termine della vita.

-          Prendi! - gridò sbeffeggiando uno dei cacciatori saliti sopra l’imbocco della caverna. E lanciò una pietra in direzione della bestiaccia.
Il sasso scese a piombo e raggiunse esattamente il cranio del drago. Si udì nettissimo un toc sordo come di zucca. Maria ebbe un sussulto di repulsione.
La botta fu energica ma insufficiente. Rimasto qualche istante immobile, come intontito, il rettile cominciò ad agitare il collo e la testa lateralmente, in atto di dolore. Le mascelle si aprivano e chiudevano alternativamente, lasciando intravvedere un pettine di acuti denti, ma non ne usciva alcuna voce. Poi il drago mosse giù per la ghiaia in direzione della capra.
-          Ti hanno fatto la testa storna eh? – ridacchiò il conte Gerol che aveva improvvisamente smesso la sua alterigia. Sembrava invaso da una gioiosa eccitazione, pregustando il massacro.
Un colpo di colubrina, sparato da una trentina di metri, sbagliò il bersaglio. La detonazione lacerò l’aria stagnante, destò tristi boati fra le muraglie da cui presero a scivolare giù innumerevoli piccole frane.
Quasi immediatamente sparò la seconda colubrina.
Il proiettile raggiunse il mostro a una zampa posteriore, da cui sgorgò subito un rivolo di sangue.
-          Guarda come balla! – esclamò la bella Maria, presa anche lei dal crudele spettacolo.
 Allo spasmo della ferita la bestiaccia si era infatti messa a girare su se stessa, sussultando con miserevole affanno. La zampa fracassata le ciondolava dietro, lasciando sulla ghiaia una striscia di liquido nero.
Finalmente il rettile riuscì a raggiungere la capra e afferrarla con i denti. Stava per ritirarsi quando il conte Gerol, per ostentare il proprio coraggio, gli si fece vicino, quasi a due metri, scaricandogli la carabina nella testa.
Una specie di fischio uscì dalle fauci del mostro. E parve che cercasse di dominarsi, reprimesse il furore, non emettesse tutta la voce che aveva in corpo, che un motivo ignoto agli uomini lo inducesse ad avere pazienza. Il proiettile della carabina gli era entrato nell’occhio. Gerol fatto il colpo, si ritrasse di corsa e si aspettava che il drago cadesse stecchito. Ma la bestia non cadde stecchita, la sua vita pareva inestinguibile come fuoco di pece. Con la pallottola di piombo nell’occhio, il mostro trangugiò tranquillamente la capra e si vide il collo dilatarsi come gomma man mano che vi passava il gigantesco boccone. Poi si ritrasse indietro alla base delle rocce, prese a inerpicarsi per la parete di fianco alla caverna. Saliva affannosamente, spesso franandogli la terra sotto le zampe, ansioso di scampo. Sopra s’incurvava un cielo limpido e scialbo, il sole asciugava rapidamente le tracce di sangue.
- Sembra uno scarafaggio in un catino – disse a bassa voce il governatore Andronico, parlando a se stesso.
-          Come dici? – gli chiese la moglie.
-          Niente, niente – fece lui.
-          Chissà perché non entra nella caverna! – osservò il prof. Inghirami, apprezzando lucidamente ogni aspetto scientifico della scena.
-          Ha paura di restare imprigionato – suggerì il Fausti – deve essere completamente intontito. E poi come vuoi che faccia un simile ragionamento un ceratosaurus? Non è un ceratosaurus. – fece il Fusti – ne ho ricostruiti parecchi per i musei, ma sono diversi. Dove sono gli aculei della coda?
-          Li tiene nascosti – replicò l’Inghirami – guarda che addome gonfio. La coda si accortoccia di sotto e non si può vedere.
Stavano così parlando quando uno dei cacciatori, quello che aveva sparato il secondo colpo di colubrina, si avviò di corsa verso la terrazza dove stava l’Andronico , con l’evidente intenzione di andarsene.
-          Dove vai? Dove vai? – gli gridò il Gerol – sta al tuo posto finché non abbiamo finito.
      -          Me ne vado – rispose con voce ferma il cacciatore  – questa storia non mi piace.
             Non è caccia per me, questa.
     -          Che cosa vuoi dire? Hai paura. E’ questo che vuoi dire?
-          No signore, io non ho paura.
-          Hai paura sì, ti dico, se no rimarresti al tuo posto.
-          Non ho paura, vi ripeto. Vergognatevi piuttosto voi, signor conte.
-          Ah, vergognatevi? – imprecò Martino Gerol – porco furfante che non sei altro! Sei uno di Palissano, scommetto, un vigliaccone sei! Vattene prima che ti dia una lezione.
-          E tu, Beppi, dove vai tu adesso?  - gridò ancora il conte perché anche un altro cacciatore si ritirava.
-          Me ne vado anch’io, signor conte, non voglio averci mano in questa brutta faccenda.
-          Ah, vigliacchi! – urlava il Gerol – Vigliacchi, ve la farei pagare se potessi muovermi.
-          Non è paura, signor conte, ma vedrete che finirà male!
-          Vi faccio vedere io adesso! – e raccattata una pietra da terra il conte la lanciò di tutta forza contro il cacciatore. Ma il tiro andò a vuoto. Vi fu qualche minuto di pausa mentre il drago arrancava sulla parete senza riuscire a innalzarsi. La terra e i sassi cadevano, lo trascinavano sempre più giù, là donde era partito. Salvo quel rumore di pietre smosse, c’era silenzio.
Poi si udì la voce di Andronico – Ne ha ancora per un pezzo? – gridò a Gerol. – C’è un caldo d’inferno. Falla fuori una buona volta quella bestiaccia. Che gusto tormentarla così, anche se è un drago?
-        Che colpa ce n’ho io? - Rispose il Gerol irritato – non vedi che non vuol morire? Con una palla nel cranio è più vivo di prima…
S’interruppe scorgendo il giovanotto di prima comparire sul ciglio del ghiaione con un’altra capra in spalla, stupito dalla presenza di quegli uomini, di quelle armi, di quelle tracce di sangue e soprattutto dall’affannarsi del drago su per le rocce, lui che non l’aveva mai visto uscire dalla caverna, si era fermato, fissando la strana scena.
-     Ohi giovanotto – gridò il Gerol - quanto vuoi per quella capra?
-          Niente, non posso – rispose il giovane. – non ve la do neanche a peso d’oro. Ma che cosa gli avete fatto? – aggiunse sbarrando gli occhi verso il mostro sanguinolento.
-          Siamo qui per regolare i conti. Dovreste essere contenti. Basta capre da domani.
-          Perché basta capre?
-          Domani il drago non ci sarà più. – fece il conte sorridendo.
-          Ma non potete, non potete farlo, io dico – esclamò il giovane spaventato.
-          Anche tu adesso cominci! – gridò Martino Gerol – dammi subito qua la capra.
-          No, vi dico – replicò duro l’altro ritirandosi.
-          Ah perdio – e il conte fu addosso al giovane, gli vibrò un pugno in pieno viso, gli strappò la capra di dosso, lo scaraventò a terra.
-         Ve ne pentirete, vi dico, ve ne pentirete, vedrete se non ve ne pentirete! – imprecò a bassa voce il giovane rialzandosi, perché non osava reagire.
Ma Gerol gli aveva già voltato le spalle.
Il sole adesso incendiava la conca, a stento si riusciva a tenere gli occhi aperti tanto abbacinava il riflesso delle ghiaie gialle, delle rocce e dei sassi; niente assolutamente che potesse riposare gli sguardi.
Maria aveva sempre più sete, e bere non serviva a niente. – Dio che caldo! – si lamentava. Anche la vista del conte Gerol cominciava a darle fastidio.
Nel frattempo, come sbucati dalla terra, decine di uomini erano apparsi. Venuti probabilmente da Palissano alla voce che gli stranieri erano saliti al Burel, essi se ne stavano immobili sul ciglio di vari crestoni di terra gialla e osservavano senza far motto.
-          Hai un bel pubblico adesso – tentò di celiare l’Andronico,  rivolto al Gerol che stava trafficando intorno alla capra con due cacciatori.
Il giovane alzò gli sguardi fin dove scorse gli sconosciuti che lo stavano fissando. Fece una smorfia di disprezzo e riprese il lavoro.
Il drago, estenuato, era scivolato per la parete fino al ghiaione e giaceva immobile, palpitando solo il ventre rigonfio.
-          Pronti! – fece il cacciatore sollevando con Gerol la capra da terra. Avevano aperto il ventre alla bestia e introdotto una carica esplosiva collegata a una miccia.
      Si vide allora il conte avanzare impavido per il ghiaione, farsi vicino al drago non più di una      decina di metri, con tutta calma deporre per terra la capra, quindi ritirarsi svolgendo la miccia.

Si dovette aspettare mezz’ora prima che la bestia si movesse. Gli sconosciuti in piedi sul ciglio dei costoni sembravano statue: non parlavano neppure fra loro, il loro volto esprimeva riprovazione. Insensibili al sole che aveva assunto un’estrema potenza, non distoglievano gli sguardi dal rettile, quasi implorando che non si muovesse.

Invece il drago, colpito alla schiena da un colpo di carabina, si voltò improvvisamente, vide la capra, vi si trascinò lentamente. Stava per allungare la testa e afferrare la preda quando il conte accese la miccia. La fiammella corse via rapidamente lungo il cordone, ben presto raggiunse la capra, provocò l’esplosione.
     Lo scoppio non fu rumoroso, molto meno forte dei colpi di colubrina, un suono secco ma opaco, come di asse che si spezzi. Ma il corpo del drago fu ributtato indietro di schianto, si vide quindi che il ventre era stato squarciato. La testa riprese ad agitarsi penosamente a destra e a sinistra. Pareva che dicesse di no, che non era giusto, che erano stati troppo crudeli, e che non c’era più nulla da fare.
Rise di compiacenza il conte, ma questa volta lui solo.
      -     Oh che orrore, basta! – esclamò la bella Maria coprendosi la faccia con le mani.
-     Sì – disse lentamente il marito – credo anch’io che finirà male.
   Il mostro giaceva, in apparenza sfinito, sopra una pozza di sangue nero. Ed ecco dai suoi fianchi uscire due fili di fumo scuro, uno a destra e uno a sinistra, due fumacchi grevi che stentavano ad alzarsi.
-          Hai visto? – disse l’Inghirami al collega.
-          Sì, l’ho visto – confermò l’altro.
      -          Due sfiatatoi a mantice, come nel ceratosaurus, i cosiddetti opercoli hammeriani.
-          No – disse il Fusti – non è un ceratosaurus.
A questo punto il conte Gerol, di dietro al pietrone dove s’era riparato, si avanzò per finire il mostro. Era proprio in mezzo al cono di ghiaia e stava impugnando la mazza metallica, quando tutti i presenti mandarono un urlo.
Per un istante Gerol credette fosse un grido di trionfo per l’uccisione del drago. Poi avvertì che qualcosa stava muovendosi alle sue spalle. Si voltò di un balzo e vide, oh ridicola cosa, vide due bestiole pietose uscire incespicando dalla caverna, e avanzarsi abbastanza celermente verso di lui. Due piccoli rettili informi, lunghi non più di mezzo metro, ripetevano in miniatura l’immagine del drago morente. Due piccoli draghi, i figli, probabilmente usciti dalla caverna per fame.
Fu questione di pochi istanti, il conte dava bellissima prova di agilità. –Tieni, tieni – gridava gioiosamente roteando la clava di ferro. E due soli colpi bastarono. Vibrato con estrema energia e decisione, il mazzapicchio percosse successivamente i due mostriciattoli, spezzò le teste come bocce di vetro. Entrambi si afflosciarono morti, da lontano sembravano due cornamuse.
Allora gli uomini sconosciuti, senza dare la minima voce, si allontanarono correndo giù per i canali di ghiaia. Si sarebbe detto che fuggissero un’improvvisa minaccia. Essi non provocarono rumore, non smossero frane, non volsero il capo neppure per un istante alla caverna del drago, scomparvero così come erano apparsi, misteriosamente.
Il drago adesso si muoveva, sembrava che mai e poi mai sarebbe riuscito a morire. Trascinandosi come una lumaca si avvicinava alle bestiole morte, sempre emettendo due fili di fumo. Raggiunti che ebbe i figli, si accasciò sul ghiaione, allungò con infinito stento la testa, prese a leccare dolcemente i due mostriciattoli morti, forse allo scopo di richiamarli in vita.
Infine il drago parve raccogliere tutte le superstiti forze, levò il collo verticalmente al cielo, come non aveva ancora fatto, e dalla gola uscì, prima lentissimo, quindi con progressiva potenza un urlo indicibile, voce mai udita nel mondo, né animalesca né umana, così carica d’odio che persino il conte Gerol ristette, paralizzato dall’orrore.
Ora si capiva perché prima non aveva voluto rientrare nella tana, dove pure avrebbe trovato scampo, perché non aveva emesso alcun grido o ruggito, limitandosi a qualche sibilo.
Il drago pensava ai due figli e per risparmiarli aveva rifiutato la propria salvezza; se si fosse infatti nascosto nella caverna, gli uomini lo avrebbero inseguito là dentro, scoprendo i suoi nati; e se avesse levato la voce, le bestiole sarebbero corse fuori a vedere. Solo adesso che li aveva visti morire, il mostro mandava il suo urlo d’inferno.
Invocava aiuto il drago e chiedeva vendetta per i suoi figli, ma a chi? Alle montagne, forse, aride e disabitate? Al cielo senza uccelli né nuvole, agli uomini che lo stavano suppliziando, al demonio, forse? L’urlo trapanava le muraglie di roccia e la cupola del cielo, riempiva l’intero mondo. Sembrava impossibile quasi che nessuno gli rispondesse.
-          Chi chiamerà? – domandò l’Andronico tentando inutilmente di fare scherzosa la propria voce. –  Chi chiama, non c’è nessuno che venga, mi pare?
-          Oh, che muoia presto – disse la donna.
-          Ma il drago non si decideva a morire, sebbene il conte Gerol, accecato dalla smania di finirla, gli sparasse contro con la carabina. Tan! Tan! Era inutile. Il drago accarezzava con la lingua le bestiole morte; pur con moto sempre più lento, un succo biancastro gli sgorgava dall’occhio illeso.
-          Il sauro! – esclamò il prof. Fusti – Guarda che piange!
Il governatore disse – E’ tardi. Basta. Martino è tardi, è ora di andare.
Sette volte si levò al cielo la voce del mostro, e ne rintronarono le rupi e il cielo. Alla settima volta parve non finire mai, poi improvvisamente si estinse, piombò a picco, sprofondò nel silenzio.
Nella mortale quiete che seguì si udirono alcuni colpi di tosse. Tutto coperto di polvere, il volto trasfigurato dalla fatica, dall’emozione e dal sudore, il conte Martino, gettata tra i sassi la carabina, attraversava il cono di sfasciumi tossendo, e si premeva una mano sul petto.
-          Che cosa c’è adesso? – domandò l’Andronico con volto serio per presentimento di male – Che cosa ti sei fatto?
-          Niente – disse il Gerol forzando a giocondità il tono della voce – mi è andato dentro un po’ di quel fumo.
-          Di che fumo?
Gerol non rispose ma fece segno con la mano al drago. Il mostro giaceva immobile, anche la testa si era abbandonata tra i sassi; si sarebbe detto ben morto, senza quei due sottili pennacchi di fumo.
-          Mi pare che sia finita – disse l’Andronico.
Così infatti sembrava. L’ostinatissima vita stava uscendo dalla bocca del drago.
Nessuno aveva risposto al suo grido, in tutto il mondo non si era mosso nessuno. Le montagne se ne stavano immobili, anche le piccole frane si erano come riassorbite, il cielo era limpido, neppure una minuscola nuvoletta e il sole andava calando. Nessuno, né bestia, né spirito era accorso a vendicare la strage. Era stato l’uomo a cancellare quella residua macchia del mondo, l’uomo astuto e potente che dovunque stabilisce sapienti leggi per l’ordine, l’uomo incensurabile che si affatica per il progresso e non può ammettere in alcun modo la sopravvivenza dei draghi, sia pure nelle sperdute montagne. Era stato l’uomo ad uccidere e sarebbe stato stolto recriminare, eppure sembrava impossibile che nessuno avesse risposto alla voce estrema del drago. Andronico, così come sua moglie e i cacciatori, non desiderava altro che fuggire; persino i naturalisti rinunciarono al progetto di imbalsamazione, pur di andarsene presto lontani.
Gli uomini del paese erano spariti, quasi presentissero maledizione. Le ombre salivano su per le pareti crollanti. Dal corpo del drago, carcame incartapecorito, si levavano ininterrotti i due fili di fumo e nell’aria stagnante si attorcigliavano lentamente. Tutto sembrava finito, una triste cosa da dimenticare e nient’altro.

Dino Buzzati
Tratto da: Sessanta racconti - 1958
Immagine: Caspar David Friedrich


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