Qui non mi trovate,
io qui non ci sono.
Sto nella stanza accanto
dove non c'è nessuno.

29.10.11

Nei miei primi anni


                Nei miei primi anni abitavo al terzo piano
                e dal fondo del viale di pitòsfori
                il cagnetto Galiffa mi vedeva
                e a grandi salti dalla scala a chiocciola
                mi raggiungeva.


                                 Ora non ricordo
                                 se morì in casa nostra e se fu seppellito
                                 e dove e quando. Nella memoria resta
                                 solo quel balzo e quel guaito né
                                 molto di più rimane dei grandi amori
                                 quando non siano disperazione e morte.


                                                                 Ma questo non fu il caso del bastardino
                                                                 di lunghe orecchie che portava un nome
                                                                 inventato dal figlio del fattore
                                                                 mio coetaneo e analfabeta,
                                                                 vivo meno del cane, e strano,
                                                                 nella mia insonnia.
                                                                                                                  Eugenio Montale


*

23.10.11

Con le taglie milionarie ci si sbarazza del problema di dover istruire processi imbarazzanti

Mark Kostaby
Da tutti i canali TV l'istigazione a guardare e riguardare il video dell'orrore sull'esecuzione del colonnello Gheddafi, avvertendo con pruderie che si tratta di immagini molto forti, adatte ad un pubblico adulto.
Siamo al cinema : ormai non c'è più differenza tra finzione e realtà.
Ma per i bambini è più dannosa un' eventuale visione del barbaro omicidio o la vicinanza con adulti ipocriti che non sanno più dove stia la misericordia e il rispetto per la persona umana?
Gheddafi, lo avessi incontrato da vivo, odioso come mi stava, forse gli avrei sputato in faccia, certo non gli avrei stetto la mano nè tantomeno gliela avrei baciata! E non ho mai assistito ai Tg che trasmettevano gli  onori e l'ossequio che venivano tributati a lui e a tutto il ridicolo apparato al suo seguito.
E tantomeno ci tengo a guardarlo ora mentre agonizzante viene letteralmente liciato da giustizieri prezzolati.
Mi vanto, in questo contesto autodefinito "cristiano", di professarmi atea! Il mio raccapriccio davanti all'invito continuativo  ad assistere ad uno spettacolo così obbrobrioso non ha radici nel falso moralismo, bensì nell'umana pietà verso un mio simile.
E aggiungo: in nome della democrazia sono troppe le taglie milionarie e le esecuzioni compiute senza l'appoggio di un doveroso processo. Per me è una vergogna!



SILENZIO SI LEGGE!



L'UCCISIONE DEL DRAGO


Nel maggio 1902 un contadino del conte Gerol, tale Giosuè Longo, che andava spesso a caccia per le montagne, raccontò di avere visto in valle Secca una grossa bestiaccia che sembrava un drago. A Palissano, l’ultimo paese della valle, era da secoli leggenda che fra certe aride gole vivesse ancora uno di quei mostri. Ma nessuno l’aveva mai preso sul serio. Questa volta invece l’assennatezza del Longo, la precisione del suo racconto, i particolari dell’avventura, più volte ripetuti senza la minima variazione, persuasero che ci dovesse essere qualche cosa di vero e il conte Martino Gerol decise di andare a vedere. Certo egli non pensava a un drago; poteva darsi tuttavia che qualche grosso serpente di specie rara vivesse in quelle gole disabitate. Gli furono compagni nella spedizione il governatore Quinto Andronico con la bella e intrepida moglie Maria, il naturalista professor Inghirami e il suo collega Fusti, versato specialmente nell’arte dell’imbalsamazione. Il fiacco e scettico governatore da tempo si era accorto che sua moglie aveva per il Gerol grande simpatia, ma non se ne dava pensiero. Acconsentì anzi volentieri quando Maria gli propose di andare col conte alla caccia del drago. Egli non aveva per il Martino la minima gelosia, né lo invidiava pur essendo il Gerol molto più giovane, bello, forte, audace e ricco di lui.
Due carrozze partirono dopo la mezzanotte dalla città con la scorta di otto cacciatori a cavallo e giunsero verso le sei del mattino al paese di Palissano.
Giosuè Longo che faceva parte dei cacciatori e conosceva la strada si mise in testa al convoglio. Alzandosi il sole, la sonnolenza dei viaggiatori scomparve e i cavalli accelerarono il passo e i cocchieri si misero a canticchiare. Erano circa le nove quando le vetture si fermarono perché la strada finiva. I cacciatori, scesi dalla carrozza, si accorsero di trovarsi ormai nel cuore di quelle montagne sinistre. Viste da presso parevano fatte di rocce fradice e crollanti, quasi una frana da cima a fondo.
-          Ecco, qui comincia il sentiero – disse il Longo indicando una traccia di passi umani che saliva dall’imboccatura di una valletta. - Procedendo di là, in tre quarti d’ora si arrivava al Burel, dove il drago era stato visto.
-          E’ stata presa l’acqua? – domandò Andronico ai cacciatori.
-          Ce ne sono quattro fiaschi, e poi due altri di vino, eccellenza – rispose uno dei cacciatori,
-  ce n’è abbastanza, credo…
Strano, adesso che erano lontani dalla città, chiusi dentro alle montagne, l’idea del drago cominciava a sembrare meno assurda. I viaggiatori si guardavano attorno, senza scoprire cose tranquillizzanti. Creste giallastre dove non era mai stata anima viva, vallette che si inoltravano ai lati, nascondendo alla vista i loro meandri: un grandissimo abbandono.
S’incamminarono senza dire parola. Precedevano i cacciatori coi fucili, le colubrine e gli altri arnesi da caccia, poi veniva Maria, ultimi i due naturalisti. Per fortuna il sentiero era ancora in ombra; fra le terre gialle il sole sarebbe stato una pena.
Anche la valletta che menava al Burel era stretta e tortuosa, non c’era torrente sul fondo, non c’erano piante né erba ai lati, solamente sassi e sfasciumi. Non canto di uccelli o di acque, ma isolati sussurri di ghiaia.
Mentre il gruppo così procedeva, sopraggiunse dal basso, camminando più presto di loro, un giovanotto con una capra morta sulle spalle. – Va dal drago, quello. – Fece il Longo; e lo disse con la massima naturalezza, senza alcuna intenzione di celia, la gente di Palissano, spiegò, era superstiziosissima, e ogni giorno mandava una capra al Burel per rabbonire gli umori del mostro. L’offerta era portata a turno dai giovani del paese. Guai se il mostro faceva sentire la sua voce. Succedeva disgrazia.
-          E ogni giorno il drago si mangia la capra? – domandò scherzoso il conte Gerol.
-          Il mattino dopo non trovano più niente, questo è positivo.
-          Nemmeno le ossa?
-          Eh, no, la va a mangiare dentro la caverna.
-          E non potrebbe darsi che fosse qualcuno del paese a mangiarsela?- fece il governatore, - la strada la sanno tutti. L’hanno veramente mai visto il drago acchiapparsi la capra?
-          - non so questo, eccellenza – rispose il cacciatore.
Il giovane con la capra li aveva intanto raggiunti.
-          Dì, giovanotto ! – disse il conte Gerol  col suo tono autoritario – Quanto vuoi per quella capra?
-          Non posso venderla, signore – rispose quello.
-          Nemmeno per dieci scudi?
-          Ah, per dieci scudi – accondiscese il giovanotto – ne andrò a prendere un’altra. -  E depose la bestia a terra.
Andronico chiese al conte Gerol: -  A che cosa ti serve quella capra? Non vorrai mica mangiarla, spero.
-          Vedrai, vedrai a che cosa mi serve. – fece l’altro, allusivamente.
La capra venne presa sulle spalle da un cacciatore il giovanotto di Palissano ridiscese di corsa verso il paese (evidentemente andava a procurarsi un’altra bestia per il drago) e la comitiva si rimise in cammino.
Dopo meno di un’ora finalmente arrivarono. La valle si apriva improvvisamente in un ampio circo selvaggio, il Burel, una specie di anfiteatro circondato da muraglie di terra e rocce crollanti, di colore giallo-rossiccio. Proprio nel mezzo, al culmine di un cono di sfasciumi, un nero pertugio: la grotta del drago.
-          E’ là, disse il Longo.-  Si fermarono a poca distanza, sopra una terrazza ghiaiosa che offriva un ottimo punto di osservazione, una decina di metri sopra il livello della caverna e quasi di fronte a questa. La terrazza aveva anche il vantaggio di non essere accessibile dal basso perché difesa da una paretina a strapiombo. Maria ci poteva stare con la massima sicurezza.
Tacquero, tendendo le orecchie. Non si udiva che lo smisurato silenzio delle montagne, toccato da qualche sussurro di ghiaia. Ora a destra ora a sinistra una cornice di terra si rompeva improvvisamente, e sottili rivoli di sassolini cominciavano a colare, estinguendosi con fatica. Ciò dava al paesaggio un aspetto di perenne rovina: montagne abbandonate da Dio, parevano, che si disfacessero a poco a poco.
-          E se oggi il drago non esce? – domandò Quinto Andronico.
-          Ho la capra, - replicò Gerol – ti dimentichi che ho la capra.
Si comprese quello che voleva dire. La bestia sarebbe servita da esca per fare uscire il mostro dalla caverna.
Si cominciarono i preparativi: due cacciatori s’inerpicarono a fatica una ventina di metri sopra l’ingresso della caverna per scaraventare giù sassi se mai ce ne fosse stato bisogno. Un altro andò a depositare la capra sul ghiaione, non lontano dalla grotta. Altri si appostarono ai lati, ben difesi dietro grossi macigni, con le colubrine e i fucili. L’Andronico non si mosse con l’intenzione di stare a vedere.
La bella Maria taceva. Ogni intraprendenza era in lei svanita. Con quanta gioia sarebbe tornata subito indietro. Ma non osava dirlo a nessuno. I suoi sguardi percorrevano le pareti attorno, le antiche e le nuove frane, i pilastri di terra rossa che sembrava ad ogni momento dovessero cadere. Suo marito, il conte Gerol, i due naturalisti e i cacciatori gli parevano pochi, pochissimi, contro tanta solitudine.
Deposta che fu la capra morta dinanzi alla grotta, cominciarono ad aspettare. Le dieci erano passate da un pezzo e il sole aveva completamente invaso il Burel, portandolo ad un intenso calore. Ondate ardenti si riverberavano dall’una all’altra parte. Per riparare dai raggi il governatore e sua moglie, i cacciatori alzarono alla bell’ e meglio una specie di baldacchino con le coperte della carrozza e Maria mai si stancava di bere.
-          Attenti gridò a un tratto il conte Gerol, in piedi sopra un macigno, giù sul ghiaione, con in mano una carabina e appeso al fianco un mazzapicchio metallico.
-          Tutti ebbero un tremito e trattennero il fiato scorgendo dalla bocca della caverna uscire cosa viva. – Il drago, il drago! – gridarono due o tre cacciatori, non si capiva se con letizia o sgomento.
L’essere emerse alla luce con dondolio tremulo, come di biscia. Eccolo il mostro delle leggende la cui sola voce faceva tremare un intero paese!
-          Oh che brutto! – esclamò Maria con evidente sollievo perché si era aspettata ben di peggio.
-          Forza, forza! – gridò un cacciatore scherzando. E tutti ripresero sicurezza in se stessi.
-          Sembra un piccolo ceratosaurus! – disse il prof. Inghirami a cui era tornata sufficiente tranquillità d’animo per i problemi della scienza.
Non appariva infatti tremendo, il mostro, lungo poco più di due metri, con una testa simile ai coccodrilli, un esagerato collo da lucertola, il torace quasi gonfio,la coda breve, una specie di cresta molliccia lungo la schiena. Più che a modestia delle nuove dimensioni erano però i suoi movimenti stentati, il colore terroso di pergamena con qualche striatura verdastra, l’apparenza complessivamente floscia del corpo a spegnere le paure. L’insieme esprimeva una vecchiezza immensa. Se era un drago, era un drago decrepito, quasi al termine della vita.

-          Prendi! - gridò sbeffeggiando uno dei cacciatori saliti sopra l’imbocco della caverna. E lanciò una pietra in direzione della bestiaccia.
Il sasso scese a piombo e raggiunse esattamente il cranio del drago. Si udì nettissimo un toc sordo come di zucca. Maria ebbe un sussulto di repulsione.
La botta fu energica ma insufficiente. Rimasto qualche istante immobile, come intontito, il rettile cominciò ad agitare il collo e la testa lateralmente, in atto di dolore. Le mascelle si aprivano e chiudevano alternativamente, lasciando intravvedere un pettine di acuti denti, ma non ne usciva alcuna voce. Poi il drago mosse giù per la ghiaia in direzione della capra.
-          Ti hanno fatto la testa storna eh? – ridacchiò il conte Gerol che aveva improvvisamente smesso la sua alterigia. Sembrava invaso da una gioiosa eccitazione, pregustando il massacro.
Un colpo di colubrina, sparato da una trentina di metri, sbagliò il bersaglio. La detonazione lacerò l’aria stagnante, destò tristi boati fra le muraglie da cui presero a scivolare giù innumerevoli piccole frane.
Quasi immediatamente sparò la seconda colubrina.
Il proiettile raggiunse il mostro a una zampa posteriore, da cui sgorgò subito un rivolo di sangue.
-          Guarda come balla! – esclamò la bella Maria, presa anche lei dal crudele spettacolo.
 Allo spasmo della ferita la bestiaccia si era infatti messa a girare su se stessa, sussultando con miserevole affanno. La zampa fracassata le ciondolava dietro, lasciando sulla ghiaia una striscia di liquido nero.
Finalmente il rettile riuscì a raggiungere la capra e afferrarla con i denti. Stava per ritirarsi quando il conte Gerol, per ostentare il proprio coraggio, gli si fece vicino, quasi a due metri, scaricandogli la carabina nella testa.
Una specie di fischio uscì dalle fauci del mostro. E parve che cercasse di dominarsi, reprimesse il furore, non emettesse tutta la voce che aveva in corpo, che un motivo ignoto agli uomini lo inducesse ad avere pazienza. Il proiettile della carabina gli era entrato nell’occhio. Gerol fatto il colpo, si ritrasse di corsa e si aspettava che il drago cadesse stecchito. Ma la bestia non cadde stecchita, la sua vita pareva inestinguibile come fuoco di pece. Con la pallottola di piombo nell’occhio, il mostro trangugiò tranquillamente la capra e si vide il collo dilatarsi come gomma man mano che vi passava il gigantesco boccone. Poi si ritrasse indietro alla base delle rocce, prese a inerpicarsi per la parete di fianco alla caverna. Saliva affannosamente, spesso franandogli la terra sotto le zampe, ansioso di scampo. Sopra s’incurvava un cielo limpido e scialbo, il sole asciugava rapidamente le tracce di sangue.
- Sembra uno scarafaggio in un catino – disse a bassa voce il governatore Andronico, parlando a se stesso.
-          Come dici? – gli chiese la moglie.
-          Niente, niente – fece lui.
-          Chissà perché non entra nella caverna! – osservò il prof. Inghirami, apprezzando lucidamente ogni aspetto scientifico della scena.
-          Ha paura di restare imprigionato – suggerì il Fausti – deve essere completamente intontito. E poi come vuoi che faccia un simile ragionamento un ceratosaurus? Non è un ceratosaurus. – fece il Fusti – ne ho ricostruiti parecchi per i musei, ma sono diversi. Dove sono gli aculei della coda?
-          Li tiene nascosti – replicò l’Inghirami – guarda che addome gonfio. La coda si accortoccia di sotto e non si può vedere.
Stavano così parlando quando uno dei cacciatori, quello che aveva sparato il secondo colpo di colubrina, si avviò di corsa verso la terrazza dove stava l’Andronico , con l’evidente intenzione di andarsene.
-          Dove vai? Dove vai? – gli gridò il Gerol – sta al tuo posto finché non abbiamo finito.
      -          Me ne vado – rispose con voce ferma il cacciatore  – questa storia non mi piace.
             Non è caccia per me, questa.
     -          Che cosa vuoi dire? Hai paura. E’ questo che vuoi dire?
-          No signore, io non ho paura.
-          Hai paura sì, ti dico, se no rimarresti al tuo posto.
-          Non ho paura, vi ripeto. Vergognatevi piuttosto voi, signor conte.
-          Ah, vergognatevi? – imprecò Martino Gerol – porco furfante che non sei altro! Sei uno di Palissano, scommetto, un vigliaccone sei! Vattene prima che ti dia una lezione.
-          E tu, Beppi, dove vai tu adesso?  - gridò ancora il conte perché anche un altro cacciatore si ritirava.
-          Me ne vado anch’io, signor conte, non voglio averci mano in questa brutta faccenda.
-          Ah, vigliacchi! – urlava il Gerol – Vigliacchi, ve la farei pagare se potessi muovermi.
-          Non è paura, signor conte, ma vedrete che finirà male!
-          Vi faccio vedere io adesso! – e raccattata una pietra da terra il conte la lanciò di tutta forza contro il cacciatore. Ma il tiro andò a vuoto. Vi fu qualche minuto di pausa mentre il drago arrancava sulla parete senza riuscire a innalzarsi. La terra e i sassi cadevano, lo trascinavano sempre più giù, là donde era partito. Salvo quel rumore di pietre smosse, c’era silenzio.
Poi si udì la voce di Andronico – Ne ha ancora per un pezzo? – gridò a Gerol. – C’è un caldo d’inferno. Falla fuori una buona volta quella bestiaccia. Che gusto tormentarla così, anche se è un drago?
-        Che colpa ce n’ho io? - Rispose il Gerol irritato – non vedi che non vuol morire? Con una palla nel cranio è più vivo di prima…
S’interruppe scorgendo il giovanotto di prima comparire sul ciglio del ghiaione con un’altra capra in spalla, stupito dalla presenza di quegli uomini, di quelle armi, di quelle tracce di sangue e soprattutto dall’affannarsi del drago su per le rocce, lui che non l’aveva mai visto uscire dalla caverna, si era fermato, fissando la strana scena.
-     Ohi giovanotto – gridò il Gerol - quanto vuoi per quella capra?
-          Niente, non posso – rispose il giovane. – non ve la do neanche a peso d’oro. Ma che cosa gli avete fatto? – aggiunse sbarrando gli occhi verso il mostro sanguinolento.
-          Siamo qui per regolare i conti. Dovreste essere contenti. Basta capre da domani.
-          Perché basta capre?
-          Domani il drago non ci sarà più. – fece il conte sorridendo.
-          Ma non potete, non potete farlo, io dico – esclamò il giovane spaventato.
-          Anche tu adesso cominci! – gridò Martino Gerol – dammi subito qua la capra.
-          No, vi dico – replicò duro l’altro ritirandosi.
-          Ah perdio – e il conte fu addosso al giovane, gli vibrò un pugno in pieno viso, gli strappò la capra di dosso, lo scaraventò a terra.
-         Ve ne pentirete, vi dico, ve ne pentirete, vedrete se non ve ne pentirete! – imprecò a bassa voce il giovane rialzandosi, perché non osava reagire.
Ma Gerol gli aveva già voltato le spalle.
Il sole adesso incendiava la conca, a stento si riusciva a tenere gli occhi aperti tanto abbacinava il riflesso delle ghiaie gialle, delle rocce e dei sassi; niente assolutamente che potesse riposare gli sguardi.
Maria aveva sempre più sete, e bere non serviva a niente. – Dio che caldo! – si lamentava. Anche la vista del conte Gerol cominciava a darle fastidio.
Nel frattempo, come sbucati dalla terra, decine di uomini erano apparsi. Venuti probabilmente da Palissano alla voce che gli stranieri erano saliti al Burel, essi se ne stavano immobili sul ciglio di vari crestoni di terra gialla e osservavano senza far motto.
-          Hai un bel pubblico adesso – tentò di celiare l’Andronico,  rivolto al Gerol che stava trafficando intorno alla capra con due cacciatori.
Il giovane alzò gli sguardi fin dove scorse gli sconosciuti che lo stavano fissando. Fece una smorfia di disprezzo e riprese il lavoro.
Il drago, estenuato, era scivolato per la parete fino al ghiaione e giaceva immobile, palpitando solo il ventre rigonfio.
-          Pronti! – fece il cacciatore sollevando con Gerol la capra da terra. Avevano aperto il ventre alla bestia e introdotto una carica esplosiva collegata a una miccia.
      Si vide allora il conte avanzare impavido per il ghiaione, farsi vicino al drago non più di una      decina di metri, con tutta calma deporre per terra la capra, quindi ritirarsi svolgendo la miccia.

Si dovette aspettare mezz’ora prima che la bestia si movesse. Gli sconosciuti in piedi sul ciglio dei costoni sembravano statue: non parlavano neppure fra loro, il loro volto esprimeva riprovazione. Insensibili al sole che aveva assunto un’estrema potenza, non distoglievano gli sguardi dal rettile, quasi implorando che non si muovesse.

Invece il drago, colpito alla schiena da un colpo di carabina, si voltò improvvisamente, vide la capra, vi si trascinò lentamente. Stava per allungare la testa e afferrare la preda quando il conte accese la miccia. La fiammella corse via rapidamente lungo il cordone, ben presto raggiunse la capra, provocò l’esplosione.
     Lo scoppio non fu rumoroso, molto meno forte dei colpi di colubrina, un suono secco ma opaco, come di asse che si spezzi. Ma il corpo del drago fu ributtato indietro di schianto, si vide quindi che il ventre era stato squarciato. La testa riprese ad agitarsi penosamente a destra e a sinistra. Pareva che dicesse di no, che non era giusto, che erano stati troppo crudeli, e che non c’era più nulla da fare.
Rise di compiacenza il conte, ma questa volta lui solo.
      -     Oh che orrore, basta! – esclamò la bella Maria coprendosi la faccia con le mani.
-     Sì – disse lentamente il marito – credo anch’io che finirà male.
   Il mostro giaceva, in apparenza sfinito, sopra una pozza di sangue nero. Ed ecco dai suoi fianchi uscire due fili di fumo scuro, uno a destra e uno a sinistra, due fumacchi grevi che stentavano ad alzarsi.
-          Hai visto? – disse l’Inghirami al collega.
-          Sì, l’ho visto – confermò l’altro.
      -          Due sfiatatoi a mantice, come nel ceratosaurus, i cosiddetti opercoli hammeriani.
-          No – disse il Fusti – non è un ceratosaurus.
A questo punto il conte Gerol, di dietro al pietrone dove s’era riparato, si avanzò per finire il mostro. Era proprio in mezzo al cono di ghiaia e stava impugnando la mazza metallica, quando tutti i presenti mandarono un urlo.
Per un istante Gerol credette fosse un grido di trionfo per l’uccisione del drago. Poi avvertì che qualcosa stava muovendosi alle sue spalle. Si voltò di un balzo e vide, oh ridicola cosa, vide due bestiole pietose uscire incespicando dalla caverna, e avanzarsi abbastanza celermente verso di lui. Due piccoli rettili informi, lunghi non più di mezzo metro, ripetevano in miniatura l’immagine del drago morente. Due piccoli draghi, i figli, probabilmente usciti dalla caverna per fame.
Fu questione di pochi istanti, il conte dava bellissima prova di agilità. –Tieni, tieni – gridava gioiosamente roteando la clava di ferro. E due soli colpi bastarono. Vibrato con estrema energia e decisione, il mazzapicchio percosse successivamente i due mostriciattoli, spezzò le teste come bocce di vetro. Entrambi si afflosciarono morti, da lontano sembravano due cornamuse.
Allora gli uomini sconosciuti, senza dare la minima voce, si allontanarono correndo giù per i canali di ghiaia. Si sarebbe detto che fuggissero un’improvvisa minaccia. Essi non provocarono rumore, non smossero frane, non volsero il capo neppure per un istante alla caverna del drago, scomparvero così come erano apparsi, misteriosamente.
Il drago adesso si muoveva, sembrava che mai e poi mai sarebbe riuscito a morire. Trascinandosi come una lumaca si avvicinava alle bestiole morte, sempre emettendo due fili di fumo. Raggiunti che ebbe i figli, si accasciò sul ghiaione, allungò con infinito stento la testa, prese a leccare dolcemente i due mostriciattoli morti, forse allo scopo di richiamarli in vita.
Infine il drago parve raccogliere tutte le superstiti forze, levò il collo verticalmente al cielo, come non aveva ancora fatto, e dalla gola uscì, prima lentissimo, quindi con progressiva potenza un urlo indicibile, voce mai udita nel mondo, né animalesca né umana, così carica d’odio che persino il conte Gerol ristette, paralizzato dall’orrore.
Ora si capiva perché prima non aveva voluto rientrare nella tana, dove pure avrebbe trovato scampo, perché non aveva emesso alcun grido o ruggito, limitandosi a qualche sibilo.
Il drago pensava ai due figli e per risparmiarli aveva rifiutato la propria salvezza; se si fosse infatti nascosto nella caverna, gli uomini lo avrebbero inseguito là dentro, scoprendo i suoi nati; e se avesse levato la voce, le bestiole sarebbero corse fuori a vedere. Solo adesso che li aveva visti morire, il mostro mandava il suo urlo d’inferno.
Invocava aiuto il drago e chiedeva vendetta per i suoi figli, ma a chi? Alle montagne, forse, aride e disabitate? Al cielo senza uccelli né nuvole, agli uomini che lo stavano suppliziando, al demonio, forse? L’urlo trapanava le muraglie di roccia e la cupola del cielo, riempiva l’intero mondo. Sembrava impossibile quasi che nessuno gli rispondesse.
-          Chi chiamerà? – domandò l’Andronico tentando inutilmente di fare scherzosa la propria voce. –  Chi chiama, non c’è nessuno che venga, mi pare?
-          Oh, che muoia presto – disse la donna.
-          Ma il drago non si decideva a morire, sebbene il conte Gerol, accecato dalla smania di finirla, gli sparasse contro con la carabina. Tan! Tan! Era inutile. Il drago accarezzava con la lingua le bestiole morte; pur con moto sempre più lento, un succo biancastro gli sgorgava dall’occhio illeso.
-          Il sauro! – esclamò il prof. Fusti – Guarda che piange!
Il governatore disse – E’ tardi. Basta. Martino è tardi, è ora di andare.
Sette volte si levò al cielo la voce del mostro, e ne rintronarono le rupi e il cielo. Alla settima volta parve non finire mai, poi improvvisamente si estinse, piombò a picco, sprofondò nel silenzio.
Nella mortale quiete che seguì si udirono alcuni colpi di tosse. Tutto coperto di polvere, il volto trasfigurato dalla fatica, dall’emozione e dal sudore, il conte Martino, gettata tra i sassi la carabina, attraversava il cono di sfasciumi tossendo, e si premeva una mano sul petto.
-          Che cosa c’è adesso? – domandò l’Andronico con volto serio per presentimento di male – Che cosa ti sei fatto?
-          Niente – disse il Gerol forzando a giocondità il tono della voce – mi è andato dentro un po’ di quel fumo.
-          Di che fumo?
Gerol non rispose ma fece segno con la mano al drago. Il mostro giaceva immobile, anche la testa si era abbandonata tra i sassi; si sarebbe detto ben morto, senza quei due sottili pennacchi di fumo.
-          Mi pare che sia finita – disse l’Andronico.
Così infatti sembrava. L’ostinatissima vita stava uscendo dalla bocca del drago.
Nessuno aveva risposto al suo grido, in tutto il mondo non si era mosso nessuno. Le montagne se ne stavano immobili, anche le piccole frane si erano come riassorbite, il cielo era limpido, neppure una minuscola nuvoletta e il sole andava calando. Nessuno, né bestia, né spirito era accorso a vendicare la strage. Era stato l’uomo a cancellare quella residua macchia del mondo, l’uomo astuto e potente che dovunque stabilisce sapienti leggi per l’ordine, l’uomo incensurabile che si affatica per il progresso e non può ammettere in alcun modo la sopravvivenza dei draghi, sia pure nelle sperdute montagne. Era stato l’uomo ad uccidere e sarebbe stato stolto recriminare, eppure sembrava impossibile che nessuno avesse risposto alla voce estrema del drago. Andronico, così come sua moglie e i cacciatori, non desiderava altro che fuggire; persino i naturalisti rinunciarono al progetto di imbalsamazione, pur di andarsene presto lontani.
Gli uomini del paese erano spariti, quasi presentissero maledizione. Le ombre salivano su per le pareti crollanti. Dal corpo del drago, carcame incartapecorito, si levavano ininterrotti i due fili di fumo e nell’aria stagnante si attorcigliavano lentamente. Tutto sembrava finito, una triste cosa da dimenticare e nient’altro.

Dino Buzzati
Tratto da: Sessanta racconti - 1958
Immagine: Caspar David Friedrich


*

21.10.11

TU SEI IL MIO RE

New York City 1955
JD in Times Square by Dannis Stock



     QUANDO VAI PER LE STRADE NESSUNO TI RICONOSCE.

                                NESSUNO VEDE LA TUA CORONA E IL TUO SCETTRO.

     NESSUNO NOTA IL TAPPETO TRAPUNTATO D’ORO CHE CALPESTI PASSANDO.

             L' INVISIBILE TAPPETO CHE IO HO STESO PER TE.

  PER ME SEI TU IL PIU’ POTENTE

                                                                    PER ME SEI TU IL PIU’ PURO

                                     NESSUNO POTRA' EGUAGLIARE

                                                           LA GRANDEZZA CHE TI HO ATTRIBUITO.


                  SEI IL MIO SOVRANO: COSI’ TI NOMINO’ IL MIO CUORE.


Dennis Stock







16.10.11

UNION STATION - WASHINGTON DC

Washington è città di grande bellezza: da New York la si raggiunge facilmente ed è consigliabile prendere il treno, sia per la comodità dei treni sia per la stazione d’arrivo, luogo abbastanza singolare indicato per una visita.
Di solito le stazioni non si visitano.
L’antropologo americano Marc Augé le ha infatti inserite con aeroporti e supermercati nel suo libro Non-luoghi, cioè quegli spazi architettonici della nostra epoca nei quali passiamo buona parte del  nostro tempo ma dove viviamo in maniera sospesa perché sono spazi di uso e di passaggio, una sorta di limbi umani. Nel saggio di Augè la Union Station meriterebbe una postilla di eccezione: non è solo un luogo a cui arrivare e da cui partire, ma da visitare con soddisfazione per la sua bellezza architettonica. Fra le tante curiose stazioni nelle grandi città del mondo, la Union Station di Washington le batte tutte. (A.T.)

I nonluoghi sono quegli spazi dell'anonimato ogni giorno più numerosi e frequentati da individui simili ma soli. Nonluoghi sono sia le infrastrutture per il trasporto veloce (autostrade, stazioni, aeroporti) sia i mezzi stessi di trasporto (automobili, treni, aerei). Sono nonluoghi i supermercati, le grandi catene alberghiere con le loro camere intercambiabili, ma anche i campi profughi dove sono parcheggiati a tempo indeterminato i rifugiati da guerre e miserie. Il nonluogo è il contrario di una dimora, di una residenza, di un luogo nel senso comune del termine. E al suo anonimato, paradossalmente, si accede solo fornendo una prova della propria identità: passaporto, carta di credito. Nel proporci una antropologia della surmodernità, Augé ci introduce anche a una etnologia della solitudine (IBS)

Opera dell’architetto Daniel Burnham e inaugurata nel 1908 in quello stile che con espressione francese viene denominato Beaux-Arts è insieme maestosa e di rara eleganza, con pavimenti di marmo bianco, soffitti a volta, inferriate di bronzo e pannelli di mogano. Questa architettura da palazzo ha permesso che vi si celebrassero addirittura banchetti e cerimonie di Stato, sostituendo le inadeguate misure della Casa Bianca. Altro motivo di sosta sono i ristoranti, tra i migliori della città,  i vari negozi e la libreria.

Nel 1901, le due compagnie ferroviarie concorrenti, Pennsylvania Railroad e Baltimore & Ohio Railroad, annunciarono la costruzione di un terminal in comune, decisione che avrebbe permesso di razionalizzare la rete ferroviaria, rimuovendo chilometri di binari che ingombravano quello che avrebbe dovuto essere il National Mall. In secondo luogo, centralizzare i terminal ferroviari in un grande edificio avrebbe permesso di costruire una struttura imponente che riflettesse il prestigio e il ruolo della capitale. Si decise di situare la stazione all’intersezione di due importanti avenue, in modo che fronteggiasse direttamente il Campidoglio.


L’architetto Burnham trasse ispirazione per la struttura da un largo numero di fonti classiche. Prima di tutto dall’Arco di Costantino, ma anche dalle volte delle Terme di Diocleziano, oltre che dalla Basilica di Massenzio in Roma. Contribuivano ad esaltare l’ispirazione classica del design, la scala monumentale dell’edificio e il dispiego di sculture allegoriche, decorazioni in marmo bianco e foglia oro e iscrizioni commemorative.
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Ideò la facciata come un enorme arco trionfale articolata da tre enormi fornici e corredata da sei colossali statue, opera di Louis St. Gaudens, sul modello dei prigionieri Daci dell’Arco di Costantino. Le sei statue sono figure allegoriche che alludono alla fiducia verso il progresso e i trasporti: Prometeo rapitore del fuoco, il filosofo Talete per il suo teorema sui fasci di rette parallele intersecanti (non chiedetemi di dimostrarvelo per favore) presi a simbologia dell’intersecazione dei binari paralleli, Temi, dea greca di giustizia e libertà tanto care agli americani, Apollo protettore delle scienze, Cerere madre dell’agricoltura e Archimede genio universale della meccanica.
St. Gaudens scolpì anche trentasei statue di centurioni che sono andati a decorare il padiglione centrale della Station.
Chiaro che gli architetti fautori del modernismo non mancarono di criticare da subito l’aspetto detestabilmente rétro di questo nuovo edificio.
In ogni caso il grande terminal divenne immediatamente il principale portale di accesso per la capitale americana, incredibilmente affollato soprattutto durante la seconda guerra mondiale, quando 200.000 passeggeri transitavano per la stazione in una singola giornata.
 Del resto chi di noi non è passato  almeno una volta da lì, guardando i numerosi film d’autore degli ultimi settant’anni?
La mattina del 15 gennaio 1953, il treno Federal Express della Pennsylvania Railroad deragliò all’interno della stazione. Avvicinandosi alla Union Station i ferrovieri si accorsero, a circa due miglia dalle piattaforme, che era impossibile frenare. Il macchinista avvisò via radio il personale di stazione che provvide ad evacuare la struttura, mentre il treno fu deviato sul binario numero 16. Il locomotore impattò contro il respingente alla velocità di 25 miglia orarie, salendo sulla piattaforma e distruggendo l’ufficio del capostazione, posto alla fine di essa. Dopo aver travolto anche un’edicola, il convoglio si fermò solo dopo aver invaso l’atrio centrale della Union Station, il cui pavimento, mai progettato per sopportare un tale peso, cedette. Il locomotore elettrico, pesante più di 200 tonnellate cadde attraverso il pavimento finendo dentro il grande padiglione seminterrato che attualmente ospita la Food Court. Incredibilmente nessuno rimase ucciso durante questo sconquasso, visto che i passeggeri si erano tutti ritirati nei vagoni di coda.
Lo spettacolare incidente ispirò il finale del film di Arthur Hiller con Gene Wilder “Wagons lits con omicidi”.

Subito dopo la Seconda guerra mondiale, le condizioni finanziarie di tutte le compagnie ferroviarie americane cominciarono a declinare, sia per la concorrenza dei viaggi aerei, sia per la costruzione di un’efficiente rete autostradale. Strette dalla crisi, cominciarono a progettare di vendere la Union Station oppure di abbatterla per costruire al suo posto edifici per uffici, di trasformare la stazione in un centro culturale o in Visitor Center per ipotetiche folle di turisti.
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Nel 1977 un rapporto del General Accounting Office indicò che tutta la struttura era pericolante e che c’era il rischio di un imminente cedimento strutturale. La stazione fu allora chiusa al pubblico in attesa dei lavori. Lo stato dell’intera struttura era miserevole. La muffa aggrediva il soffitto dell’atrio centrale, mentre le tappezzerie erano piene di buchi di sigarette.
Cinque anni più tardi furono finalmente stanziati 70 milioni di dollari per la campagna di restauri.

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Il progetto di ristrutturazione fu affidato all'architetto di Chicago Harry Weese uno dei progettisti delle nuove stazioni della metropolitana di Washington.

Washington DC Metro

Il "pozzo" fu trasformato in un nuovo piano seminterrato con ristoranti, punti di ristoro, un cinema e una stazione della metropolitana.  Marmi e decorazioni dell’atrio centrale furono riportati al loro originale splendore. Fu installato un sistema di aerazione completamente nuovo.
Nel 1988 fu riattivato il traffico e attualmente la Union Station è di nuovo uno degli snodi più affollati della città, visitato da milioni di turisti e viaggiatori.  
mca ringrazia:
Antonio Tabucchi (Viaggi e altri viaggi)
Wikipedia
IBS




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