Qui non mi trovate,
io qui non ci sono.
Sto nella stanza accanto
dove non c'è nessuno.

19.6.11

Erano senza pietà quegli inverni nel Colorado


Può fare letteratura – diceva Calvino – solo chi ha coscienza linguistica. Cioè chi ha consapevolezza che la scrittura è una macchina complessa, e che lo stile con cui si snoda un racconto dice più cose del racconto stesso.



Erano senza pietà quegli inverni nel Colorado. Neve ogni giorno, e a sera, dall’altra parte delle Montagne Rocciose, se ne tramontava un sole di un rosso che più deprimente non si può. La nebbia stringeva i monti e noi sotto, a cercare di trapassarla a palle di neve. Quel diluvio bianco non dava requie agli alberi, il vento sollevava la neve a cumuli, a mucchi, e la depositava contro i recinti e i capanni del carbone.

L’acqua era troppo fredda per poterla bere. Ti pigliava ai denti come una scossa elettrica, così uno se la beveva timidamente, a minimi sorsi. Se non facevamo scorrere i rubinetti tutta la notte, dovevamo aspettare fino a mezzogiorno che i tubi si scongelassero. Consumavamo un gran quantità di carbone, roba che costava cara, il che metteva mio padre di malumore.

Mio padre faceva il muratore. Per via della neve non poteva lavorare. La malta gli si congelava prima ancora di rapprendersi, e le dita gli diventavano rigide e prive di sensibilità. Lui però era un uomo freneticamente attivo, qualcosa da fare doveva avercela sempre, e quella lunga sequenza di giornate in bianco lo esasperava, e lo rendeva pericoloso mentre si aggirava in casa. Fumava un sigaro via l’altro, faceva schioccare rumorosamente le nocche, andava avanti e indietro da una stanza all’altra come se fosse stato in gabbia.

Quando lo vedevamo muoversi a quel modo, noi bambini venivamo presi dal terrore e filavamo via non appena quella bassa figura muscolosa si materializzava all’improvviso. Dovunque andassimo c’era sempre nell’aria l’aroma pungente di quei suoi contorti toscanelli.

Cercava di tenersi occupato. Magari si metteva a disegnare. Rannicchiato su un’ enorme scrivania a scomparsa, un pezzo del tutto estraneo al resto della mobilia della sala da pranzo, disegnava qualsiasi cosa, dall’inceneritore alla cattedrale. Durante quegli esercizi ci proibiva di parlare ad alta voce. Certe volte non riusciva a trovare la squadra o il compasso, e allora, Dio ne scampi! Confusa nel suo respiro affannoso, aveva inizio una geremiade di orribili bestemmie che andava avanti, in un crescendo d’ira, fino a quando mia madre o qualcuno di noi bambini non trovava la squadra nella lavatrice, o nella vasca da bagno, oppure nella ghiacciaia, ovvero dovunque i bambini usino nascondere le squadre per poi dimenticarsene. Le cazziate se le beccava sempre mia madre. Se non l’accusava di aver messo la squadra nella vasca da bagno, comunque la rampognava per aver tirato su dei figli che ne combinavano di tutti i colori. Noialtri, contenti di non essere stati accusati, eravamo felici di dichiararci d’accordo con lui, e in un silenzio accusatorio guardavamo storto la mamma, come a dirle – ecco qua, guarda che hai combinato !

Per noi era un gran divertimento quando papà si metteva a sedere e improvvisava con la sua matita, disegnando quel che gli passava per la testa. Di solito disegnava caricature. I suoi soggetti preferiti erano i suoi cognati, i fratelli di mamma. Faceva un asino con la faccia di zio Carlo, oppure un maiale che assomigliava a zio Tony. Quei disegnetti eccitavano le sue crasse risate. Ce li porgeva, li faceva passare di mano in mano. Pure noi ridevamo. Non è che li trovassimo davvero divertenti: ridevamo perché lui rideva. Quando rideva, i nostri cuori si sentivano finalmente liberi, e certe volte la mia sorellina Clara cominciava ridendo e finiva in lacrime. Lui ci esortava a portare i disegni in cucina.
- Mostrateli a vostra madre – diceva.
Mia madre li guardava con freddezza, poi ce li restituiva, mostrandosi indifferente.
- Che si vergogni, - diceva. – Ditegli che ho detto proprio così: che si vergogni, - e tutti noi tornavamo da lui in sala da pranza.
- Ha detto di dirti Che si vergogni. –
Lui bofonchiava, divertito.

Disegnava anche ritratti di noi bambini, e sempre con molta serietà. La piccola Clara era la sua preferita. Le metteva una tovaglia o una sciarpa in testa e lei doveva inginocchiarsi a mani giunte. In occasioni del genere tutti dovevano osservare un silenzio perfetto. Anzi: proibiva a mia madre e a noi fratelli di entrare. Mia sorella doveva restare inginocchiata con gli occhi rivolti al cielo. Lui sedeva comodamente, col sigaro in una mano e la matita nell’altra. Sempre, mentre disegnava, canticchiava con aria mesta le parole di quella canzone che si chiamava All’ombra del vecchio melo, di cui sapeva solo cinque parole che ripeteva all’infinito.
Poi si fermava e sorrideva alla figlia. - Chi è la santa Madonnina del suo papà?
Tutta gioiosa Clara puntava l’indice verso il proprio viso e faceva un risolino.
- Questo è parlare giusto, - diceva lui. – Questo è proprio un parlar giusto!
Davanti al disegno finito lei faceva un gridolino di delizia, e allora mia madre e tutti noi potevamo esaminare l’opera con eccitazione. Mamma ne era sempre soddisfatta. Tutta seria, domandava a papà: - Ma perché non apri una bottega e ti metti a fare il pittore?
- Oh Gesù, - si disperava mio padre – questa ricomincia.
Non permetteva mai che si conservassero i suoi disegni, e nemmeno le lacrime di mia sorella avevano effetto su di lui. Dopo un’ora o giù di lì, si stancava di colpo e cominciava ad accartocciare i fogli, a farne delle palle di carta e a buttarle nella stufa in cucina. E si ricordava perfettamente di tutti i disegni che aveva fatto, perché se tentavamo di nasconderne uno, si accorgeva all’istante della mancanza ed esigeva che glielo restituissimo, minacciando di picchiarci tutti e quattro indiscriminatamente. Così il disegno mancante alla fine saltava sempre fuori.

Ogni inverno mio padre fioriva di risolute intenzioni e nuove idee per liberarsi dei debiti e migliorare le condizioni della casa. Arrivava a casa a metà pomeriggio con un secchio di vernice e si metteva a tinteggiare una stanza. Per un paio d’ore se ne stava lì, a lavorare fischiettando e canticchiando. Era felice, e riusciva a far risuonare la casa di quel suo spirito cordiale, sicché tutti ne eravamo contenti. Poi a un tratto la stanchezza s’impadroniva di lui. Rimetteva il coperchio alla vernice e si sedeva di fronte alla finestra, a rimuginare sulla neve, e sui soldi che gli impediva di guadagnare. Tornava ad essere pericoloso. Non ci potevamo avvicinare. L’indomani avrebbe completato il lavoro. Ma quell’indomani non arrivava mai. Alla fine era mia madre che ci si metteva, una mano ogni tanto, approfittando di qualche pausa dalle sue occupazioni.
Con la coscienza che gli rimordeva, lui finiva per proteggersi da se stesso criticando gli sforzi di lei.
- Guarda qua, - diceva – mica si pitta così. Troppo liquido. E non fare colare tutta quella pittura dal pennello.
- Be’ allora perché non ti metti a pittare tu?
- Mo’ è troppo tardi. Hai rovinato tutto quanto.

Dormiva malamente; il suo corpo aveva bisogno d’essere fiaccato dal sole, i suoi muscoli essere doloranti di fatica. Stando così in ozio, il suo cervello gli si rivoltava contro, dando origine ad un’agitazione che non riusciva a controllare. Certe mattine era capace di lasciarci tutti stupefatti, saltando giù dal letto alle quattro in punto, vestendosi e precipitandosi fuori. Mia madre li conosceva, quei tormenti, e non si sforzava in alcun modo di tranquillizzarlo, giacché sapeva che l’ozio e la tranquillità erano proprio i demoni che lo torturavano.

Più tardi, alzandosi a sua volta, l’avrebbe visto dalla finestra mentre, biascicando un sigaro, spalava un passaggio in quella neve che odiava così furiosamente. I suoi sforzi erano tremendi. C’erano dei cumuli di neve dappertutto, l’intero cortile posteriore ne era stato ripulito e mostrava la nudità del suo nero suolo gelato. Con una maglietta e coi guanti, papà portava a far colazione quel suo corpo esuberante e sudato, quelle vive mani toccate dalla gioia della fatica.

Aspettava pazientemente che mia madre elogiasse i suoi sforzi così mattinieri, lanciando continue occhiate fuori dalla finestra verso quelle montagne di neve accumulate su entrambi i lati del cortile, frutto del lavoro delle sue braccia. Sulle prime, mamma non diceva nulla, non era mai sicura del fatto suo. Lui divorava il cibo, ma era talmente bramoso dell’apprezzamento di lei che alla fine sbottava:
- Butta un occhio al cortile.
E allora lei faceva finta di accorgersene soltanto in quel momento.
- Oh, - diceva – l’hai fatto tu? – Lui annuiva senza parlare.
- Tutto da solo? Tutto quanto?
- Certo.
- Ma sarai stanco.
- Stanco io? Non direi.
E per quel giorno era più contento, e quella sera sarebbe stato più gentile, avrebbe dormito tenendola abbracciata, forse addirittura avrebbe detto qualcosa per farla ridere.



Un pomeriggio mia madre gli domanda di portar dentro un secchio di carbone. Lui piglia un secchio vuoto da dietro la stufa in cucina e, uscendo, le dice di andarci piano con quel carbone.
- Costa, - disse. – Brucia la carta di giornale.
Dopo un po’ tornò col secchio pieno e se ne uscì di nuovo. In un amen fu di ritorno con un secondo carico. Mia madre lo osservava incuriosita. Lui non disse niente e uscì un’altra volta. Dalla finestra della cucina lei lo vide che quasi correva in direzione della carbonaia. Stavolta, però, secchi non ce n’erano più. Mia madre lo vide scomparire nella carbonaia e riemergerne con un grosso pezzo di carbone fra le mani. Lo portò in casa e lo sistemò sopra i due secchi pieni. Quindi uscì un’ennesima volta, preso come da una frenesia. Mamma cominciò a temere qualcosa. E quando lui rientrò, tentò di protestare.
- Non ne portare più. – disse.
- So quel che faccio, - rispose lui, scappando fuori di nuovo.
In breve aveva accatastato una montagna di carbone alta qualcosa come cinque piedi dietro alla stufa. Non c’era più un dito di spazio tra la stufa e la parete. La grande colonna nera oscillava minacciosa, pendendo dalla parte della stufa. Dovette sollevarsi in punta di piedi per posare l’ultimo pezzo. Aveva finito. Indietreggiò di un passo e contemplò la propria opera con aria soddisfatta. Mia madre era trasognata. Lui le si rivolse. Aveva le mani ricoperte di polvere nere.
- Ecco fatto, – disse. – Ecco qua il tuo carbone.
- Ma perché così tanto? – si lamentò lei.
Offeso, o almeno facendo le viste di esserlo, lui si rivolse a un uditorio immaginario: - Bene, eccole qui, le donne. Non mi aveva chiesto il carbone, no? E io gliel’ho portato, il carbone, non è vero? E adesso s’incazza perché le ho portato il carbone! – Scosse il capo con l’aria mesta, simulando sconcerto e scoramento. Poi disse: - Santa Madonna, ma che devo farci con questa femmina?
Mamma sospirò. – Quei carboni sono troppo grossi, - disse. – Non ci entrano nella stufa.
- E tu piglia un martello, - fece lui. – Falli a pezzi.
Lei provò a tirar su il pezzo che stava in cima alla pila. Lui la osservava.
- Perché non sali su una sedia? – disse. – Ti potresti far male.
- Perché non la pianti? - sibilò lei. – Ne hai fatte abbastanza, di scemenze, portando tutto ‘sto carbone dentro una cucina così piccola!
Lui scrollò le spalle, con aria innocente. – Stavo soltanto cercando di rendermi utile, - disse.
Piegato sul lavello si sciacquò le mani annerite. Come sempre, aveva il cappello calcato in testa sulle ventitré: bisognava ricordargli la sua presenza, altrimenti non se lo sarebbe mai tolto. A gambe larghe si lavava rumorosamente. Una delle cose di cui andava fiero era quel suo essere tosto. Menava vanto di non aver mai fatto uso di saponette da bagno. Non c’era niente di meglio al modo, per la faccia di un lavoratore, del sapone da cucina, diceva.

Mia madre lottava con quel pesante tocco di carbone, manovrando delicatamente sulla pila, all’altezza della sua testa. Era praticamente impossibile avere una presa sicura su quella superficie così irregolare. La montagna di carbone scricchiolava, sbandava, e cominciò a caderle addosso. Fece in tempo a farsi da parte, e il carbone crollò al suolo, frammentandosi in mille pezzi. Tutta la cucina ebbe un sussulto. I vetri delle finestre rimbombarono. Mamma era spaventata.
Stizzita, anche.
- Ecco qua! – riuscì a berciare. – guarda! Che ti avevo detto?
Lui si mostrò pochissimo sorpreso, davanti a lei con le mani bagnate che gocciolavano acqua e sapone sul pavimento. Fece schioccare la lingua e scosse il capo al cospetto di quel casino.
- E non startene lì! – disse mia madre – Che caspita ci dovrò fare con tutto quel carbone?
- Non te l’avevo detto, di pigliare una sedia? Non te l’avevo detto, di pigliare il martello?
- Tu mi farai impazzire!
Lui buttò un’occhiata a quel guazzabuglio nero e ridacchiò. Gli pareva una situazione piuttosto comica.
- Vabbé, - disse. – Hai voluto il carbone, eccotelo.
- Che il cielo mi aiuti, sta’ zitto!
Lui s’indignò. Nessuna donna poteva rivolgersi a lui con quel tono di voce. – Tu sta’ zitta!
- Ma guarda che guaio! Guarda che hai combinato!
- Io? – berciò lui, come in preda a un collasso. – Io? – e quell’aria di mortificazione gli invase la faccia. – Io non ho fatto proprio niente. Stavo lì che mi lavavo le mani.
Mia madre chiuse gli occhi, disarmata. Ah, non c’era niente da fare, proprio niente. Sospirò, rassegnata, e in segno di perdono andò a prendere la scopa.

Pomeriggio inoltrato. Noi bambini eravamo a scuola. Mio fratello Mike tornò a casa. Buttò il berretto da una parte, i libri da un’altra parte e il cappotto da un’altra parte ancora e, fiutandone l’odore, entrò in cucina in cerca di qualcosa da mangiare. Dopo scuola, se papà non era in casa a fermarci, mangiavamo pane e marmellata, rovinandoci così l’appetito per la cena.

Mia madre stava ancora spazzando i residui pezzetti di carbone sparpagliati sul pavimento.
- Dio bono! – esclamò Mike. – Che è tutto ‘sto carbone? Che ne dobbiamo fare?
- Bruciarlo! – disse mio padre. – Tu col carbone che altro ci fai?
- Lo so, ma…
- Ma sta’ zitto! Muto!
- L’ha portato tuo padre, - spiegò mia madre sarcastica, tirandosi su. – E’ così bravo, lui.
- Non doveva portarne così tanto, vero?
- Lascia perdere, - disse mio padre.

Per un momento ci fu silenzio. Poi mio padre fece una pensata. Si voltò e guardò Mike, poi la mamma.
- Senti un po’, - disse con aria cogitabonda, - ‘sto diavolo qua, è andato a prendertelo un secchio di carbone, stamattina, prima di andare a scuola?
Mike sbiancò. Le pupille gli si dilatarono. Una cosa così aveva un solo significato: guai in vista. Indietreggiò, uscì dalla cucina. Minaccioso mio padre gli andò dietro. Alla porta, Mike cominciò a correre. Mio padre gli si lanciò contro facendo partire una pedata. Gli andò molto vicino, ma lo mancò. Emettendo un grido di sollievo, Mike scappò fuori. Mio padre fece partire una bordata di bestemmie agitando un pugno verso la porta sbattuta. Mamma gli toccò un braccio, cercando di calmarlo.
- Per piacere, - disse, - Perché dici queste cose così vergognose?
- Vergognose! – fece lui – Che cosa ho detto di tanto vergognoso?
Raggiunse l’armadio e prese il cappotto. Lei lo guardò mentre si contorceva per indossarlo.
- E ora dove vai? – chiese. E’ quasi ora di cena.
- Che ne so dove vado? Urlò lui.
Ogni volta che andava via lo faceva con tale violenza, che lei ci restava di sale, come sfinita. Cercava scuse per trattenerlo. Ma lui era così furente che non c’era modo di fermarlo.
- Vuoi che ti faccio gli spaghetti? - Sorrise lei.
- Che me ne importa, -disse lui. – fa’ come ti pare.
Stava abbottonandosi il cappotto. – Ma sì, - disse, - fa’ gli spaghetti. Mettici molto formaggio.
- Il formaggio l’ho usato tutto l’altra volta. – disse lei.
- E comprane un altro poco, allora.
Lei gli si avvicinò.
- Volevo chiedertelo, - disse – ce l’hai un mezzo dollaro?
- E dove vado a pigliarlo un mezzo dollaro?
- La prese per il braccio e la condusse alla finestra, scostò le tende e indicò la neve.
- La vedi? E’ neve! E mo’ dimmi dove caspita vado a pigliarlo un mezzo dollaro.
- Lei si raddrizzò, e con una petulanza che lo feriva gli disse: - Niente, pensavo soltanto che ce l’avevi. Non vedo perché devi prendertela tanto.
Lui si diede un pugno sul palmo della mano e si mise a urlare: - Non ce l’ho! Mi hai sentito? Non ce l’ho!
- Non ti arrabbiare così, ho capito.
- Voi donne! Ah, non capite niente.
Prese un sigaro dalla tasca interna del cappotto, se lo passò sulla faccia e lo catturò con la bocca. Era l’ultimo sigaro. Lo accese e spense il fiammifero sputacchiandoci sopra.
- Mo’ che vai al negozio, - disse - pigliami dei sigari.
Mia madre si sedette e si coprì gli occhi. – Non posso mettere in conto altri sigari, - disse. – Non posso farlo, no davvero. Se tu sapessi come mi guarda il droghiere! Mi sento così imbarazzata!
Mio padre non riusciva mai a capire per quale strana ragione si potesse esitare all’idea di aggiungere qualcosa al già incredibilmente cospicuo conto del droghiere, però lui al negozio non ci andava mai. Mandava sempre mamma oppure uno di noi.
- Digli che avrà i suoi soldi quando io avrò i miei, - disse.
Mia madre ebbe un lampo. Si alzò e disse: - Aspetta un minuto.
Scomparve in camera da letto. La memoria che mio padre aveva dei mozziconi di sigaro che aveva buttati era corta. Li lasciava in giro un po’ dovunque: in camera da letto, in bagno, sulla credenza, sui davanzali, in veranda, oppure sull’orlo di un quadro o di uno specchio. Dovunque. Certe volte spediva l’intera famiglia alla ricerca di un particolare mozzicone. Noi bambini ci domandavamo come facesse a vedere la differenza tra l’uno e l’altro, a noi parevano tutti uguali, ma lui scuoteva il capo finchè non gli portavamo quello giusto.
E così mia madre, conoscendo le sue peculiari abitudini, aveva messo da parte una quantità di mozziconi, e li aveva stipati in una scatola di sigari. Tornò dalla camera da letto e gli porse la scatola, col coperchio sollevato. Lui ci guardò dentro con un cipiglio inquisitorio, e anche con sorpresa.
- E questi dove l’hai pigliati?
Lei era piuttosto orgogliosa di quella trovata. – Sono tuoi, - disse.
- No che non sono miei, - mentì lui.
- Ma sì.
- Ma no.
- Ma sì che sono tuoi! Non credi…
- Humpf! – si mise a esaminarli da più vicino.
Ficcò una mano nella scatola e tastò uno dei mozziconi, che si sfarinò secco sotto le sue dita. Scosse il capo.
- Non posso usarli, - disse. – Sono troppo vecchi.
- Guarda meglio, - lo implorò lei. – Magari ne trovi uno più fresco.
- L’hai mai fumato un sigaro?
- Certo che no, - fece lei.
- -Ah, va bene. Niente. Voglio altri sigari. Questi buttali via.
- Ma ti ho detto che non posso pigliare altri sigari a conto! Sono un di più di lusso, e O’Neil si incazza!
- Me ne frego di O’Neil. Digli di aspettare. Chiedigli se ha mai provato a tirar su muri con la neve. Chiediglielo, qualche volta, e vedi che caspita potrà risponderti.
La piantò in asso con la scatola dei mozziconi ancora in mano. Lei lo guardò dalla finestra mentre caracollava per la via, gli occhi al cielo, e scosse il capo in una sorta di disperato stupore. Le pareva di vedere un cucciolo sperduto nella neve.      

John Fante


1909 - John Fante nasce a Denver nel Colorado da una famiglia di immigrati italiani.
Vive un'infanzia turbolenta, di cui racconta in molti suoi romanzi, ma nonostante tutto riesce a diplomarsi ed inizia molto presto a fare lavori precari sotto la vigile guida paterna. La condizione di indigenza e i suoi continui dissapori con il padre-padrone lo portano ad abbandonare la vita di provincia e la famiglia, per tentare fortuna a Los Angeles, a cui approderà nel 1930 e che sarà testimone dei suoi esordi nella scrittura.
I suoi primi racconti vengono subito pubblicati ma parallelamente si dedica alla scrittura di numerose sceneggiature per l'industria cinematografica, attività che gli frutterà discreti guadagni e con cui potrà riscattare la famiglia dall'antica povertà.
Ebbe modo di lavorare anche in Italia come sceneggiatore per Dino De Laurentiis.

Il suo successo come romanziere inizia nel 1937 con Aspetta primavera, Bandini, che riceve subito un grande consenso, due anni dopo replica con uno dei suoi romanzi più famosi, Chiedi alla polvere.
Durante la guerra John Fante vive un periodo di crisi narrativa, dovuto anche all’impegno come collaboratore per i servizi d’informazione, e alla nascita dei quattro figli avuti dalla moglie Joyce Smart, sposata nel 1937. Il suo lavoro successivo sarà Una vita piena pubblicato nel 1952.

Si ammala sfortunatamente di una forma grave di diabete e, sfiduciato per la sua situazione,  nel
1977 pubblica il suo ultimo romanzo La confraternita dell'uva in cui ancora una volta inserisce le vicende della famiglia Bandini. Il 1978 è l'anno dell’incontro con Charles Bukowski, che lo dichiarò "il migliore scrittore che avesse mai letto" e "il narratore più maledetto d'America". Bukowski si fece dare da lui l’autorizzazione di ristampare Chiedi alla polvere, per cui scrisse un'appassionata prefazione. Fece anche pressione sulla casa editrice Black Sparrow Books per cui lui stesso scriveva, perchè ripubblicasse le opere di Fante, da lungo tempo fuori stampa, minacciando l'editore di non consegnargli il manoscritto del suo nuovo romanzo.
La ripubblicazione delle sue opere ridiede speranza a John Fante che ormai quasi cieco, e inabile per l'amputazione di entrambi gli arti inferiori e sempre in preda a dolori atroci, dettò alla moglie il suo ultimo romanzo Sogni di Bunker Hill,    a conclusione della saga del suo alter ego Arturo Bandini, e pubblicato nel 1982.

L' 8 maggio del 1983 John Fante si spense in ospedale divorato dalla sua malattia. Ha lasciato numerosi inediti che poco per volta stanno facendo riscoprire anche in Italia un autore di notevole rilievo. Pubblicazione postuma ebbe anche il suo primo romanzo Strada per Los Angeles scritto da Fante nel 1936.
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