Qui non mi trovate,
io qui non ci sono.
Sto nella stanza accanto
dove non c'è nessuno.

12.7.11

sulla strada per Olduvai

Olduvai è uno dei più importanti siti archeologici africani; è un avvallamento lungo circa 40 km, chiuso da ripide pareti, situato nella pianura di Serengeti, nel nord della Tanzania. I ritrovamenti effettuati in questa zona hanno svolto un ruolo importante nella nostra comprensione dello sviluppo e delle origini della specie umana. Nel 1972, a circa 40 km dalla gola, vennero scoperte le famose “orme di Laetoli”, impronte fossilizzate degli ominidi più antichi, risalenti a circa 3 milioni e mezzo di anni fa.


Olduvai è il luogo, in Tanzania, considerato la culla della civiltà umana.

Esiste una teoria detta teoria di Olduvai  elaborata nel 1989 da Richard Duncan che ipotizza che la civiltà industriale, definita sulla base della produzione elettrica pro-capite, avrà una durata di vita pari a cento anni:  quindi dal 1930 al 2030. Secondo Duncan, il surplus energetico che ha consentito lo sviluppo industriale globale ha già smesso di crescere e vedrà presto una rapida discesa, fino al ritorno ad una situazione di equilibrio energetico con le risorse naturali.
La teoria è stata accusata di catastrofismo e neomalthusianesimo, per il suo legame energia-popolazione e previsione di un crash di quest’ultima in seguito al crollo della produzione elettrica.
Il malthusianesimo è una dottrina che, rifacendosi all'economista inglese Thomas Malthus, attribuisce principalmente alla pressione demografica la diffusione della povertà e della fame nel mondo.
La teoria malthusiana si fa assertrice inoltre di un energico controllo delle nascite e auspica il ricorso a strumenti tesi a disincentivare la natalità, al fine di evitare il deterioramento dell'ecosistema terrestre e l'erosione delle risorse naturali non rinnovabili. Ralph Waldo Emerson criticò il malthusianesimo osservando che esso non contemplava l'incremento della capacità inventiva e tecnologica dell'essere umano.

Ma l’ipotesi di un ritorno a Olduvai si riaffaccia inevitabilmente ora,  leggendo come il  Giappone, nella fase post-nucleare, sia alle prese con un medioevo datato XXI secolo.
" La produzione elettrica giapponese, per la chiusura delle centrali nucleari, ha subito un brusco taglio del 30%. Nove raffinerie di petrolio sono rimaste danneggiate, e al momento il 30% dei distributori di carburante di Tokio non ha nulla da vendere. La capacità di raffinazione sta tornando alla normalità, ma il problema è che la domanda di carburanti è quasi triplicata a causa dell’emergenza che ha colpito mezzo Paese. Le autorità locali chiedono carburante con persino più disperazione di quanto chiedano cibo o acqua o medicine.

Tokio sembra così avviarsi sulla strada per Olduvai e confortare la narrazione di Duncan. Le fabbriche chiudono a rotazione per mancanza di energia, e perché i dipendenti non hanno modo di recarsi al lavoro; le luci in casa si spengono alle 9 di sera, e lo skyline della metropoli è costellato da macchie di buio; gli eventi sportivi sono rimandati a data da destinarsi, i rifiuti si affastellano agli angoli delle strade perché i camion non hanno gasolio per effettuare la raccolta; i giornali dedicano intere pagine agli orari dei black-out zona per zona. “E’ abbastanza buio da essere anche un pochino spaventoso, e per la mia generazione è impensabile avere scarsità di elettricità“, dice un ragazzo. Secondo un ingegnere della compagnia elettrica intervistato in forma anonima dal Los Angeles Times, tale situazione potrebbe durare anche un anno.

Tokio sta lentamente diventando una wasteland. Pian piano, senza troppo rumore, pochi alla volta, i cittadini se ne vanno al sud in cerca di un posto migliore. Incluso, a quanto pare, Masataka Shimizu, presidente della Tepco di cui non si hanno più notizie e che si sospetta fuggito dal Paese. Mentre alle decine di migliaia di contadini profughi della zona intorno a Fukushima si comincia a spiegare, con tatto, che forse non potranno mai più mettere piede sulla terra che i loro padri hanno coltivato per millenni. Ma sembra che al momento rifiutino ostinatamente di afferrare il concetto."
(da: Il fatto quotidiano)
  

Lo scrittore di montagna Mario Corona ha ben intepretato la fragilità della nostra società fossile-dipendente nel romanzo incazzato La fine del mondo storto (Mondadori 2010): finisce il petrolio e la gente prima brucia i mobili per scaldarsi e poi si scanna per sopravvivere. 
Un altro celebre romanzo che descrive un mondo di sopravvissuti è La strada di Cormac McCarthy (Einaudi 2007), di cui si è già parlato in questo blog nel febbraio 2009.  Ma forse, il romanzo più inquietante è La parete della scrittrice austriaca Marlen Haushofer, il diario di una donna immensamente sola su una Terra improvvisamente privata dell’umanità, che tenta, giorno dopo giorno, di mantenere un’esistenza dignitosa in un piccolo angolo alpino, lottando contro la paura e la natura in un’oasi di autosufficienza totale.
Tuttavia, quando si affronta questo argomento, l’angoscia della catastrofe respinge in genere ogni possibilità di dialogo costruttivo, ritenuto sempre estremista e improbabile.
Ma è proprio la consapevolezza e l’interiorizzazione della catastrofe a permetterci di evitarla.
Solo l’immanenza del mostro sconfigge il mostro.
Mettere la testa sotto la sabbia e dire che il mostro non esiste ci fa solo cadere nelle sue fauci.
(da Prepariamoci di Luca Mercalli - Chiarelettere 2011)

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