Qui non mi trovate,
io qui non ci sono.
Sto nella stanza accanto
dove non c'è nessuno.

18.9.11

LA PROVA


Luigi Pirandello (Agrigento, 28 giugno 1867Roma, 10 dicembre 1936) fu drammaturgo, scrittore e poeta, insignito del premio Nobel per la letteratura nel 1934.
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Da piccolo Luigi apprese la devozione alla Chiesa Cattolica grazie all'influenza che ebbe su lui una serva di famiglia, che lo avvicinò alle pratiche religiose, inculcandogli anche credenze superstiziose. Questo lo avvicinò ad esperienze di misticismo, che continuò a perseguire per tutta la sua esistenza.
Si allontanò tuttavia dalle pratiche religiose per l’inaspettata delusione ricevuta dal comportamento scorretto di un sacerdote, per cui non volle più avere a che fare con la Chiesa, praticando una religiosità totalmente discosta da quella ortodossa.

Pirandello studiò filologia romanza all'università di Roma e, in seguito a un diverbio col rettore, a Bonn,  dove ebbe l'opportunità di conoscere grandi maestri di filologia tedesca, fra cui Hermann Karl Usener e di avvicinarsi agli studi di Freud sulla psicanalisi, che gli furono utilissimi per la caratterizzazione dei suoi personaggi letterari.

Considerato il periodo in cui il racconto che segue fu scritto - dalla fine  dell'800 ai primi del '900 - 
pur in uno stile al sommo grado di purezza della lingua italiana utilizzata - che gli valse il Nobel -  possiamo riscontrare l'osservanza di tutti i dettami e delle regole in seguito raccomandate dai moderni maestri di scrittura per i racconti brevi : incipit che crei nel lettore curiosità tale da decidere di proseguire senza esitazioni nella lettura, l'uso di frasi brevi e punteggiatura essenziale, stile snello, articolato e umoristico per interessare alla lettura anche chi non fosse entusiasta dell'argomento trattato.
Non dimentichiamo che Pirandello ebbe egli stesso una cattedra di stilistica e può essere considerato il vero caposcuola e precursore della moderna scrittura italiana.

Nella fattispecie il racconto in oggetto è di piacevole lettura anche per chi fosse ateo, nonostante il nome di Dio venga fatto almeno una ventina di volte in cinque pagine.



Vi parrà strano che io ora stia per fare entrare un orso in chiesa. *Vi prego di lasciarmi fare perché non sono propriamente io. Per quanto stravagante e spregiudicato mi possa riconoscere, so il rispetto che si deve portare a una chiesa e una simile idea non mi sarebbe mai venuta in mente. Ma è venuta a due giovani chierici del convento di Tovel, andati in montagna a salutare i loro parenti prima di partire missionari in Cina.

Un orso, capirete, non entra in chiesa così per entrarci; voglio dire come se niente fosse. Vi entra per un vero e proprio miracolo, come l’immaginarono questi due giovani chierici. Certo, per crederci, bisognerebbe avere né più né meno della loro facile fede. Ma convengo che *niente è più difficile ad avere che simili cose facili. Per cui, se voi non l’avete, potete anche non crederci; e potete anche ridere, se volete, di quest’orso che entra in chiesa perché Dio gli ha dato incarico di mettere alla prova il coraggio dei due novelli missionari prima della loro partenza per la Cina.
Ecco intanto l’orso davanti alla chiesa che solleva con la zampa il pesante coltrone di cuoio alla porta. E ora, un po’ sperduto, ecco che s’introduce nell’ombra e tra le panche in doppia fila della navata di mezzo, si china a spiare e poi domanda con grazia alla prima beghina:
-          Scusi, la sagrestia?
E’ un orso che Dio ha voluto far degno di un Suo incarico, e non vuole sbagliare. Ma anche la beghina non vuole interrompere la sua preghiera, e, stizzita, *più col cenno della mano che con la voce indica di là, senza alzare la testa né levare gli occhi. Così non sa di aver risposto a un orso.
Altrimenti chissà che strilli.
L’orso non se n’ha a male; va di là e domanda al sagrestano:
-          Scusi, Dio?   
 Il sagrestano trasecola:
-          Come Dio?                                  
 E l’orso, stupito, apre le braccia:
-          Non sta qui di casa?
Quello non sa ancor credere ai suoi occhi, che esclama quasi in tono di domanda:
-          Ma tu sei un orso!
-          Orso, già, come mi vedi; non mi sto mica dando per altro.
-          Appunto, orso vuoi parlare con Dio?
Allora l’orso non può fare a meno di guadarlo con compassione:
-          Dovresti invece meravigliarti che sto parlando con te. Dio, per tua norma, parla con le bestie meglio che con gli uomini. Ma ora dimmi se conosci due giovani chierici che partono domani missionari in Cina.
-        Li conosco. Uno è di Tuenno e l’altro di Flavon.
-         Appunto, sai che sono andati in montagna a salutare i loro parenti e che debbono rientrare in convento prima di sera?
-         Lo so.
-         E chi vuoi che m’abbia dato tutte queste informazioni se non Dio? Ora sappi che Dio vuol sottometterli a una prova e ne ha dato incarico a me e a un orsacchiotto amico mio (potrei dir figlio,  ma non lo dico perché noi bestie non riconosciamo più per figli i nostri nati pervenuti a una cert' età). Non vorrei sbagliare. Desidererei una descrizione più precisa dei due chierici per non fare ad altri chierici innocenti *un’immeritata paura.

La scena è qui rappresentata con una certa malizia che certo i due chierici, nell’immaginarla, non ci misero. Ma che Dio parli con le bestie meglio che con gli uomini non mi pare che si possa mettere in dubbio, se si considera che le bestie (quando non siano però in qualche rapporto con gli uomini) sono sempre sicure di quello che fanno, meglio che se lo sapessero; non perché sia bene, non perché sia male (ché queste sono malinconie soltanto degli uomini) ma perché seguono obbedienti la loro natura, cioè il mezzo di cui Dio si serve per parlare con loro. Gli uomini all’incontro* petulanti e presuntuosi, per voler troppo intendere pensando con la loro testa, alla fine non intendono più nulla; di nulla sono mai certi; e a questi diretti e precisi rapporti di Dio con le bestie restano del tutto estranei. Dico di più: non li sospettano nemmeno.
*
Il fatto è che sul tramonto, tornandosene al convento, quando lasciarono il sentiero della montagna per prendere la via che conduce alla vallata, i due giovani chierici si videro questa via impedita da un orso e un orsacchiotto.
Era primavera avanzata; non più tempo dunque che i lupi e gli orsi scendono affamati dai monti. I due giovani chierici avevano camminato finora lieti in mezzo ai lavorati* già alti che promettevano un abbondante raccolto e con la vista rallegrata dalla freschezza di tutto quel verde nuovo che, indorato dal sole declinante*, dilagava con delizia nell’aperta vallata.
Impauriti, si fermarono. Erano, come devono essere i chierici, disarmati. Solo quello di Tuenno aveva un rozzo bastone raccolto per strada, discendendo dalla montagna. Inutile affrontare con esso le due bestie.
*
D’istinto, per prima cosa, si voltarono a guardare indietro in cerca d’aiuto o di scampo. Ma avevano lasciato poco più * soltanto una ragazzina che con un frusto badava a tre porcellini.
La videro che s’era anch’essa voltata a guardare verso la vallata, ma senza il minimo segno di spavento, cantava agitando mollemente quel suo frusto. Era chiaro che non vedeva i due orsi, i due orsi che pure erano lì bene in vista. Come non li vedeva? Stupiti dell’indifferenza di quella ragazzina ebbero per un attimo il dubbio che, o che quei due orsi fossero una loro allucinazione, o che lei già li conoscesse come orsi del luogo addomesticati e innocui; perché non era in alcun modo ammissibile che non li vedesse: quello più grosso, ritto là a guardia della strada, enorme controluce e tutto nero, e l’altro più piccolo che veniva pian piano  accostando dondolante sulle corte zampe e che ora, ecco, si metteva a girare intorno al chierico di Flavon e a mano a mano girando l’annusava da tutte le parti.
*
Il povero giovane aveva alzato le braccia come in segno di resa o per salvarsi le mani e, non sapendo che altro fare, se lo guardava girare attorno, con tutta l’anima sospesa. Poi, a un certo punto, lanciando uno sguardo di sfuggita al compagno e vedendosi pallido in lui come in uno specchio*, chissà perché si fece tutto rosso e gli sorrise.
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Fu il miracolo.
*
Anche il compagno, senza saper perché, gli sorrise. E subito i due orsi, alla vista di quello scambio di sorrisi, come se a loro volta anch’essi si fossero lanciato un cenno, senz’altro tranquillamente se n’andarono verso il fondo della vallata.
*
La prova per essi era fatta e i loro compito assolto.
*
Ma i due chierici non avevano ancor capito nulla. Tanto vero che lì per lì, vedendo andar via così tranquillamente i due orsi, restarono per un buon tratto incerti a seguire con gli occhi quell’improvvisa e inattesa ritirata, e poiché essa per la naturale goffaggine delle due bestie non poteva non apparir loro ridicola, tornando a guardarsi tra loro,  non trovarono da far di meglio che scaricare tutta la paura che s’erano presa in una fragorosa risata. Cosa che certamente non avrebbero fatto se avessero subito capito che quei due orsi erano mandati da Dio per mettere il loro coraggio alla prova e che perciò ridere di loro così sguaiatamente era lo stesso che ridersi di Dio. Se mai una supposizione di questo genere fosse passata loro per la testa, piuttosto che a Dio per la paura che s’erano presa, avrebbero pensato al diavolo, che all’uno e all’altro aveva voluto farla mandando quei due orsi.
*
Capirono che invece era stato proprio Dio e non il diavolo allorché videro i due orsi voltarsi alla loro risata, fieramente irritati. Certo in quel momento i due orsi attesero che Dio, sdegnato da tanta incomprensione, comandasse loro di tornare indietro e punire i due sconsigliati, mangiandoseli. Confesso che io, se fossi stato dio, un dio piccolo, avrei fatto così.
*
Ma Dio grande aveva già tutto compreso e perdonato. Quel primo sorriso, per quanto involontario, dei due giovani chierici, ma certo nato dalla vergogna di aver tanta paura, loro che, dovendo fare i missionari in Cina s’erano imposti di non averne, quel primo sorriso era bastato a Dio, proprio perché nato così, inconsapevolmente, nella paura; e aveva perciò comandato ai due orsi di ritirarsi. Quanto alla seconda risata così sguaiata era naturale che i due giovani credessero di rivolgerla al diavolo che aveva voluto far loro paura, e non a Lui che aveva voluto mettere il loro coraggio alla prova. E questo, perché nessuno meglio di Dio può sapere per continua esperienza che tante azioni, *che agli uomini per il loro corto vedere paiono cattive, le fa proprio Lui, per i suoi alti fini segreti, e gli uomini credono invece scioccamente che sia il diavolo.
*
Luigi Pirandello                                       
da Novelle per un anno - La prova

Cinque raccolte pubblicate tra il 1928 e il 1937 comprendono novelle risalenti agli anni tra il 1896 e il 1937: quadri siciliani, volti femminili, figure di emarginati popolano questi racconti, nei quali Pirandello porta a compimento la sua indagine introspettiva.



dal racconto La Prova notare in particolare queste regole sottintese:

*Vi prego di lasciarmi fare uso del dialogo confidenziale come escamotage indirizzato a coinvolgere più direttamente il lettore

*niente è più difficile ad avere che simili cose facili: ironia usata con nobili intenti didascalici oltre che stilistici

*più col cenno della mano che con la voce  mirabile sintesi dell'azione con un'efficacia quasi visiva

l'uso alternativo di aggettivi e nomi con l'intento di impreziosire una descrizione che in termini più correnti potrebbe risultare banale; questi termini sono il prodotto mirato di una riflessione e della conoscenza linguistica dello scrittore e non fronzoli ridicoli e ridondanti di cui si fa spesso uso oggi come scappatoia.
es: *lavorati è usato in alternativa a colture o seminato
*un’immeritata paura  qui usato al posto del prevedibile termine inutile

* accentato non è qui un errore di stampa ma l'antico modo di scrivere questo avverbio (l'accento è stato in seguito eliminato dalle regole grammaticali in quanto superfluo, dato che la parola non ha omonimie e non è suscettibile di cambiare il senso della frase se male interpretata.
Attenzione perchè l'uso dell'ortografia impeccabile è sottovalutato da molti aspiranti scrittori che spesso cadono in errori di accentazione - es:qui e qua l'accento non va, ma su lì e là ci va, mentre non ci va su va. ndr :-) -

*all’incontro:  vecchio termine che significa all'incontrario

*vedendosi pallido in lui come in uno specchio : segnalo questa frase perchè si mediti sull' alta incisività che compensa preziosamente la narrazione semplificata dell' avvenimento.
*che agli uomini per il loro corto vedere paiono cattive  idem
mca
Fonte bibl. Wikipedia
(mca ringrazia)

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