Qui non mi trovate,
io qui non ci sono.
Sto nella stanza accanto
dove non c'è nessuno.

8.10.10

IL MOMENTO MIGLIORE



  Ogni giornata ha la sua caratteristica particolare. Quella di oggi, 7 ottobre, è la pesantezza. La sento nello stomaco innanzi tutto, e nella fatica che faccio a muovere i passi, come se le scarpe avessero zeppe di piombo.
Se per disgrazia scivolassi nella Darsena oggi, non credo che me la caverei. Potrei forse farmi un bel giretto turistico sul fondale melmoso, muovendomi al rallentatore fra i detriti, come un’aragosta . Dicono che la morte per annegamento non sia spaventosa come si crede, ma anzi dolce. Sì, può anche essere, se si tratta delle acque tiepide e cristalline del reef nell’oceano Indiano, ma chissà come sarebbe l' annegamento in una pozza, gelida e limacciosa… mi resterebbe almeno il tempo di lanciare un epiteto riassuntivo  agli amministratori di questa maudite-ville?
  
   Scendo le scale che portano alla stazione Metro di Sant’Ambrogio. Studenti  corrono nel mezzanino per arrivare a lezione in tempo, altri corrono per riuscire a prendere al volo il treno di cui già arriva il rombo da sotto il pavimento. Evitare gli scontri in quest'area è  un’arte quasi marziale. Vorrei non essermi messa il giubbotto di pelle: il sole è tornato a splendere a metà mattina, fa un caldo bestia, adesso, ma ho le braccia ingombre e non riesco a sfilarmelo.
   Oggi, delle due trattative che avevo in corso, una sola è riuscita ad essere conclusa, domani si ricomincia, e vedremo.  Intanto la tessera magnetica di abbonamento, al primo tentativo fa cilecca, il tornello non gira e devo cambiare fila. Ad altri tocca fare lo stesso. La pazienza dei Milanesi non ha limiti. Mi trascino pesantemente giù per altre due rampe di scale.
- Stavolta, se trovo un posto a sedere, mi ci piazzo e non ci saran santi, mi si parasse dinnanzi Matusalemme in persona , non mi alzo .-  Le solite quindici fermate da affrontare stoicamente in piedi, cercando di ignorare la calca intorno, davvero non me la sento di reggerle: mi sento schiattare solo all'idea.   M'inoltro fino in fondo alla banchina dove pochi sono in attesa: chissà come mai la gente si affolla tutta nello stesso punto, col rischio di dover viaggiare stipata, piuttosto che scegliere di far quattro passi in più per diluirsi lungo il marciapiede. Guardo l'orologio.
L'occhio della telecamera mi sta scrutando silenziosamente. Un paio di minuti e i fari del treno sbucano  dal tunnel, risucchiando aria e trascinando con sè un frastuono indicibile. Le porte si aprono di schianto, come ganasce fameliche. Salgo: la vettura è già abbastanza piena, considerato l’orario e tutto, ma posti disponibili ce ne sono ancora parecchi.
   C’è lo strano costume da parte dei viaggiatori milanesi di sedersi il più possibile distanziati uno dall'altro: i sedili più ambiti sono quelli laterali alle porte, dove, almeno su un lato, si evita la vicinanza di un'altra persona. Sono sempre i primi ad essere accapparrati. Gli altri passeggeri si siedono intercalandosi, lasciando, quando possibile, un posto libero accanto al proprio, anche se poi, in un paio di fermate, i posti verranno tutti comunque occupati. Le posizioni migliori vengono sempre tenute di mira  e, non appena lasciate libere, diventano oggetto di rapida occupazione, quasi si sperasse, con ciò, di mettersi al riparo da qualche possibile contagio. 
Di solito evito di sedermi, ma, quando succede,  subisco anch'io questo condizionamento, simbolo della diffusa asocialità che ormai regna ad ogni livello;  così mi accaparro un bel posto centrale, privo sul momento di indesiderabile vicinato.    
   Sistemo gli ingombri sotto il sedile e mi metto comoda. Ho le cuffie e cerco di settare l’I-pod su un livello di volume più idoneo alla circostanza, operazione non semplice, perché la musica troppo bassa resta soverchiata dal fracasso del treno in corsa, se è troppo alta mette a serio rischio i poveri timpani.
Tuttavia, dovendo scegliere la maniera di restare precocemente sorda, piuttosto che per colpa dell' ATM, opto per la musica a tutto volume.  "Soverchiata". Ma che bel termine ho usato. Pare che molte parole rischino di scomparire dal nostro vocabolario per la mancanza di utilizzo da parte delle nuove generazioni. E' stato stimato un impiego di circa mille vocaboli da parte dei più alfabetizzati, per molti altri forse meno di cinquecento.
   Prima che le porte si richiudano con un tonfo, sale un giovane. Catturo la sua immagine con la coda dell'occhio, sfocata come quella delle altre centinaia di passeggeri che incrocio ogni giorno. Una figura in blu, slanciata, forse uno studente uscito dalla Cattolica o un giovane assistente. Ha una leggera barba diffusa sul viso che ne rende indecifrabile l' età anagrafica. 
Regge uno zainetto e un giornale. Si guarda intorno, analizza la disponibilità dei posti, e poi decide.

   Me lo ritrovo accanto, alla mia destra, lo zainetto abbandonato ai piedi, il giornale aperto sulle ginocchia, mentre il treno si riavvia lentamente.
Do un’occhiata al panorama di fronte: Bukowski diceva: - La gente è il più grande spettacolo del mondo e per vederlo non si paga nemmeno il biglietto.- Qui per la verità il biglietto si paga e lo spettacolo non è poi questo granchè.
   Vedo un fronte di giornali aperti con titolo cubitale in prima pagina, praticamente lo stesso per tutti. Procurandomi una leggera aritmia mi ricorda il motivo della pesantezza di oggi .
   Mi giro verso destra: i posti sono piuttosto stretti, la posizione di lettura è prospetticamente ideale e, non soffrendo ancora di miopia, potrei leggere in modo ladresco e parassitario in contemporanea col mio vicino di viaggio. Ma non leggo, tanto indovino già tutto ciò che può starci scritto; mi guardo di nuovo intorno e ogni uomo che osservo mi sembra che abbia l'aria di un possibile stupratore. Ammesso che non lo sia, non potrebbe darsi che non ne abbia ancora avuto l’occasione? Fisso una manona irsuta di pelo scuro che spunta dal polsino di un impermeabile: mi aggredisce un pensiero orribile, mi sta venendo la nausea. 
   Una carica elettrica all'interno delle scarpe mi costringe a  battere  i piedi  sulla gomma del pavimento, con aria indifferente, quasi per accompagnare un ritmo di blues.
Potessi volarmene via da quello spiraglio di finestrino aperto, via dalla città, via dal mondo intero...



Image by Wolfgang Bauer



   Mi tormenta il faccino di quella bambina truccata da grande, pieno di sogni e di segni per tante lotte.
Ignara calpesta la sua ombra nel pomeriggio d’agosto, mentre percorre a passo svelto la strada che forse non la porterà alla spiaggia: eppure è uscita senza aver pranzato, giusto per non dover ritardare l'ora di fare il suo primo tuffo fra le onde.
Ti hanno tradita, ragazzina.
Ci potevi annegare in quel mare e morire felice, almeno, dolcemente.
Invece no...
Dentro ad un pozzo sei andata a finire.
Creatura leggera come una piuma, ti hanno anche messo una pietra sopra, per spingerti sul fondo e tenerti sotto… 
Ti hanno messo una pietra sopra, come si fa coi  brutti ricordi.
    Mi si stanno appannando le lenti da sole adesso e sento bruciare gli occhi da maledetto. Fra poco non riuscirò più a vedere una  beata mazza.
   E' una vibrazione nello stomaco che  mi salva in corner: il telefonino prende a squillare. Annaspo alla cieca nella borsetta; non riconosco il numero, rispondo lo stesso, confusa, cerco di liberarmi in quattro battute usando il tono basso e sommesso delle occasioni private. Lascio sconcertato il mio interlocutore ma gli prometto che richiamerò entro breve.
   Le cuffie intanto mi sono scivolate giù lungo i capelli. Uff che caldo! il giubbotto...mannaggia, alla fine non l’ho più tolto.
- Come faranno, dico io, queste persone qui, a dormire saporitamente, restando sedute imperterrite, impiccate in mezzo agli altri,  sepolte da  borse e pacchetti e svegliarsi al momento giusto della fermata? …
Boh, avranno fatto il turno all’ospedale. O in fonderia.  
C'avranno un timer inserito nel cervello.
Io, per me,  fatico ad addormentarmi perfino in un comodo letto.-
    Il treno ha preso velocità, le stazioni sono più distanziate, la gente sbarca e sale alle fermate. Sono a disagio e non so più da che parte guardare; così do un'altra sbirciata al mio vicino: nel frattempo ha girato le pagine e sta leggendo una notizia  sportiva.
    Si è messo più comodo durante la lettura. Ha divaricato le gambe, in un modo che solo i maschi possono permettersi, trasformando in contatto quella che prima era solo vicinanza. Io registro, ma senza ritrarmi. Noto i suoi jeans, un po' sbiaditi nei punti di maggiore tensione, prendere sotto al mio sguardo una traiettoria sempre più obliqua fino ad appoggiarsi con nonchallance contro il mio ginocchio.
     E lì rimangono,  senza esercitare pressione, nè urti, nonostante gli scossoni del treno, in un’aderenza disinvolta e consapevole, quieta, garbata, gentilmente energetica. Avrà notato che non mi sono scostata da lui, che non ho mosso un muscolo?
   Il giovane maschio, ripiegato il giornale, si abbandona in questa posa, fregandosene di tutto il resto, appagato di quel contatto consenziente che si protrae e sembra compiacersi di se stesso. Questo tocco leggero, incide e coincide col mio attimo, e mi fa sentire subitamente pacificata. E' il tocco addolcente e lenitivo che meritava di ricevere anche la piccola piuma, invece di finire nel pozzo.
   Il momento migliore della giornata.


mca

(segue)

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