Qui non mi trovate,
io qui non ci sono.
Sto nella stanza accanto
dove non c'è nessuno.

23.10.10

UNA SCONFINATA GIOVINEZZA


Cosa ci starà capitando se, arrivati ad un certo punto della vita, anziché procedere verso una saggia, quieta vecchiaia, inaspettatamente si fa dietrofront, e ci si trova a ridiscendere il sentiero?

Sempre più disattenti e smemorati, a caccia delle  parole e dei nomi che giocano a nascondino, mentre gli argomenti si dilatano, traboccando e mescolandosi fra loro in una logica che sfugge a tutti. La gente ci guarda strano e noi stessi facciamo sempre più fatica a riconoscerci nella confusione e nelle paure che questo cambiamento ci procura.
Un disastro.

Quasi che il nostro cervello sentisse il legittimo  diritto di prendersi appropriate pause dai ritmi troppo serrati, la coscienza se ne vola via, interessandosi ad altro, nonostante gli sforzi per rimanere presenti a quello che ci sta d'innanzi.
E' forse il bisogno di evadere dalle nostre prigioni. Non ce la facciamo più a imbavagliare fastidio e rancore verso realtà  mal tollerate. Le persone ci appaiono estranee e indifferenti (e può darsi che lo siano), stentiamo a riconoscerci in quei luoghi familiari che sono sempre stati nostri,  e che oggi ci fanno sentire naufraghi in un bicchiere d’acqua.

I medici la chiamano malattia; le hanno anche dato un nome, che spaventa solo a sentirlo pronunciare.
Ma se ci sono sempre almeno due alternative nell'interpretazione delle cose, questa, che viene chiamata "malattia", non potrebbe essere spiegata come ricerca inconscia di una via di fuga?
Non so se questo sia un pensiero condivisibile per Pupi Avati, ma a me piace pensare che il malato, almeno all’inizio, non stia poi tanto male, forse si sente anche meglio di noi, che siamo lì a controllarlo con ansia, illusi della nostra sensatezza, lucidità e sanità mentale e ignari di quanto siamo schiavi degli stereotipi e vittime di un sistema sociale sempre più efficiente ma in cui si dà sempre meno spazio alla misericordia.

Forse che i bambini si comportano sempre da responsabili, non fanno disastri e non si dimenticano tutto ciò che non interessa loro? Non dimostrano disappunto inscenando capricci quando le situazioni non gli garbano? Si preoccupano del bon-ton o di salvare la facciata? Sanno dire sì quando pensano no?
Eppure l’infanzia non è ancora considerata una malattia…

Lino e Chicca, nonostante le notevoli diversità socio-culturali, hanno alle spalle venticinque anni di saldo matrimonio, senza figli purtroppo, ma ugualmente ben riuscito. Sono ancora ben sintonizzati quando lo spauracchio dell'Alzheimer di Lino inizia ad insidiare la loro patinata esistenza. E’ l’algida Francesca Neri l'attrice giusta nella parte della moglie borghese, preoccupata degli aspetti formali della situazione. Tenta di sottacere con la propria famiglia, formalista e incline alle genuflessioni, la condizione reale del marito, fino a qui brillante cronista sportivo del Messaggero,  e, sotterrato l'orgoglio,  va a pietire per lui al giornale una continuità lavorativa di pura facciata che gli consenta di salvare almeno l'autostima. Nonostante la prognosi infausta, resta più che mai decisa a non mollare, tenta un passaggio srategico dal ruolo di moglie a madre, caparbiamente convinta di riuscire, con  attenzioni assidue e dedizione costante, ad arginare gli effetti devastanti della malattia.
All’inizio la lenta progressione del male alimenta queste false speranze, ma giorno dopo giorno in Lino si dilatano le assenze mentali e, blandito dal desiderio inappagato di maternità della moglie, si attiva in lui un processo di regressione che, con intermittenze sempre più frequenti, lo sospinge indietro negli anni, alla sua antica condizione di ragazzo, allorchè, rimasto orfano, da Bologna si ritrova nell’Appennino emiliano con la sua valigetta e l' inseparabile cane-bracco, affidato agli zii campagnoli e da loro accolto con impacciata ma genuina amorevolezza.

Questi continui ritorni memoriali, girati in flash-back color seppia, si incastonano liricamente nelle vicende attuali, confondendosi con la realtà  quotidiana nella mente di Lino e nella nostra. Sono il meglio del film e rappresentano l’Italia rustica e gioviale che oggi non c’è più, se non nelle preziose reminiscenze di chi può raccontare di aver goduto l’ingenuità di quegli anni.

E allora  ecco riaffacciarsi, sullo sfondo dei declivi nebbiosi dell’Appennino, le scene di vita tranquilla assieme agli zii bonari,  l’amicizia obbligata con i ragazzi del luogo, rozzi e un po’ suonati, ma dotati di strane abilità come conoscere a menadito le tabelline grandi ( quanto fa 18 x 9? ) o persino resuscitare i morti; la nostalgia dei divertimenti semplici, la collezione di tappi corona con le facce ritagliate dei campioni di ciclismo per giocare a pista, le scorribande, con  il cane sempre al seguito i cui latrati echeggiano giù per i sentieri della vallata, le avventurose incursioni al cimitero o gli appostamenti fatti alla bella montanarina che sembra sempre voglia starci, ma poi all'ultimo si tira indietro.



Appennino emiliano immerso nelle nebbie - Immagine di proprietà www.filosofia-ambientale.it

Per fortuna non tutte le storie finiscono nello stesso modo, neppure quelle della malattia.
La regia di Avanti è magistralmente abile nel dirottare l’attenzione dello spettatore, che all'unisono col protagonista, prende vieppiù le distanze dalle squassanti vicende presenti, sentendosi indotto a concedere più speranza a quel passato che torna e che apre a Lino una poetica e più auspicabile via di fuga, offrendogli riparo in una sconfinata giovinezza.

Nessun commento:

Posta un commento

Lettori fissi