Qui non mi trovate,
io qui non ci sono.
Sto nella stanza accanto
dove non c'è nessuno.

3.4.11

META' DI UN UOMO

 SILENZIO, SI LEGGE !                                                

   Il cavallo si fermò. Gli zoccoli sferrati poggiarono sui ciottoli rotondi e scivolosi che coprivano il greto quasi asciutto del fiume. L’uomo allontanò con le mani, cautamente, i rami spinosi che gli impedivano la vista della pianura.
Stava albeggiando. In lontananza, dove le terre iniziavano a salire, prima in dolce pendio, poi interrotte bruscamente da una catena basaltica che si ergeva come una muraglia verticale, se lì era come ricordava, uguale al passaggio da cui era sceso molto più a nord, vi erano alcune case, bassissime a quella distanza, striscianti, e alcune luci accese che sembravano stelle.
Sulla montagna, che nascondeva tutta quella parte d’orizzonte, si vedeva una linea luminosa, quasi che una leggera pennellata avesse percorso le vette e, ancora nuda, si spandesse a poco a poco sui versanti. Da lì sarebbe sorto il sole. L’uomo lasciò andare i rami con un movimento distratto e si graffiò: emise un suono inarticolato e si portò un dito alla bocca per succhiare il sangue.
Il cavallo indietreggiò picchiando le zampe, spazzò con la coda l’erba alta che assorbiva la poca umidità che ancora si manteneva sulla sponda del fiume, grazie al riparo creato dai rami pendenti, una cortina buia a quell’ora. Il fiume era ridotto a un filo d’acqua che scorreva nella parte più profonda del letto, fra i sassi, aprendosi qua e là in pozze d’acqua dove sopravviveva angosciato qualche pesce.
C’era nell’aria un’umidità che annunciava pioggia, tempesta, certo non quel giorno, ma il successivo o forse dopo tre soli o alla prossima luna. Molto lentamente il cielo si andava schiarendo, era tempo di cercare un nascondiglio, per riposare e dormire.

   Il cavallo aveva sete, si avvicinò al corso d’acqua, che sembrava immobile sotto la cappa della notte, e quando le zampe anteriori sentirono la limpida frescura, si sdraiò per terra, sopra un fianco. L’uomo, con la spalla poggiata sulla ruvida sabbia, bevve lungamente, anche se non aveva sete. Al di sopra dell’uomo e del cavallo la parte ancora scura del cielo si spostava lentamente, trascinandosi dietro una luce pallida, per il momento giallastra, primo e conosciuto annuncio del cremisi e del vermiglio che poi sarebbero esplosi sopra la montagna come aveva visto accadere su tanti altri monti in luoghi diversi o lungo le pianure. Il cavallo e l’uomo si alzarono. Davanti a loro c’era la spessa barriera degli alberi, che si difendeva con i rovi fra i tronchi. Sui rami gli uccelli cominciavano già a cinguettare. Il cavallo traversò il letto del fiume con trotto incerto e voleva inoltrarsi sulla destra nell’intrico di vegetazione, ma l’uomo preferiva un passaggio più facile.
   Con il tempo, e di tempo ne aveva avuto davvero tanto, aveva imparato a moderare l’impazienza animale, talora opponendovisi con una violenza che esplodeva e proseguiva tutta nel suo cervello, o magari in un punto del corpo dove s’ incrociavano e scontravano gli ordini che partivano dal cervello e dagli gli oscuri istinti, originati forse tra i fianchi, dove la pelle era nera.

   Altre volte cedeva incurante, pensando ad altre cose, a cose che appartenevano sì a questo mondo fisico in cui egli si trovava, ma non a questo tempo. La stanchezza aveva innervosito il cavallo: la pelle tremava come se volesse scuotersi via un tafano frenetico e avido di sangue, e i movimenti delle zampe si moltiplicavano inutili e ancor più stancanti.
Sarebbe stata un’imprudenza tentare di farsi strada attraverso il groviglio di sterpi. C’erano troppe cicatrici sul pelo bianco del cavallo. Una di esse, molto antica, tracciava sulla groppa un segno largo, obliquo. Quando il sole vi batteva a picco, o quando al contrario il freddo faceva rabbrividire e rizzare il pelo, era come se in quel punto, fascia esposta e sensibile, fosse poggiata la lama incandescente di una spada. Benché sapesse molto bene che avrebbe visto solo una cicatrice un po’ più grande delle altre, in quelle occasioni l’uomo torceva il busto e guardava indietro come se spiasse la fine del mondo.

   A poca distanza, verso il punto di riflusso della marea, la sponda del fiume formava una rientranza nei campi: doveva esserci uno sbarramento o forse c’era un affluente, altrettanto asciutto o forse anche di più. Il fondo era fangoso, con pochi sassi. Intorno a questa specie di sacca, che non era altro che un semplice braccio del fiume e insieme ad esso si riempiva e si svuotava, c’erano alberi alti, neri sotto l’oscurità che lentamente stava sollevandosi da terra. Se la cortina di tronchi e rami abbattuti fosse stata abbastanza folta, avrebbe potuto trascorrere lì la giornata, ben nascosto, finché la notte fosse giunta di nuovo, consentendogli di proseguire per la sua strada. Allontanò le fresche fronde con le mani e, spinto dalla forza dei garretti, balzò sulla riva scoscesa nell’oscurità quasi totale, difesa in quel punto, dalle cime rigogliose degli alberi.

   Subito dopo il terreno riprendeva a scendere verso un canale, che più oltre attraversava forse la campagna allo scoperto. Aveva trovato un buon nascondiglio per riposare e dormire. Tra il fiume e la montagna c’erano campi coltivati, terreni dissodati, ma quel canale, profondo e stretto, non gli sembrava poter essere un punto di passaggio. Fece qualche altro passo, nel silenzio fattosi totale. Gli uccelli spaventati stavano ad osservare.   Lui guardò in alto: vide illuminate le punte più alte dei rami. La luce levigante che proveniva dalla montagna adesso sforava l’alta frangia vegetale. Gli uccelli ripresero a cinguettare, la luce sciamava a poco a poco, un pulviscolo verdognolo che diventava roseo e bianco, foschia sottile e instabile dell’albeggiare. I tronchi scurissimi degli alberi in controluce sembravano avere solo due dimensioni, come se fossero stati ritagliati da ciò che restava della notte e appiccicati sulla trasparenza luminosa che sprofondava nel canale. Il suolo era coperto di erbacce. Un buon posto per passare il giorno dormendo, un rifugio tranquillo.

   Vinto da una fatica di secoli e millenni, il cavallo s’inginocchiò. Trovare una posizione per dormire che convenisse a entrambi era sempre un’operazione difficile. In genere il cavallo si sdraiava sul fianco, e così anche l’uomo si riposava. Ma il cavallo poteva passare una notte intera in quella posizione, senza muoversi, mentre l’uomo, per non indolenzire la spalla e tutto quel lato del busto, doveva vincere la resistenza del grande corpo inerte e addormentato per poter farlo voltare sul lato opposto: era sempre un sonno difficile. Quanto a dormire in piedi, il cavallo avrebbe potuto farlo, ma non l’uomo. E quando il nascondiglio era troppo stretto, lo spostamento diventava impossibile e il suo bisogno si tramutava in ansia. Non era un corpo comodo. L’uomo non poteva mai sdraiarsi bocconi a terra, incrociare le braccia sotto il mento e restarsene così a guardare le formiche o i granelli di terra, oppure contemplare il candore di un tenero stelo che fuoriusciva dall’humus nero. E per vedere il cielo aveva sempre dovuto torcere il collo, tranne quando il cavallo s’impennava sulle zampe posteriori e il viso dell’uomo dall’alto riusciva a piegarsi un po’ di più all’indietro: allora sì poteva vedere meglio la grande campana notturna piena di stelle, il prato orizzontale e tumultuoso delle nuvole, oppure la campana azzurra e il sole, come l’ultima traccia della forgia originale.

   Il cavallo si addormentò subito. Con le zampe fra l’erba, i crini della coda sparpagliati sul terreno, respirava profondamente con ritmo regolare. L’uomo appena reclinato, con la spalla destra appoggiata sulla parete del canale, afferrò alcuni rami bassi e si coprì. In movimento sopportava bene il freddo e il caldo, seppure non così come il cavallo. Ma quando era fermo e addormentato si raffreddava rapidamente. Adesso, perlomeno fintanto che il sole non avesse riscaldato l’aria, sarebbe stato bene sotto il conforto delle foglie. Nella posizione in cui si trovava, poteva vedere che gli alberi non si chiudevano completamente lassù in cima: una fascia irregolare, ormai azzurra e mattutina, si stendeva davanti a lui e di tanto in tanto, attraversandola da parte a parte, o in alcuni momenti percorrendola nella stessa direzione, volavano velocemente gli uccelli. Gli occhi dell’uomo si chiusero lentamente. L’odore della linfa dei rami strappati lo stordiva un po’. Si avvicinò al viso un ramo e si addormentò. Non sognava mai come sogna un uomo. E non sognava neppure come sognerebbe un cavallo. Nelle ore in cui erano svegli, le occasioni di pace o di semplice conciliazione non erano molte. Ma il sogno dell’uno e il sogno dell’altro creavano il sogno del centauro. Era l’ultimo sopravvissuto dell’antica specie degli uomini-cavallo.

Giambologna 1594-1600
Firenze - Piazza della Signoria - Loggia dei Lanzi
Lotta fra Eracle e il centauro Nesso



   Aveva partecipato alla guerra contro i Lapiti, la prima grande sconfitta sua e dei suoi. Insieme ad essi, vinto, si era rifugiato fra le montagne di cui aveva ormai dimenticato il nome. Fino al giorno fatale in cui, con la parziale protezione degli dei, Eracle aveva decimato i suoi fratelli, e solo lui era riuscito a fuggire, perché la lunga lotta fra Eracle e Nesso gli aveva dato il tempo di rifugiarsi nella foresta. E’ allora che si erano estinti i Centauri. Ma, contrariamente a quanto affermavano gli storici e i mitologi, uno era rimasto, proprio questo, che aveva visto Eracle schiacciare in un tremendo abbraccio il busto di Nesso e poi trascinarne il cadavere per terra, come un giorno avrebbe fatto anche Achille con Ettore, rendendo lode agli dei per aver vinto e sterminato la prodigiosa razza dei Centauri. Forse presi da pentimento, gli stessi dei avevano poi protetto il Centauro nascosto, accecando gli occhi e l’intelletto di Eracle, chissà mai con quali disegni.

   Tutti i giorni, in sogno, lui lottava con Eracle sconfiggendolo. In mezzo agli dei disposti in circolo, ogni volta e sempre riuniti agli ordini del suo sogno, lui lottava braccio a braccio, sottraeva la scivolosa groppa all’astuto salto che tentava il nemico, schivava la corda che gli fischiava tra le zampe e lo costringeva a lottare faccia a faccia. Il suo viso, il busto e le braccia sudavano come può sudare un uomo. Il corpo del cavallo si ricopriva di schiuma. Questo sogno si ripeteva da migliaia di anni, e sempre vi si ripeteva l’epilogo: lui vendicava con Eracle la morte di Nesso, richiamava alle braccia e ai muscoli del busto tutta la sua forza di uomo e di cavallo. Saldo sulle quattro zampe come fossero aste piantate nel suolo, sollevava Eracle in aria e stringeva, stringeva, finché udiva la prima costola incrinarsi, poi un’altra e infine la spina dorsale spezzarsi. Eracle, morto, scivolava per terra come un cencio e gli dei applaudivano. Non vi era alcun premio per il vincitore. Gli dei si alzavano dai loro sedili d’oro e si allontanavano, sempre più allargando il circolo, fino a scomparire all’orizzonte. Dalla porta attraverso cui faceva il suo ingresso nel cielo Afrodite, sempre appariva e brillava una grande stella.

   Da migliaia di anni percorreva la terra. Per molto tempo, finché il mondo si era mantenuto anch’esso misterioso, aveva potuto muoversi alla luce del sole. Quando passava, le persone si avvicinavano alla strada e gli lanciavano sul dorso di cavallo fiori intrecciati, o ne facevano corone che lui si poneva sul capo. Vi erano madri che gli affidavano i figli perché li sollevasse in aria e così superassero la paura dell’altezza. E in ogni luogo vi era una cerimonia segreta: al centro di un circolo di alberi che raffiguravano gli dei, gli uomini impotenti e le donne sterili passavano sotto il ventre del cavallo. Era credenza comune che sbocciasse così la fertilità e si rinnovasse la virilità. In certe epoche portavano al centauro una cavalla e si ritiravano dentro le case: ma un giorno qualcuno, che per quel sacrilegio fu accecato, vide che il centauro copriva la cavalla come un cavallo e poi piangeva come un uomo. Da quelle unioni non nacque mai alcun frutto.


Raffigurazione dell'unicorno da un manoscritto XI sec.

   Poi giunse il tempo del rifiuto. Il mondo, trasformato, cominciò a perseguitare il centauro, lo costrinse a nascondersi. E altre creature dovettero fare lo stesso: come l’unicorno, le chimere, i lupi mannari, gli uomini piè-di-capra, certe formiche più grandi delle volpi, ma più piccole dei cani. Nel corso di dieci generazioni umane, questo popolo diverso visse riunito in regioni desertiche. Ma con il passare del tempo, la vita anche lì divenne loro impossibile, e si dispersero tutti. Alcuni, come l’unicorno, morirono; le chimere si accoppiarono con i topiragno, e così originarono i pipistrelli; i lupi mannari s’introdussero nelle città e nei paesi e certe notti adempiono il loro destino, gli uomini piè-di-capra si estinsero anch’essi, le formiche cominciarono a diminuire di grandezza e oggi non c’è più nessuno in grado di distinguerle dalle loro sorelle che sono sempre state piccole.

   Il centauro finì per ritrovarsi solo. Per migliaia d’anni, fin dove il mare lo consentiva, percorse tutta la terra possibile. Ma nei suoi itinerari si teneva sempre alla larga dalle frontiere del loro originario paese. Passò il tempo. Alla fine non vi era più terra dove potesse vivere al sicuro. Cominciò a dormire durante il giorno e a viaggiare di notte. Camminare e dormire. Dormire e camminare. Senza alcuna ragione di cui fosse consapevole, forse solo perché aveva zampe e sonno. Di mangiare, non aveva bisogno. E il sonno gli era necessario per poter sognare. E l’acqua, solo perché esisteva l’acqua.

   Migliaia di anni dovevano essere migliaia di avventure.


Salvator Dali - schizzo a china
El ingenioso hidalgo don Quixote de la Mancha

   Migliaia di avventure però sono troppe perché valgano quanto una sola, vera e indimenticabile avventura. Perché tutte insieme non valevano più di quella, avvenuta in quest’ultimo millennio, quando, in un luogo deserto e arido, vide un uomo con lancia e armatura in sella a un cavallo imbizzarrito, attaccare un esercito di mulini a vento. Vide il cavaliere scagliato in aria e poi un altro uomo, basso e grasso, accorrere gridando sopra un mulo. Li udì parlare in una lingua che lui non capiva, e poi li vide allontanarsi, l’uomo magro malandato, l’uomo grasso che gemeva, il cavallo magro zoppicante e il mulo indifferente. Pensò di seguirli per aiutarli, ma rivolgendo lo sguardo ai mulini, vi si diresse al galoppo e, appostatosi davanti al primo, decise di vendicare l’uomo che era stato disarcionato dal cavallo. Nella sua lingua natia gridò: - Anche se tu avessi più braccia del gigante Brianteo, me la pagherai.- A tutti i mulini furono spezzate le pale e il centauro fu inseguito fino alla frontiera con un altro paese. Attraversò campagne desolate e giunse al mare. Poi tornò indietro.

   Il centauro ora dorme. Dorme il suo corpo. Il sogno è venuto ed è passato; adesso il cavallo galoppa in un giorno antichissimo perché l’uomo possa vedere sfilare le montagne come se camminassero da sole, o perché possa salire per sentieri fino alla loro cima e da lì guardare il mare sonoro e le isole sparpagliate e nere, con la schiuma che frange intorno ad esse come se fossero appena sorte dalla profondità ed emergessero abbaglianti. Ma questo non è un sogno. Viene dal largo un odore salino. Le narici dell’uomo si dilatano e le braccia si tendono verso l’alto, mentre il cavallo eccitato scalpita con gli zoccoli. Le foglie che coprivano il viso dell’uomo sono scivolate via, ormai appassite, il sole alto ricopre il centauro di macchie di luce.

   Non è un viso vecchio, quello dell’uomo, ma neppure giovane, perché non potrebbe esserlo, visto che gli anni si contano a migliaia. Ma lo si può paragonare a quello di una statua antica: il tempo lo ha consumato, però non tanto da cancellarne i lineamenti, solo quanto basta per farli sentire in pericolo. Un piccolo lago luminoso scintilla sulla pelle, scivola lentamente verso la bocca, la riscalda. L’uomo apre gli occhi d’improvviso come farebbe la statua. Nell’erba si allontana sinuosamente un serpente. L’uomo porta la mano alla bocca e sente il sole. In quell’istante la coda del cavallo si agita, spazza la groppa e scaccia un moscone che sondava la pelle sottile della grande cicatrice. Rapidamente il cavallo si mette in piedi e l’uomo lo segue.

   E’ passata quasi metà del giorno, ne manca altrettanto perché arrivi la prima ombra della notte, ma non si può dormire oltre. Il mare che non era un sogno, risuona ancora nelle orecchie dell’uomo, o forse non il rumore reale del mare, ma il rifrangere delle onde che gli occhi hanno visto e hanno trasformato in onde sonore che si sovrappongono all’acqua, s’insinuano profondamente nelle gole rocciose, fino al sole e al cielo azzurro di nuovo trasformato in acqua. E’ vicino. Il canale in cui procede è opera di uomini, porta ovunque, un cammino per arrivare a loro. Ma punta a sud ed è questo che conta. Avanzerà in quella direzione fin dove gli sarà possibile, anche se è giorno e il sole splende sull’intera pianura, tradendo tutto, uomo e cavallo. Nel sogno ancora una volta, davanti agli dei immortali, aveva vinto Eracle; Zeus si era allontanato verso sud ed era sparito dopo che le montagne erano sfilate e dal loro punto più alto, su cui si ergevano colonne bianche, si vedevano le isole e la schiuma intorno. E’ vicino alla frontiera e Zeus si è allontanato verso sud. Procedendo lungo il canale stretto e profondo, l’uomo può vedere la campagna da un lato e dall’altro. Adesso le terre sembrano abbandonate. Lui non sa più dove sia finito l’abitato che aveva visto all’albeggiare. Il grande picco roccioso si è ingrandito, o forse avvicinato. Le zampe del cavallo sprofondano nel terreno molle che a poco a poco sta cominciando a salire. Tutto il busto dell’uomo è già fuori dal canale, gli alberi sono più radi, e d’improvviso, mentre tutta la campagna è allo scoperto, il canale finisce. Con un semplice movimento il cavallo supera l’ultimo declivio e il centauro appare tutto nel chiarore del giorno. Il sole si trova sulla destra e batte con forza sulla cicatrice che, ferita, arde. L’uomo guarda indietro come sua abitudine. L’atmosfera è soffocante e umida. Ma non perché il mare sia tanto vicino. L’umidità promette pioggia, come quest’improvviso soffio di vento. A nord, si stanno accumulando nuvole.

   L’uomo esita. Da tanti anni non osa camminare allo scoperto, senza la protezione della notte. Ma oggi si sente eccitato quanto il cavallo. Avanza sul terreno coperto di vegetazione da cui provengono odori penetranti di fiori selvatici. La pianura è finita e il suolo, adesso, fa delle piccole gobbe e limita l’orizzonte o lo allarga sempre di più, perché le alture sono già colline e davanti s’innalza una cortina di monti. Comincia a comparire qualche arbusto e il centauro si sente più protetto. Ha sete, molta sete, ma non v’è traccia d’acqua. L’uomo guarda indietro e vede che metà del cielo è già coperta di nuvole. Il sole illumina il bordo nitido di un grande nembo grigio che avanza.

   In quel momento si sente abbaiare un cane. Il cavallo freme innervosito. Il centauro si lancia al galoppo fra due colline, ma l’uomo non perde l’orientamento: prosegue verso sud. Il latrato si avvicina e vi si aggiunge un tintinnio di campanelle e poi una voce che parla al bestiame. Il centauro si è fermato per orientarsi, ma gli echi lo hanno ingannato e d’improvviso, in un avvallamento umido e inatteso, gli appare un gregge di capre e davanti, un grosso cane. Il centauro si blocca. Alcune delle cicatrici che gli segnano il corpo le deve ai cani. Il pastore lancia un grido spaventato e comincia a scappare come un folle. Chiamando e urlando: doveva esserci un abitato lì vicino. L’uomo dominò il cavallo e avanzò. Strappò un grosso ramo da un arbusto per scacciare il cane, che si strozzava ad abbaiare di rabbia e di paura. Ma prevalse la rabbia: il cane aggirò rapidamente alcuni sassi e tentò di prendere il centauro di fianco, al ventre. L’uomo voleva guardare indietro capire da dove provenisse il pericolo, ma il cavallo lo precedette e, ruotando veloce sulle zampe anteriori, sferrò un calcio violento che colpì il cane. L’animale andò a sbattere contro i sassi, morto. Non era la prima volta che il centauro si difendeva così, ma tutte le volte l’uomo si sentiva umiliato. Nel corpo gli pulsava la risacca della vibrazione di tutti i muscoli, l’onda di energia che deflagrava, udiva il sordo calpestio degli zoccoli, ma si trovava con le spalle rivolte alla battaglia, non ne prendeva parte, al massimo ne era spettatore.

   Il sole si era nascosto. Il calore scomparve improvvisamente dall’aria e l’umidità si fece palpabile. Il centauro cominciò a correre per le colline, sempre verso sud. Nell’attraversare un piccolo ruscello vide dei terreni coltivati e mentre cercava di orientarsi si ritrovò davanti un muro. Da un lato c’erano alcune case. Fu allora che si udì lo sparo. Come investito da uno sciame sentì il corpo del cavallo contrarsi sotto le punture. C’era gente che gridava e poi spari di nuovo. Sulla sinistra crepitarono i rami dilacerati, ma questa volta nessun piombino lo colpì. Indietreggiò per prendere la rincorsa e, d’un balzo oltrepassò il muro. Vi passò sopra volando, uomo e cavallo, centauro, quattro zampe distese o ripiegate, due braccia tese verso il cielo azzurro al di là. Risuonarono altri spari e poi lo scalpiccio degli uomini che lo inseguivano per i campi urlando, e l’abbaiare dei cani.

   Aveva il corpo coperto di schiuma e di sudore. Vi fu un momento in cui si fermò per cercare la strada. Anche la campagna intorno sembrò in attesa, quasi tendesse l’orecchio in ascolto. E caddero i primi goccioloni di pioggia. Ma l’inseguimento continuava. I cani fiutavano una traccia strana per loro, quella di un nemico mortale: un misto di uomo e cavallo dalle zampe assassine. Il centauro continuò a correre, finché si rese conto che le grida erano ormai diverse e l’abbaiare dei cani era ormai dovuto a frustrazione. Guardò indietro: a una buona distanza vide gli uomini fermi, udì le loro minacce. E i cani che li avevano preceduti tornarono dai loro padroni. Ma nessuno si faceva avanti. Il centauro aveva vissuto abbastanza tempo per sapere che quella era una frontiera, un limite. Gli uomini tenevano i cani, non osavano sparargli. Un solo colpo fu sparato, ma da così lontano che lui non udì neppure cadere la pallottola. Era in salvo, sotto la pioggia che si abbatteva torrenziale e creava tra i sassi rigagnoli veloci, su questa terra, dove era nato. Continuò a dirigersi verso sud. L’acqua gli inzuppava il pelo bianco, lavava la schiuma, il sangue e il sudore e tutta la sporcizia accumulata. Se ne tornava a casa invecchiato, coperto di cicatrici, ma immacolato.

   D’improvviso la pioggia cessò. Un attimo dopo il cielo fu spazzato delle nuvole e il sole risplendette sulla terra bagnata da cui, ardendo, faceva sollevare nuvole di vapore. Il centauro andava al passo, come procedendo su una neve imponderabile e tiepida. Non sapeva dove si trovasse il mare, ma lì c’era la montagna. Si sentiva forte. Aveva placato la sete con l’acqua della pioggia, sollevando il viso al cielo, a bocca aperta, bevendo a grandi sorsate, mentre l’acqua gli scivolava lungo il collo, giù per il busto, purificatrice. E adesso stava discendendo il versante sud della montagna, lentamente, aggirando gli enormi massi ammucchiati e puntellati gli uni contro gli altri. L’uomo appoggiava le mani sui picchi più alti e sentiva sotto le dita i soffici muschi, gli aspri licheni, o la rugosità eccessiva della pietra. In basso, da un capo all’altro, c’era una vallata che a quella distanza sembrava stretta, erroneamente. Nella vallata, a grandi intervalli, vedeva tre paesi, il più grande al centro, e al di là di esso, il sud. Tagliando la vallata a destra sarebbe dovuto passare vicino all’abitato. Lo avrebbe fatto? Ripensava all’inseguimento, alle urla, agli spari, a quegli uomini al di là del confine. A quell’odio incomprensibile. Questa era la sua terra, ma chi erano gli uomini che ci vivevano? Il centauro continuava a scendere. Il giorno era ancora lontano dal concludersi. Il cavallo, esausto, poggiava gli zoccoli con prudenza e l’uomo pensò che meglio avrebbe fatto a riposare, prima di avventurarsi nell’attraversamento della valle. E, continuando a pensare, decise che avrebbe atteso la notte, che prima avrebbe dormito in qualunque rifugio avesse trovato, per riprendere le forze necessarie alla lunga camminata che gli rimaneva fino a raggiungere il mare.

   Continuò a scendere, sempre più lentamente. E mentre si accingeva infine a fermarsi tra due rocce, vide l’ingresso oscuro di una caverna, alta abbastanza per entrarvi tutto, uomo e cavallo. Aiutandosi con le braccia, poggiando leggermente gli zoccoli graffiati sulle pietre durissime, s’introdusse nella grotta. Non era molto profonda, ma c’era abbastanza spazio per muoversi agevolmente. L’uomo appoggiò gli avambracci sulla parete rocciosa e vi lasciò ricadere la testa sopra. Respirava profondamente, cercando di resistere, di non seguire l’affannato respiro del cavallo. Il sudore gli scorreva sul viso. Poi il cavallo piegò le zampe anteriori e ricadde sul terreno coperto di sabbia. Sdraiato o semi sollevato, com’era sua abitudine, l’uomo non riusciva a scorgere niente della valle. L’imboccatura della grotta lasciava intravedere solo il cielo azzurro. In qualche punto, laggiù in fondo, gocciolava dell’acqua a lunghi intervalli regolari, producendo un’eco da cisterna. Una pace profonda saturava la grotta. Allungando un braccio all’indietro l’uomo passò una mano sul pelo del cavallo, la pelle che in lui si era trasformata. Il cavallo rabbrividì per la soddisfazione, tutti i suoi muscoli si rilassarono e il sonno invase il grande corpo. L’uomo abbandonò la mano, che scivolò giù e andò a posarsi sulla sabbia asciutta.

   Il sole, abbassandosi nel cielo, cominciò ad illuminare la grotta. Il centauro non sognò né Eracle né gli dei in circolo. E non si ripetè neppure la grande visione delle montagne rivolte al mare, le isole spumeggianti, l’infinita distesa liquida e sonora. Solo una parte scura, o forse soltanto priva di colore, opaca, insormontabile. Il sole, nel frattempo, entrò fino al fondo della caverna, fece scintillare tutti i cristalli della pietra, trasformò ogni goccia d’acqua in una perla rossa che si staccava dal soffitto, dopo essersi gonfiata fino all’inverosimile, tracciando poi tre metri di fuoco vivo, per sprofondare in un piccolo pozzo ormai scuro. Il centauro dormiva. L’azzurro del cielo cominciò a stemperarsi, lo spazio fu inondato da mille colori incandescenti e lentamente l’imbrunire trascinò con sé la notte, come un corpo stanco, anch’esso sul punto di addormentarsi. La grotta, nelle tenebre, era divenuta immensa e le gocce d’acqua cadevano come ciottoli rotondi sulla parete di una campana. Era ormai notte fonda e sorse la luna.

   L’uomo si svegliò. Provava una certa angoscia di non aver sognato. Per la prima volta, in migliaia di anni non aveva sognato. Forse il sogno lo abbandonava proprio mentre tornava alla terra in cui era nato? Perché? Quale presagio? Quale oracolo avrebbe parlato? Il cavallo, lontano, dormiva ancora, ma adesso inquieto. Di tanto in tanto agitava le zampe posteriori, quasi galoppasse in sogno, non un sogno proprio, perché lui non aveva un cervello suo, era solo in prestito, ma un sogno della volontà appartenente ai muscoli. Appoggiando la mano a una pietra sporgente, aiutandosi così, l’uomo sollevò il busto e, come in uno stato di sonnambulismo, il cavallo lo seguì senza sforzo, con un movimento fluido che sembrava non avere peso. E il centauro uscì fuori nella notte.


Image by Luca Gino


   Tutto il chiarore dello spazio si diffondeva sulla valle. Così tanto, che non poteva essere solo il chiarore della semplice piccola luna della terra – Selene – silenziosa e fantastica, ma doveva essere quello di tutte le lune sorte nell’infinita successione delle notti, in cui altri soli e altre terre senza nome ruotano e brillano. Il centauro tirò un respiro profondo con le narici d’uomo: l’aria era tiepida, quasi fosse filtrata da una pelle umana ed era impregnata del profumo della terra bagnata che si andava asciugando, nel labirintico abbraccio delle radici che trattengono il mondo. Scese a valle per un cammino facile, quasi tranquillo, muovendosi sinuosamente sulle sue quattro membra di cavallo, oscillando le sue due braccia d’uomo, passo dopo passo, senza che una sola pietra rotolasse giù, senza che alcuno spigolo gli procurasse un nuovo graffio sulla pelle. E fu così che giunse a valle come se il viaggio facesse parte del sogno che non aveva fatto dormendo. Più avanti c’era un largo fiume. Al di là, sulla sinistra, il paese più grande, quello che si trovava in direzione sud. Il centauro avanzò allo scoperto, seguito dalla sua ombra singolare che non aveva pari al mondo. Al piccolo trotto attraversò i campi coltivati, scegliendo i sentieri per non calpestare le piante. Tra la fascia di terre coltivate e il fiume c’erano alberi qua e là e tracce di bestiame. Sentendone l’odore il cavallo si agitò, ma il centauro tirò avanti, in direzione del fiume. Entrò prudentemente in acqua, saggiando il terreno con gli zoccoli. La profondità iniziò ad aumentare finché l’acqua arrivò al petto dell’uomo. In mezzo al fiume, sotto il chiaro di luna somigliante ad un altro fiume in corsa, chiunque stesse guardando avrebbe visto un uomo attraversare il fiume a guado, con le braccia alzate: braccia, spalle e testa d’uomo, capelli al posto dei crini, mentre sott’acqua avanzava il cavallo. I pesci, risvegliati dal chiaro di luna, nuotavano intorno, mordicchiandogli le zampe. Tutto il busto dell’uomo uscì dall’acqua, poi comparve il cavallo, e il centauro risalì sulla riva. Passò sotto alcuni alberi e al limitare della pianura si fermò per orientarsi. Pensò a come lo avevano inseguito al di là della montagna, pensò ai cani e agli spari, agli uomini che gridavano, ed ebbe paura. Adesso avrebbe preferito che la notte fosse scura, avrebbe voluto procedere sotto una tempesta come quella del giorno innanzi, che invogliasse i cani a cercarsi un rifugio e le persone a rientrare nelle case. Pensò che tutta la gente dei dintorni dovesse ormai sapere dell’esistenza del centauro, che la notizia avesse oltrepassato i confini. Si rese conto che non avrebbe mai potuto attraversare la campagna in linea retta, con quella luce. Iniziò a procedere al passo lungo il corso d’acqua, protetto dall’ombra degli alberi. Forse il terreno sarebbe diventato favorevole più avanti, dove la valle si restringeva e finiva per insinuarsi tra due alte colline. Continuava a pensare al mare, alle colonne bianche, chiudeva gli occhi e rivedeva l’orma di Zeus allontanarsi verso sud.

   Improvvisamente udì un rumore di acqua. Il rumore si ripeteva, scemava e ritornava. Sul suolo ricoperto di erbacce, i passi del cavallo risuonavano così attutiti da non distinguersi tra il multiforme crepitio della notte. L’uomo scostò i rami e guardò il fiume. Sulla riva c’erano dei vestiti, qualcuno stava facendo il bagno. Allontanò di più i rami e vide una donna. Stava uscendo dall’acqua, completamente nuda, brillava imbiancata al chiaro di luna. Il centauro aveva visto altre donne tante volte, ma così mai, in quel fiume, con quella luna. Altre volte aveva visto seni ondeggianti, il tremore delle cosce nel cammino, il punto oscuro alla metà del corpo. Altre volte aveva visto capelli sciolti sulle spalle e mani che li sospingevano indietro con un gesto antichissimo. Ma la parte che gli toccava del mondo in cui vivevano le donne era solo quella che avrebbe soddisfatto il cavallo, forse il centauro. Non certo l’uomo. E fu l’uomo a guardare, a vedere la donna avvicinarsi ai vestiti, fu l’uomo a precipitarsi fuori dagli arbusti, a correre verso di lei col suo trotto da cavallo e poi, mentre lei gridava, a prenderla fra le braccia.

   Anche questo aveva fatto altre volte, davvero poche in migliaia d’anni. Un gesto inutile, che spaventava e basta, un gesto che avrebbe potuto lasciare dietro di sé la follia, e forse era già successo per davvero. Ma quella era la sua terra e quella era la prima donna che vedeva lì. Il centauro cominciò a correre fra gli alberi. Sapeva che più avanti avrebbe di nuovo posato a terra la donna, frustrato lui, spaventata lei: una donna intera e un uomo a metà. Adesso, una larga strada quasi sfiorava gli alberi e, più oltre, il fiume formava un’ansa. La donna non stava più urlando, singhiozzava e tremava.


Enrico Fraschetti - il centauro
(diritti riservati)

   Fu allora che si udirono altre grida. Superata la curva, l’uomo si trovò di fronte un piccolo agglomerato di casette nascoste fra gli alberi. C’era gente nel piccolo spazio lì davanti. L’uomo strinse la donna al petto. Ne sentiva i seni duri, il pube nel punto in cui il suo corpo d’uomo si concludeva trasformandosi in pettorale di cavallo. Alcuni fuggirono, altri gli si scagliarono contro e altri si precipitarono in casa uscendone poco dopo armati di fucile. Il cavallo si alzò sulle zampe posteriori, impennandosi verso l’alto. La donna, spaventata, gridò di nuovo. Qualcuno sparò un colpo in aria. L’uomo capì che il corpo della donna lo proteggeva. Allora il centauro deviò verso l’aperta campagna, allontanandosi dagli alberi che avrebbero potuto ostacolargli i movimenti e, sempre stringendo la donna a sè, aggirò le case e si lanciò al galoppo verso le due colline. Sentiva le grida dietro di lui. Forse stavano pensando di inseguirlo a cavallo, ma non c’era cavallo che potesse competere con un centauro, come era stato dimostrato in migliaia di anni di fuga continua. L’uomo guardò indietro: gli inseguitori erano lontani, molto lontani. Allora, tenendo la donna sotto le braccia, osservandone il corpo che la luna spogliava, disse nella sua antica lingua, la lingua dei boschi, dei favi di miele, delle colonne bianche, del mare sonoro, delle montagne ridenti:
- Non volermi male.
Quindi, lentamente la rimise a terra. Ma la donna non fuggì via.
Le uscirono dalle labbra parole che l’uomo riuscì a capire:                                                   
- Tu sei un centauro. Tu esisti.
Gli posò entrambe le mani sul petto. Le zampe del cavallo tremavano. Allora la donna si sdraiò e disse:
- Coprimi.
L’uomo la guardava dall’alto, aperta a croce. Avanzò lentamente. Per un istante l’ombra del cavallo coprì la donna. Nient’altro. Poi il centauro si allontanò e si lanciò al galoppo, mentre l’uomo gridava, mostrando i pugni al cielo e alla luna. Quando infine gli inseguitori si avvicinarono alla donna, lei non si era mossa. E mentre la portavano via, avvolta in una coperta, quelli che la trasportavano la udirono piangere.

   Quella notte tutto il paese seppe dell’esistenza del centauro. Ciò che un tempo si credeva una storia inventata al di là della frontiera, adesso aveva testimoni affidabili, tra i quali quella donna che tremava e piangeva. Mentre il centauro stava attraversando un’alta montagna, partiva gente dai paesi e dalle città, con reti e corde e persino armi da fuoco, ma solo per spaventarlo. Bisognava catturarlo vivo, si diceva. Si mosse anche l’esercito. Si aspettava il nascere del giorno perché gli elicotteri si alzassero in volo e perlustrassero tutta la zona. Il centauro cercava i sentieri più nascosti, ma tante volte udì i cani abbaiare, e addirittura vide, sotto il chiaro di luna che andava scemando, gruppi di uomini che battevano le montagne. Il centauro viaggiò tutta la notte, sempre diretto a sud. E quando il sole sorse, si trovava sopra un monte da dove vide il mare. Molto in lontananza, solo mare, nessuna isola, e il suono di una brezza che profumava di pini, non il rifrangere dell’onda, né il profumo angosciante del sale. Il mondo sembrava un deserto sospeso.

   Non era un deserto. Si udì all’improvviso uno sparo. E poi, in ampio circolo, comparvero dalle rocce uomini che urlavano, ma non riuscivano a mascherare la loro paura, e tutti avanzavano con reti e corde e bastoni. Il cavallo s’impennò verso il vuoto, agitò le zampe anteriori e si voltò indiavolato verso gli avversari. L’uomo invece voleva indietreggiare. I due lottarono, avanti, indietro. E sul ciglio della scarpata le zampe scivolarono, si agitarono frenetiche alla ricerca di un appoggio, così come le braccia dell’uomo, ma il grande corpo precipitò, cadendo nel vuoto.

   Venti metri più sotto, una lastra di pietra inclinata in un’opportuna angolazione, levigata da migliaia di anni di freddo e di caldo, di sole e di pioggia, di vento e di neve, tagliò, spezzò in due il corpo del centauro nel punto preciso in cui il busto dell’uomo si trasformava in tronco di cavallo. Lì si concluse la caduta.

L’uomo rimase sdraiato, finalmente di spalle, a guardare il cielo: un mare che diveniva profondo sopra i suoi occhi, punteggiato di piccole nuvole immobili, che erano isole, vita immortale. L’uomo volse il capo da un lato all’altro: di nuovo il mare infinito, il cielo interminabile.
Allora guardò il proprio corpo, il sangue scorreva.
Metà di un uomo. Ma un uomo. E vide gli dei avvicinarsi. Era tempo di morire.

Josè Saramago 1984 - Centauro
Objecto Quase - Oggetto Quasi
Einaudi






NB - Nella trascrizione del racconto CENTAURO
 sono state apportate alcune modifiche 
al testo italiano,curato dalla bravissima Rita Desti,
traduttrice ufficiale di Josè Saramago.
mca
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