Qui non mi trovate,
io qui non ci sono.
Sto nella stanza accanto
dove non c'è nessuno.

8.5.11

Staufen & Altavilla - Melfi


Castello Svevo Angioino - Lucera


Uno splendido palazzo fu eretto dall’imperatore svevo Federico II del Sacro Romano Impero nel 1233, a Lucera, su di un colle ove i Romani avevano costruito la loro acropoli in posizione tale da assicurare un'ottima difesa. Il palazzo sorse sulle fondamenta di una diroccata cattedrale romanica e, dal punto di vista architettonico, si presentava come un maestoso torrione con una base quadrangolare (ancora visibile), a tre piani, con la parte esterna al cortile e la parte interna del terzo piano dalla forma ottagonale.
La costruzione  fu ordinata da Federico II in seguito alla sua decisione di condurre nella città di Lucera i ribelli saraceni della Sicilia, tentando in questo modo di pacificare la situazione.
 
Della fortezza  sorta nel territorio dell'odierno omonimo comune della provincia di Foggia, attualmente sono rimasti soltanto i ruderi e la cinta muraria.
Il materiale di costruzione fu principalmente acquisito dai resti delle costruzioni romane ancora presenti nella zona.
Le mura furono aggiunte successivamente (tra il 1269 e il 1283) da Carlo I d'Angiò. Questa aggiunta fu resa necessaria per il diverso utilizzo che quest'ultimo voleva fare della struttura: da palazzo imperiale, come era nelle intenzioni iniziali, a castello fortificato, sede permanente di un presidio militare.
Il complesso fu fortemente danneggiato da un terremoto che colpì la zona nel 1456, e fu quasi completamente demolito nel XVIII secolo per utilizzarne il materiale di risulta per la costruzione dell'attuale tribunale.

La base quadrangolare, il basamento troncopiramidale, tuttora visibile, risulta dai progetti posteriori dei Francesi. Il castello svevo, del quale ci resta soltanto qualche frammento interrato, si trovava dentro questo torrione, fu dall'esteriore un complesso quadrato che si innalzava per tre piani. Il castello si sviluppava attorno ad un cortile centrale quadrato. Il cortile al livello del terzo piano si presentava invece con una forma ottagonale, caratteristica che ricorda molto da vicino la più famosa struttura fatta erigere da Federico II nella zona di Castel del Monte.

Il castello svevo aveva un ingresso normale al livello pianoterra. Il basamento circondante di successiva costruzione francese invece non presenta accessi al livello della strada, per cui ci si è posti il dilemma di come fosse possibile l'ingresso. È stato supposto che l'entrata fosse resa possibile dalla presenza di scale calate dall'alto, mentre un'ipotesi più suggestiva (avvalorata dal ritrovamento di gallerie sotterranee nei pressi dell'edificio) propone come via di accesso un ingresso sotterraneo.



(disegno dell’elevazione del castello eseguito da C. A. Willemsen): queste caratteristiche fanno intravedere analogie con quelle di Castel del Monte. I tre piani contenevano 32 vani che ospitavano la corte e gli appartamenti imperiali. Nei sotterranei erano site le camerate per le guarnigioni.






Una loggia ad archetti ciechi circondava il cortile a metà altezza, aperture romboidali e circolari si alternavano alle finestre a sesto acuto, una cisterna profonda 14 metri garantiva la riserva idrica, uno zoccolo quadrato, lungo 43 metri e doppio tre e mezzo, sopraelevava la galleria, nove feritoie per lato davano al palazzo l’aspetto di un bunker.

 
L'assenza di un portone, comunque, è significativa dell'importanza strategica del castello, che in questo modo risultava più difficile da espugnare.
Una cisterna circolare posta sotto il cortile e profonda 14 metri garantiva la riserva idrica al castello.



Veduta aerea del Castello Svevo Angioino di Lucera. All'interno quello che resta del palazzo imperiale di Lucera a base quadrangolare. Esternamente le mura di cinta con torri erette da Carlo I D'Angiò.
In quel periodo un nutrito numero di Saraceni che si erano ribellati in Sicilia fu trasferito a Lucera. Divennero guerrieri affidabili e abili artigiani, ebbero la possibilità di conservare le loro usanze e la loro religione. Lucera in arabo divenne " Lugerash ", in essa fu edificata una vera e propria moschea e ciò irritò notevolmente il clero. I Saraceni, negli anni successivi alla morte di Federico II, furono sterminati e la moschea fu distrutta dagli Angiò, che nello stesso posto eressero una nuova Cattedrale dedicata a Santa Maria.

La cinta muraria irregolare che cinge l'intera collina su cui sorge il castello è lunga 900 metri, e si compone anche di 13 torri quadrate, 2 bastioni pentagonali, 7 contrafforti e 2 torri cilindriche angolari. Quest'ultimi - con abbozze regolare di grande precisione - facevano con ogni certezza parte del progetto federiciano per Lucera. Anche l'accesso - col ponte sopra il grande scavo - fa pensare a castelli nella patria sveva dell'Imperatore, come per esempio il castello di Wildenstein, che ha un'entrata simile.
 

 










Esempio di ceramica invetriata realizzata da maestranze saracene presenti a Lucera in epoca sveva.


Museo civico Fiorelli di Lucera.



 



« Melfi nobile città dell'Apulia, circonvallata da mura di pietra, celebre per salubrità dell'aria, per affluenza di popolazioni, per fertilità dei suoi campi, ha un castello costruito su di una rupe ripidissima, opera mirabile dei Normanni »

(Federico II, Imperatore del Sacro Romano Impero)

 Abbiamo già parlato del ruolo che ebbe il castello di Melfi per Federico II, ma per inquadrare meglio l'importanza strategica di questa dimora, dobbiamo fare un piccolo salto indietro di 150 anni. L'origine del castello di Melfi risale infatti alla fine dell' XI secolo ad opera dei Normanni. 
La città di Melfi passava un periodo fulgido della storia in quell'epoca  e la struttura contò numerosi avvenimenti "storici" durante l'era normanna, tra cui almeno cinque concili ecumenici tenuti da papi diversi.
Sorto in una posizione  che fungeva da punto di passaggio tra Campania e Puglia, il suo collocamento era ideale per la difesa dagli attacchi esterni e come rifugio per gli alleati.
Considerando che il divorzio ancora non era stato legittimato nè redatto ancora alcun diritto di famiglia, fin dai primi tempi il castello di Menfi venne anche eletto esilio ufficiale per le mogli  dei principi e dei sovrani declassate o in crisi  Questa funzione fu  inaugurata proprio da Roberto d'Altavilla, detto  il Guiscardo, che vi spedì la moglie Aberalda, ripudiata per potersi congiungere in santa pace  con Sichelgaita di Salerno, principessa longobarda, donna di grande cultura e carattere, che seppe affermare la propria personalità a corte ed esercitare una notevole influenza sull'energico marito, accompagnandolo spesso anche nei suoi viaggi di conquista.

Il Papa Niccolò II, durante il primo
Concilio di Melfi, nomina
Roberto il Guiscardo
Duca di Puglia e Calabria.

La principessa si recò nella capitale Melfi e, nell’estate del 1059, riservò al pontefice Niccolò II un'accoglienza maestosa. Organizzò lei stessa il Concilio e preparò lo svolgimento degli incontri che portarono al Trattato di Melfi ed al Concordato di Melfi con i quali il papa riconobbe come vassalli i fratelli Roberto e Ruggero I d'Altavilla, un’investitura rivoluzionaria, perché allora solo l'Imperatore disponeva di tali titoli. Le trame degli accordi vennero tessute con tale abilità e soddisfazione da parte di tutti che Niccolò II tolse subito la scomunica al Guiscardo, ricevendolo come un suo fidelem e benedicendolo insieme alla consorte Sichelgaita.
In cambio il Pontefice ottenne  la sottomissione, l'appoggio politico e l'impegno dei capi normanni a rispettare  e sostenere con le armi la Chiesa, proteggendola dalle interferenze dell’Impero di Germania.
I sovrani si obbligavano anche a versare alla Santa Sede un tributo annuo di dodici soldi di Pavia per ogni coppia di buoi esistente nei propri domini e per ogni iugero di terra ecclesiastica di propria pertinenza.
I nobili normanni si impegnavano a fornire truppe al Pontefice giurando su Dio e sul Vangelo che sarebbero stati alleati del Papa contro qualsiasi avversario; si impegnavano altresì a non avanzare in guerra senza previa autorizzazione del Capo della Chiesa.
Il  Concordato legittimava quindi le posizioni normanne e il loro dominio sulle terre assoggettate, concedendo l'investitura anche per quei territori della penisola ancora in mano ai Bizantini, ai Longobardi ed ai Musulmani. 


 
Con la venuta degli Svevi, Federico II scelse il castello di Melfi come simbolo del potere imperiale e della ricchezza culturale e ne apportò ampliamenti e restauri. Nel 1231, il maniero fu il luogo di promulgazione delle Costituzioni di Melfi, codice legislativo del Regno di Sicilia, alla cui stesura parteciparono lo stesso Federico II assieme  il suo fidato notaio Pier delle Vigne e al filosofo e matematico Michele Scoto. La struttura fu anche deposito delle tasse riscosse in Basilicata, nonchè prigione, ove tra i vari detenuti ci fu anche il saraceno Othman di Lucera, uscito in seguito su cauzione in cambio di 50 once d'oro. Nel 1232, Federico II ospitò al castello il marchese di Monferrato e la nipote Bianca Lancia, che poi divenne sua moglie e da cui ebbe il figlio Manfredi.  E fu a Melfi che si compì parte della triste storia degli eredi dell’imperatore Federico, nei pochi anni di sopravvivenza della dinastia degli Hohenstaufen.


Gravando con la sua mole sul borgo sottostante, il castello costituiva un efficace strumento di costrizione, anche psicologica, sulla popolazione locale, rimarcando nettamente l’opposizione rispetto al restante nucleo urbano, a sua volta imperniato sulla cattedrale, emblema del potere ecclesiastico.
Dal lato settentrionale, la sua massa scura costituita dalla pietra vulcanica della zona emana un forte senso di inviolabilità; il castello si presenta come un’immensa e possente città bastionata e turrita, frutto di secolari stratificazioni che hanno trasformato il suo primitivo impianto normanno – a pianta rettangolare munita agli angoli di quattro torrioni quadrati – in un imponente sistema difensivo, composto da uno spalto, da un fossato su tre lati e da una cinta fortificata da dieci torri quadrangolari e poligonali.
Con la decaduta degli Svevi e l’arrivo dei nuovi dominatori angioini, il castello subì massicci ampliamenti e restauri, oltre ad essere eletto da Carlo II d’Angiò residenza ufficiale di sua moglie Maria d’Ungheria. Fu ancora soggetto a modifiche nel cinquecento sotto il governo aragonese e divenne proprietà prima degli Acciaiuoli, poi dei Marzano e dei Caracciolo ed infine dei Doria nel 1531, quando  l’imperatore Carlo V donò il feudo di Melfi ad Andrea Doria come ricompensa dei servigi prestati in suo favore. Essi ne trasformarono il corpo centrale per renderlo una residenza signorile. 
Dal 1954 il castello è passato allo Stato italiano.


 




*

Intorno alla metà dell’ottocento in una villa romana situata lungo la via Appia, in località Albero in piano, poco distante da Melfi,  fu ritrovato il famoso Sarcofago di Rapolla, realizzato in marmo e databile al II secolo d.C.
L'opera rappresenta due diverse scuole di scultura: il coperchio è romano e forse lavorato a Venosa, la cassa è invece di provenien­za greca. Sul letto-coperchio della tomba si adagia il flessuoso corpo di una giovane di ceto elevato, dai bellissimi lineamenti, col viso rivolto verso terra. La postura della fanciulla fa ricordare la tomba rinascimentale di Ilaria del Carretto di Andrea del Castagno





Sulle lastre del sarcofago, dei ed eroi romani sono racchiusi in nicchie con colonne tortili e capitelli, a testimoniare l’appartenenza della defunta ad un’importante famiglia aristocratica. Ai piedi della nobildonna era in origine accovacciato un cagnolino, ora non più conservato.
Oggi il Sarcofago è conservato nella Torre dell’Orologio del Castello di Melfi.

Fonti di documentazione:
Alberto Gentile Copyright ©2002
Stefania Mola , da http://www.stupormundi.it/
Regione Basilicata
Wikipedia
(mca ringrazia)

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