Qui non mi trovate,
io qui non ci sono.
Sto nella stanza accanto
dove non c'è nessuno.

26.8.11

E' difficile essere semplici

 "È difficile essere semplici. Arrivo a sottoporre un racconto anche a quindici revisioni. A ogni revisione il racconto cambia. Ma non c'è nulla di automatico; si tratta piuttosto di un processo. Scrivere è un continuo processo di rivelazione.
La lingua dei miei racconti è quella di cui la gente fa comunemente uso, ma al tempo stesso essendo una prosa, va sottoposta a un duro lavoro prima di risultare trasparente, cristallina. "

Carver, percorrendo il suo itinerario di scrittore, si avvicinò al mondo della short story con un suo personale percorso, senza rifarsi a schemi letterari precedenti o a categorie definite.
Non volle mai essere accomunato agli scrittori postmoderni e si difese con forza sentendo che autori più giovani erano considerati seguaci del suo modello di scrittura, definito minimalista, perché egli non si considerava affatto minimalista: egli procedette secondo la teoria dell'omissione che esclude tutto quello che non è fondamentale enunciare.



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Carver è nato nel 1938 ed è morto a soli cinquant’anni nell’88
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Con pochi libri, una dozzina in tutto, Raymond Carver è diventato uno dei punti  di maggior riferimento per gli aspiranti scrittori di short stories, ma pure lui non era nato imparato.
Dopo aver frequentato una scuola di scrittura ad un corso tenuto nientemeno che da John Gardner,
cominciò ad inviare poesie e racconti alle riviste, con poca speranza e grande emozione.
Finchè un giorno due di esse gli pubblicarono in simultanea i primi testi.

Da lì, in poco più di dieci anni,nacque e si concluse una carriera che si riassume nei titoli dei suoi libri più celebri,  libri ormai tradotti in tutto il mondo, amati già da più di una generazione, e che fanno parte della storia della letteratura:

Vuoi star zitta per favore?
Di cosa parliamo quando parliamo d’amore
Cattedrale
Voi non sapete che cos’è l’amore
Da dove sto chiamando
Il nuovo sentiero per la cascata
Racconti in forma di poesia


Tanto tempo fa, era l’estate del 1958, mia moglie, io e i nostri due bambini ci trasferimmo dallo stato di Washington  in un paese appena fuori Chico, California. Lì trovammo una vecchia casa in affitto a venticinque dollari al mese. Per pagarmi questo trasloco, dovetti farmi prestare centoventicinque dollari da un farmacista per cui avevo fatto le consegne, un uomo di nome Bill Barton.
Questo tanto per dire che a quei tempi mia moglie e io eravamo sempre al verde. Eravamo costretti a raggranellare quel tanto che basta per sopravvivere, ma l’idea era che io avrei seguito dei corsi in quello che allora si chiamava Chico State College.  Per quanto indietro vada con la memoria, ancor prima di trasferirci in California in cerca di una vita diversa e della nostra fetta di torta americana, ricordo che avevo sempre voluto diventare uno scrittore. Avevo una gran voglia di scrivere, di scrivere qualsiasi cosa – narrativa, certo, ma anche poesie, drammi, sceneggiature, articoli per riviste e perfino pezzi per il giornale locale – qualsiasi cosa che comportasse mettere insieme delle parole per fare qualcosa di coerente e potesse interessare qualcun altro oltre me. Ma all’epoca del nostro trasferimento, qualcosa nelle ossa mi diceva che dovevo farmi un po’ di cultura prima di andare avanti e diventare uno scrittore. Allora attribuivo grandissima importanza allo studio – molto maggiore di quella che gli attribuisco adesso, ne sono sicuro, ma è perché ormai sono cresciuto e bene o male ho studiato.. dovete capire che nessun membro della mia famiglia, prima di allora era mai andato all’università, anzi nessuno era mai andato oltre le otto classi dell’obbligo. Non sapevo niente, ma almeno sapevo di non sapere niente.
Così, assieme a questo desiderio di farmi una cultura, avevo un altrettanto forte desiderio di scrivere; era un desiderio talmente forte che, grazie all’incoraggiamento che ricevetti all’università e alle cose che vi imparai, continuai a scrivere anche dopo che il buon senso e i freddi fatti – la dura realtà della mia vita – mi avevano consigliato ripetutamente che avrei affatto meglio a lasciar perdere, a smetterla di sognare, a rassegnarmi e a tirare avanti facendo qualcos’altro.

Quell’autunno, al Chico State, frequentai i corsi che la maggior parte delle matricole dovevano seguire, ma mi iscrissi anche a un corso chiamato scrittura creativa 101. Questo corso era tenuto da un certo prof. John Gardner, un insegnante appena arrivato, ma già circondato da un alone romantico e misterioso. Si diceva che avesse insegnato in precedenza all’Oberlin College e che se ne fosse andato per qualche ragione che non fu mai chiarita. Uno studente sosteneva che era stato licenziato – gli studenti, come tutti, sguazzano nei pettegolezzi e nei misteri – mentre un altro diceva che Gardner se n’era semplicemente andato dopo un grosso litigio. Qualcun altro affermava che il carico didattico a Oberlin, quattro o cinque corsi introduttivi di letteratura inglese ogni semestre, era troppo pesante per lui e non gli lasciava tempo per scrivere. Si diceva infatti che Gardner fosse uno scrittore vero, cioè praticante – uno che aveva scritto romanzi e racconti. Comunque sia, quell’anno insegnava SC 101 al Chico State e io mi iscrissi al suo corso.
Il fatto di seguire un corso tenuto da un vero scrittore mi emozionava. Non avevo mai visto uno scrittore in carne e ossa prima di allora e mi sentivo quindi in soggezione. Tuttavia mi sarebbe piaciuto vedere dov’erano questi romanzi e racconti. Bé, non erano ancora stati pubblicati.  Si diceva che non fosse mai riuscito a farsi pubblicare niente e che si portasse sempre dietro delle scatole con dentro le sue opere. Dopo che divenni suo allievo, le vidi davvero quelle scatole piene di manoscritti.
Gardner si era reso conto della mia difficoltà a trovare un posto per lavorare. Sapeva che avevo una famiglia con bambini e poco spazio a disposizione in casa. Mi offrì la chiave del suo ufficio. A tutt’oggi considero quell’offerta come una svolta cruciale nella mia carriera. Non era un’offerta fatta a caso e io l’accettai, penso, come una specie di mandato – perché proprio di quello si trattava. Passavo gran parte dei sabati e delle domeniche nel suo ufficio, dove teneva le famose scatole. Erano ammucchiate sul pavimento vicino alla scrivania. Nickel Mountain scritto a pennarello su una delle scatole, è il solo titolo che ora mi ricordo. Ma fu proprio in quell’ufficio, con le scatole dei suoi libri non pubblicati sott’occhio, che intrapresi i miei primi tentativi di scrivere



Quando incontrai Gardner la prima volta, era seduto dietro il tavolo dove ci si iscriveva ai corsi, nella palestra delle donne.  Firmai il registro del corso e lui mi diede un foglio col programma. Il suo aspetto non si avvicinava nemmeno un po’ a quello che mi ero immaginato dovesse essere l’aspetto di uno scrittore. A dire la verità a quei tempi sembrava più un pastore presbiteriano o un agente dell’FBI. Vestiva sempre un completo nero con la camicia bianca e la cravatta. E aveva i capelli tagliati a spazzola (la maggior parte dei giovanotti della mia età portava allora una pettinatura chiamata “alla DA” che erano le iniziali di Duck e Ass ovvero culo d’anatra, con i capelli cioè pettinati indietro lungo i lati fino alla nuca, appiccicati con la brillantina). John Gardner aveva insomma un aspetto molto convenzionale e, come se non bastasse, andava in giro con una Chevrolet nera a quattro porte, con le gomme tutte nere; una macchina così priva di fronzoli che non aveva neanche l’autoradio. Dopo averlo conosciuto meglio, aver avuto la chiave e aver cominciato a usare regolarmente il suo ufficio per lavorare, la domenica mattina la passavo seduto alla sua scrivania, pestando sui tasti della sua macchina da scrivere. Però tenevo anche d’occhio la strada, aspettando che, come tutte le domeniche, arrivasse con la sua auto e la parcheggiasse proprio lì davanti. Allora Gardner e la sua prima moglie Joan, scendevano e, vestiti di tutto punto nei loro abiti austeri, s’incamminavano lungo il marciapiede fino a raggiungere la chiesa dove andavano ad assistere alla funzione. Un’ora e mezza dopo aspettavo che uscissero e percorressero in senso contrario il marciapiede fino al parcheggio, dove montavano in macchina e tornavano a casa.
Gardner aveva sì i capelli a spazzola, vestiva come un pastore protestante o un agente dell’FBI e andava in chiesa tutte le domeniche, però per tanti altri versi era un anticonformista. Aveva cominciato a trasgredire le regole fin dal primo giorno in aula; era un fumatore accanito e anche in classe fumava continuamente, usando come portacenere un cestino della cartastraccia di latta. A quei tempi nessuno fumava in classe. Quando un altro professore che usava la stessa aula si lamentò per questo fatto, Gardner non fece altro che farci notare la meschinità e la ristrettezza mentale del collega, aprì le finestre e continuò tranquillamente a fumare.
Il primo giorno di lezione ci fece uscire disciplinatamente e sedere sul prato. Eravamo sei o sette, ricordo. Girava fra noi, chiedendoci di fargli i nomi degli autori che ci piaceva leggere. Non ricordo nessuno dei nomi che facemmo, ma non dovevano essere i nomi giusti. Ci annunciò che nessuno di noi aveva quel che ci voleva per diventare un vero scrittore, dato che gli era chiaro che nessuno di noi aveva l’indispensabile fuoco. Disse però che avrebbe fatto quanto poteva per noi, anche se era ovvio che non si aspettava grandi risultati. Ma c’era un’altra cosa: stavamo per partire per un viaggio e avremmo fatto meglio a tenere il cappello ben stretto.

Ricordo che disse che scrittori si nasce. Allora ero influenzabile, suppongo di esserlo ancora, ed ero terribilmente impressionato da ogni cosa che lui dicesse o facesse. Prese uno dei miei primi tentativi di racconto e lo esaminò insieme a me. Ricordo che era molto paziente, voleva che capissi ciò che cercava di mostrarmi, dicendomi e ripetendolo, quanto fosse importante avere le parole giuste per dire quello che volevo. E continuava a battere sull’importanza dell’uso del linguaggio comune, il linguaggio della conversazione normale, quello che si parla tra noi. Anche se quando ci rincontrammo tanti anni dopo lui disse che probabilmente tutto quello che mi aveva detto ai tempi era sbagliato,  quel che so è che i consigli che mi dava allora erano proprio ciò di cui avevo bisogno. Era un maestro splendido. Era una gran cosa che mi era capitata quella di avere qualcuno che mi prendesse abbastanza sul serio da sedersi e esaminare un manoscritto insieme a me.  Sapeva che qualcosa di cruciale mi stava accadendo. Mi aiutò a capire quanto fosse importante dire esattamente quel che volevo dire e niente di più, non usare parole letterarie o un linguaggio pseudo-poetico. Cercò di spiegarmi la differenza che c’è, ad esempio, tra il dire - l’allodola vola sul prato - e - sul prato l’allodola vola -. C’è un suono e un senso diverso, no? Mi mostrò come dire ciò che volevo dire usando il minimo numero di parole per farlo. Mi fece capire che tutto, assolutamente tutto ha importanza in un racconto. E’ importante sapere dove mettere le virgole e i punti.

Per questo e per altro, perché mi diede la chiave del suo ufficio in modo che potessi avere un posto per scrivere nei fine settimana, per aver sopportato la mia sfacciataggine e la mia generale mancanza di senso, gli sarò sempre grato. Lui è stato un influsso.

Agli aspiranti scrittori di racconti che frequentavano il suo corso, Gardner richiedeva un racconto tra le dieci e le quindici cartelle. Chi voleva invece scrivere un romanzo – mi pare ci fossero anche due o tre anime con questa ambizione,  doveva sottoporgli un capitolo di circa venti pagine,più uno schema del resto della trama. Il bello era che sia il racconto che il capitolo del romanzo, potevano essere riscritti anche dieci volte nel corso del semestre prima che Gardner ne fosse soddisfatto. Uno dei suoi principi fondamentale era che uno scrittore scopre quello che vuole dire mediante un continuo processo consistente nel vedere quello che ha già detto. E questa visione, questo processo di messa a fuoco della visione, si otteneva mediante la revisione. Gardner credeva profondamente nell’efficacia della revisione, nella revisione senza fine; era una cosa che gli stava molto a cuore e che, ne era convinto, era importantissima per gli scrittori, in qualsiasi fase di sviluppo si trovassero. Non sembrava mai perdere la pazienza nel rileggere un racconto di un suo allievo, anche se l’aveva già visto in cinque stesure precedenti.
Credo proprio che il concetto di racconto che egli aveva sviluppato nel 1958 fosse rimasto inalterato fino al 1982: per lui il racconto è qualcosa in cui si possono distinguere un inizio, un centro e una fine. Ogni tanto andava alla lavagna e disegnava un grafico per illustrare qualcosa che voleva dimostrare sulla crescita o il calo di emozioni nel corso di un racconto – picchi, valli, altopiani, risoluzioni, dénoument eccetera. Per quanto cercassi di sforzarmi, questa roba che disegnava alla lavagna era una faccenda per cui non riuscii mai a provare un grande interesse, e neanche la capii mai a fondo, a dire la verità quello che capivo bene era il modo con cui commentava in classe il racconto scritto da uno studente. Gardner si chiedeva ad alta voce come mai, per esempio,  l’autore aveva voluto scrivere un racconto che parlava di uno storpio omettendo fino alla fine di informare il lettore sulla deformità del personaggio. “ Lei è convinto insomma che sia una buona idea non far sapere al lettore, fino all’ultima frase, che questo personaggio è storpio?”  il tono di voce esprimeva tutta la sua contrarietà. E bastava a far capire subito a tutti i presenti, compreso l’autore del racconto,  che quella non era una buona strategia narrativa. Qualsiasi strategia che sottraesse al lettore delle notizie importanti e necessarie nella speranza di prenderlo di sorpresa alla fine della storia era da considerarsi un inganno.

In classe Gardner menzionava continuamente scrittori di cui non conoscevo neanche i nomi, oppure, se ne avevo sentito i nomi, non ne avevo letto le opere. Conrad. Céline. Katherine Ann Porter. Isaac Babel. Walter Van Tilburg Clark. Cechov. Hortense Calisher. Curt Harnack. Robert Penn Warren. Una volta leggemmo un racconto di Warren intitolato L’inverno delle more. Per un motivo o per l’altro non mi piacque e lo dissi a Gardner. “Faresti meglio a rileggerlo” mi disse, e non scherzava mica. William Gass era un altro scrittore che citava spesso. All’epoca Gardner stava per lanciare la sua rivista MSS e sul primo numero avrebbe pubblicato un racconto intitolato Il ragazzo dei Pedersen. Avevo cominciato a leggerlo ancora in manoscritto, ma non lo capivo e di nuovo mi lamentai con Gardner. Questa volta non mi disse di rileggerlo, semplicemente mi tolse il racconto dalle mani. Parlava di James Joyce, di Flaubert e di Isak Dinesen come se abitassero dietro l’angolo, a Yuba City. Diceva spesso “ Sono qui per dirvi chi dovete leggere, non solo come dovete scrivere.”

Stordito, uscivo dall’aula e correvo dritto in biblioteca a cercare i libri degli autori di cui aveva parlato. Gli scrittori che dominavano la scena, a quei tempi, erano Hemingway e Faulkner. Ma nell’insieme io avevo letto tutt’al più due o tre loro libri. Comunque, pensavo, erano così famosi e così chiacchierati che non potevano essere un granché, no? Ricordo che Gardner mi disse “ Leggi tutti i libri di Faulkner su cui puoi mettere le mani e poi leggiti tutti quelli di Hemingway per disintossicarti da Faulkner”.
Fu lui a farci conoscere le piccole riviste letterarie, portandocene un giorno in classe una scatola piena e distribuendole tra noi in modo che potessimo impararne i titoli, vedere che aspetto avevano, sentire che effetto faceva tenerle in mano. Ci spiegò che era lì che appariva la miglior narrativa e quasi tutta la poesia del Paese. Prosa, poesie, saggi letterari, recensioni di libri appena usciti, critiche scritte su autori viventi da altri autori viventi. In quei giorni ero frastornato da tutte queste scoperte.
Per sette o otto di noi che seguivano il suo corso, Gardner fece arrivare dei pesanti raccoglitori neri e ci disse che era lì che dovevamo tenere le cose che scrivevamo. Lui teneva i suoi manoscritti in raccoglitori come quelli, disse, e così noi demmo la cosa per scontata. Andavamo in giro con i nostri racconti dentro quei raccoglitori e ci sentivamo persone speciali, esclusive, diverse dalle altre. Ed era proprio così.
Non so come Gardner si comportasse con gli altri studenti quando veniva il momento di avere degli incontri individuali con ciascuno di noi per discutere del nostro lavoro. Ritengo che dedicasse a tutti una grande attenzione. Ma avevo, e ho ancora, l’impressione che in quel periodo egli prendesse i miei racconti più seriamente e li leggesse più a fondo e più attentamente di quanto avessi il diritto di aspettarmi. Ero completamente impreparato al genere di critiche che ricevevo da lui.. prima che ci incontrassimo, aveva già segnato il mio manoscritto, cancellando con un frego i periodi, le frasi, le singole parole e persino i segni di punteggiatura che riteneva inaccettabili; e mi fece subito capire che su quelle cancellature non si poteva neppure discutere. In altri casi metteva periodi, frasi e singole parole tra parentesi e queste erano cose su cui potevamo discutere, casi in cui era ammesso un minimo di trattativa. Non esitava neanche ad aggiungere qualcosa a quello che avevo scritto – una parola qua e là, oppure diverse parole, forse un’intera frase che chiariva meglio quello che cercavo di dire. Certe volte discutevamo delle virgole del mio racconto come se fossero le cose più importanti del mondo in quel momento – e in effetti lo erano. Comunque cercava anche sempre qualcosa da lodare. Quando c’era una frase, una battuta di dialogo o un passaggio narrativo che gli piaceva, qualcosa che egli pensava funzionasse e mandasse avanti la storia in modo piacevole e inatteso, scriveva a margine
“ Bello!” oppure “Buono!” quando vedevo questi commenti il cuore mi si risollevava.
Quello che mi offriva era una critica ravvicinata, riga per riga, e non si limitava a questo, ma mi rivelava anche le ragioni di quella critica, il perché una cosa doveva essere scritta in un modo piuttosto che in un altro; fu un’esperienza d’un valore senza pari nella mia maturazione di scrittore.
Esaurito questo tipo di discussione sui particolari del testo, passavamo a discutere dei temi più generali del racconto, del problema che cercavo di mettere a fuoco, del nodo conflittuale che tentavo di illustrare e anche del modo in cui il racconto si inseriva o meno nel più ampio schema della tradizione narrativa. Gardner era convinto che se le parole della narrazione rimangono confuse  e sfuocate perchè l’autore è stato insensibile, distratto o troppo sentimentale, il racconto che ne risulta soffre di un grave handicap. Ma c’è anche un pericolo maggiore da evitare a tutti i costi: se le parole e i sentimenti sono disonesti, se l’autore bara e scive di cose che non gli stanno a cuore o di cui non è convinto, allora non può aspettarsi che qualcun altro mostri interesse per il racconto.
Uno scrittore deve avere dei valori e conoscere il proprio mestiere. Questo è ciò che Gardner credeva e insegnava, ed io ho cercato di mantenere questi principi per tutti gli anni che sono  trascorsi da quel breve ma importantissimo periodo.

Raymond Carver
brani tratti da: Il mestiere di scrivere
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John Champlin Gardner Jr. (Batavia, 1933 – Susquehanna 1982) è stato uno scrittore e insegnante statunitense, figura popolare e controversa fino alla morte prematura avvenuta in un incidente motociclistico all'età di 49 anni.
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I suoi genitori, il padre un pastore laico e la madre un'insegnante, ebbero una forte influenza nella sua vita. Entrambi erano appassionati di Shakespeare e spesso recitavano letteratura insieme. Da bambino Gardner frequentò la scuola pubblica e lavorò nella fattoria del padre dove, nell'aprile 1945 all'età di 11 anni, il fratello più piccolo rimase ucciso in un incidente con una macchina agricola. Gardner, alla guida del trattore durante l'incidente, ebbe un senso di colpa per tutta la vita, incubi e flashback dell'accaduto. Il ricordo dell'incidente si affaccia spesso nei suoi romanzi e nella sua critica letteraria.
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