Qui non mi trovate,
io qui non ci sono.
Sto nella stanza accanto
dove non c'è nessuno.

25.1.11

Io odio l'odio


SILENZIO SI LEGGE


  (2° EPISODIO) Al ritorno dalle vacanze cercai di raccontare ad alcuni compagni di liceo quello che mi era capitato. Nessuno mi ascoltò. La cosa non mi stupì: non ero interessante, non lo ero mai stato. Non avevo una personalità carismatica: ne soffrivo e me lo rimproveravo. Ma perché prendersela? Avrei dovuto immaginarmelo che un soggiorno intimo in compagnia di Omero non poteva neanche lontanamente scuotere un manipolo di liceali. Quindi perché ci tenevo tanto a impressionarli?
   Durante l’adolescenza s’impone una questione cruciale: sarò capace d’irradiare luce o rimarrò nell’ombra? Mi sarebbe piaciuto poter scegliere. Non potevo farlo: qualcosa che non riuscivo ad analizzare mi condannava a restare nell’ombra. E quest’ultima avrebbe potuto piacermi solo se fossi stato io a sceglierla.
   D’altronde anch’io ero come gli altri: mi piacevano le personalità carismatiche. Quando Fred Warnus o Steve Caravan parlavano, ne restavo affascinato. Non sarei stato in grado di spiegare il loro potere di seduzione, ma lo subivo con entusiasmo. Sapevo che era un mistero superiore alla mia capacità di comprensione.
   In Europa occidentale è da un pezzo che non proviamo la guerra sulla nostra pelle. Le generazioni che vivono in lunghi periodi di pace pagano il prezzo del raccolto della Grande Falciatrice in altri modi. Ogni anno innumerevoli nomi si aggiungono alla stele delle vittime stroncate dalla mediocrità. Conviene lasciare loro il beneficio del dubbio: non si sono sottratti al combattimento, non sono disertori, alcuni di loro, a quindici anni, erano addirittura degli déi in terra. Non sto esagerando: quando un adolescente va a combattere, offre il più abbagliante degli spettacoli. Warnus e Caravan ardevano di una sorta di fuoco sacro.
Diane Millsap
Jazz in the big easy
   A diciotto anni, Warnus è stato falciato: è entrato all’università e, da un giorno all’altro, il suo brillante cervello ha cominciato a ripetere gli slogan scalcagnati di questo o quel professore. Caravan ha retto più a lungo: volato a New Orleans per imparare alla scuola dei migliori musicisti blues, prometteva bene. Lo avevo sentito suonare, e mi era venuta la pelle d’oca. Verso i trent’anni l’ho incontrato al supermercato con il carrello traboccante di birre. Mi ha detto senza imbarazzo che ne aveva le palle piene del blues e che era ben contento di essere stato “riacciuffato dal principio di realtà”. Non ho avuto il coraggio di chiedergli se era quello il nome che dava ai cartoni di birra. 
   La mediocrità non utilizza unicamente la via socio-professionale per averla vinta. Le sue vittorie spesso sono molto più nascoste. Ho scelto due ragazzi che, a quindici anni, erano a tu per tu con la divinità, ma la grande falciatrice non se la prende solo con l’élite. Possiamo esserne coscienti o no, ma siamo tutti spediti in battaglia e la sconfitta assume le forme più varie.
   La lista dei caduti non compare da nessuna parte: non sai mai con certezza cosa contiene, non sai neanche se c’è scritto il tuo nome. Ma ciò non deve far dubitare dell’esistenza di questo fronte. A quarant’anni i sopravvissuti sono così pochi che vieni invaso da un sentimento tragico. A quarant’anni sei per forza in lutto.
   Io non credo che la mediocrità sia riuscita a fregarmi. Sono sempre stato attento da quel punto di vista, grazie a qualche segnale di allarme. Il più efficace è questo: finché non gioisci della rovina di qualcuno, puoi ancora guardarti allo specchio. Godere della mediocrità altrui resta il culmine della mediocrità.
   Io mantengo una grande capacità di provare dolore per la dissoluzione di quelli che conosco. Ultimamente ho rivisto Laura, una carissima amica dei tempi dell’università. Le ho chiesto notizie di Violette, la più bella del nostro corso. Mi ha risposto con giubilo che era ingrassata di trenta chili e aveva più rughe della Befana. La sua gioia mi ha fatto correre i brividi lungo la schiena. Mi ha dato il colpo di grazia scandalizzandosi del mio rammarico per la carriera di Steve Caravan:
   - Perché lo giudichi?
   - Non lo giudico. Mi dispiace solo che abbia smesso di suonare. Aveva un vero talento.
   - Credersi un genio non serve a pagare le bollette.
C’era qualcosa di ancora più orrido nella frase in sé: l’acidità che trasudava da essa.
   - Allora, secondo te Steve si credeva un genio? Non hai mai pensato che potesse esserlo
 davvero?
   - Aveva un po’ di talento, come tutti noi.
Continuare non sarebbe servito. Già non è facile sopportare i discorsi dei benpensanti, ma diventa intollerabile quando scopri la portata dell’odio dissimulato dietro il loro catechismo.


   Odio: la parola è tabù. Tra qualche ora un aereo esploderà a causa mia. Qualunque precauzione io possa prendere, ci scapperanno almeno un centinaio di morti. Vittime innocenti, lo scrivo senza ironia. Chi sono io per condannare l’odio provato dagli altri?
Ho bisogno di scrivere queste righe per me stesso: io non sono un terrorista. Un terrorista agisce in nome di una rivendicazione. Io non ne ho nessuna. Sono ben contento di distinguermi radicalmente da quella teppa che cerca un pretesto per il proprio odio.
   Io odio l’odio, eppure lo provo. Conosco questo veleno che s’inocula nel sangue con un morso e che infetta fino all’osso. Il gesto che mi accingo a compiere ne è la pura manifestazione. Se fosse terrorismo inventerei per il mio odio un travestimento nazionalista, politico o religioso. Oso sostenere di essere un mostro onesto: non cerco di attribuire alla mia esecrazione una causa, uno scopo o un blasone di nobiltà. Attribuire a un dispositivo di distruzione un motivo, quale che sia, mi ripugna.
   Da Troia in poi l’hanno capito tutti: si uccide per uccidere, si brucia per bruciare, certi di trovare poi una legittimazione. Questo non è un tentativo di giustificarmi, visto che nessuno mi leggerà mai, ma un desiderio profondo di chiarire le cose: premeditato che sia, il crimine che sto per commettere è puro impulso al cento per cento. Mi è stato sufficiente conservare intatto l’impeto del mio odio, non lasciare che perdesse vigore, che diminuisse e sfociasse in un falso oblio di putrefazione.
   Dopo la mia morte imminente diranno di me ogni falsità, ma non m’importa di non essere compreso da gente che disprezzo. Ogni male ha però una sua igiene e la mia mi spinge a dire che in seguito al disastro aereo sarò un farabutto, uno stronzo, un pazzo, una feccia – tutto tranne che un terrorista. Ci tengo.
   Non si tratta neanche di un gesto compiuto per dare un senso alla mia vita: la mia vita ce l’ha, un senso. Confesso il mio stupore davanti alle innumerevoli persone che, se dobbiamo credergli, soffrono perché la loro esistenza è priva di senso. Mi ricordano quegli elegantoni che esclamano, davanti a un favoloso guardaroba, di non avere niente da mettersi. Il semplice fatto di vivere è un senso. Vivere su questo pianeta ne è un altro. Vivere in mezzo agli altri, un altro senso ancora, ecc.
Affermare che la propria vita non ha senso non è serio. Nel mio caso bisognerebbe dire che fino ad ora la mia vita non aveva uno scopo. E mi stava bene. Era una vita intransitiva. Vivevo in maniera assoluta e avrei potuto continuare così con piena soddisfazione. E’ là che il destino mi ha ghermito.
   Il destino abitava in un sottotetto. Da quindici anni il mio mestiere consiste nell’offrire, a chi si è appena trasferito, soluzioni energetiche non richieste. A seconda delle installazioni – o dovrei dire degli accrocchi? – consiglio la EDF o la GDF, le compagnie elettriche per cui più o meno lavoro; pianifico e concedo crediti quando m’imbatto in situazioni sociali che non si possono più neanche definire precarie. Svolgo questo mestiere a Parigi e ho avuto spesso modo di costatare cosa è capace di sopportare la gente pur di vivere in questa città.

  
   Con un residuo di pudore, alcuni sostengono che le condizioni disastrose della propria abitazione sono solo temporanee: “Siamo appena arrivati, sa”. Io annuisco. So che nella stragrande maggioranza dei casi non ci sarà nessun miglioramento: l’unico cambiamento consisterà nel mettere su una tale baraonda da ricordare il caos originario.
   La versione ufficiale è che amo questo mestiere perché mi permette di incontrare individui sorprendenti. Non è una bugia. Sarebbe tuttavia più esatto precisare che questo lavoro alimenta la mia naturale indiscrezione. Amo scoprire la verità sui luoghi della vita, gli incredibili tuguri ai quali gli umani consentono a loro stessi di adattarsi.
   Non c’è disprezzo nella mia curiosità. Quando vedo la mia, di stamberga, non faccio salti di gioia. Sono però consapevole di mettere il dito in una piaga inconfessabile che non è propriamente irrilevante: la nostra specie abita in tane non migliori di quelle dei topi; nelle pubblicità, nei film, vediamo esseri che si muovono in loft sontuosi o in raffinati boudoir. In quindici anni di carriera, non ho mai visto nessuno trasferirsi in questi splendori dall’altro mondo.


   In quel giorno di dicembre, avevo appuntamento da una nuova arrivata nel quartiere di Montorgueil. Il registro specificava che era una romanziera. Mi sentii incuriosito, non ricordavo di aver mai investigato a casa di nessuno che facesse quella professione.
   Con mia sorpresa non fui ricevuto da una giovane donna, ma da due.

Amélie Nothomb
   (CONTINUA)





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