Qui non mi trovate,
io qui non ci sono.
Sto nella stanza accanto
dove non c'è nessuno.

23.1.11

Zoile era un cretino odioso e ridicolo

  

   Vi sto per proporre l’incipit dell’ultimo romanzo regalatoci da Amélie Nothomb, (bè regalato si fa per dire, si devono scucire ben 12,00 euro per procurarselo!!) e a mio parere non è nemmeno il migliore fra quelli della sua notevole produzione. 

Si tratta in tutto di un’ottantina di pagine che si possono leggere tranquillamente in due/tre orette.
( Magari non vi consiglio di portarvelo in un viaggio aereo: potrebbe rovinarvi il piacere del decollo, meglio forse sceglierlo per uno spostamento in treno.)
La parte centrale rappresenta un rewind del protagonista all'aeroporto mentre è in attesa del "suo volo", per l' appunto.
Riguarda l'avventura romantica, capitatagli di recente, che ha registrato il fallimento di tutte le sue strategie sentimentali e lo ha lasciato decisamente un po' sbullonato.
Seppure la storia amorosa rappresenti il cuore della trama, durante la lettura sorge il legittimo sospetto che la nostra Amélie, avendo forse di meglio da fare, ad un certo punto della storia, si sia stufata di starsene seduta alla scrivania,  e si sia defilata, abbandonando lo sviluppo del plot nelle mani premature di qualche volenteroso discepolo.
Salvo poi, una volta esauriti gli impegni e constatato il disastro, rimboccarsi  le maniche per opporsi alla comprensibile tentazione di gettare 80 pagine nel trash-can, o per salvarne 8o su 300 ...che è sempre meglio che mandare in bianco l'Editore.
Non sto esattamente dicendo che il romanzo è una boiata, solo che, paragonato ai migliori lavori della soave Amélie, non regge il confronto.
Non lo regge con Metafisica dei tubi, Libri da ardere (tanto per rimanere in tema col blog di ieri) Biografia della fame, Cosmetica del Nemico, Igiene dell'assassino e i tanti altri con cui ha lasciato la sua impronta caustica ed indelebile.
E’ chiaro che non ho in mente di trascriverle tutte (le 80 pagine) perchè ci metterei troppo tempo e, per la verità,  ne ho pochino. Però, se anche mi limitassi a trascriverne solo 7/8, già queste rappresenterebbero  circa un 10% dell'intera opera, e il rischio che l’editore mi intenti causa, costringendomi a una vita di lavori forzati per rimborsargli i danni di violato copyright non sembra così remoto. Sempre che mi scopra, ovviamente.  *
Per questo motivo le dividerò in più puntate (come Lost, sempre per restare in tema).
mca
***
SILENZIO SI LEGGE

    (1° EPISODIO) Negli aeroporti, quando passo al controllo, mi innervosisco come tutti gli altri. Non è mai successo che non facessi scattare il famoso bip. Così ho sempre diritto al pacchetto completo, mani maschili mi palpano dalla testa ai piedi. Un giorno non ho potuto impedirmi di dire loro – Credete davvero che farei esplodere l’aereo?- Pessima idea, mi hanno costretto a spogliarmi. E’ gente priva di senso dell’umorismo.

   Oggi passo al controllo e mi innervosisco. So che farò scattare il famoso bip e mani maschili mi palperanno dalla testa ai piedi. Ma farò esplodere davvero l’aereo delle tredici e trenta.
    Ho scelto un volo in partenza dall’aeroporto di Roissy-Charles-de-Gaulle invece che da Orly. Una decisione motivata da ottime ragioni: l’aeroporto di Roissy è più bello e accogliente, le destinazioni sono tante e remote, i negozi del duty free offrono una maggiore scelta. Ma la ragione principale è che nei bagni di Orly ci sono le addette alla sorveglianza delle toilette. Il problema non è tirar fuori qualche soldo. Si trova sempre una moneta in fondo a una tasca. Quello che non sopporto è incontrare la persona che dovrà ripulire le mie tracce. E’ umiliante per lei e per me. Non credo di esagerare affermando di essere una persona sensibile.
   E oggi rischio di andare spesso in bagno. E’ la prima volta che mi accingo a far esplodere un aereo.
Ed è anche l’ultima, perché sarò a bordo. Ho riflettuto un bel po’ su soluzioni per me più vantaggiose, ma non ne ho trovate. Se sei un cittadino qualsiasi, un gesto del genere comporta necessariamente il suicidio. Altrimenti devi appartenere ad una rete organizzata, cosa che non mi si confà.
   Non sono fatto per collaborare. Non ho spirito di squadra. Non ho niente contro la razza umana, ho una predisposizione per l’amicizia e per l’amore, ma riesco a concepire soltanto l’azione solitaria. Come fai a portare a termine grandi imprese se hai qualcuno tra i piedi? Ci sono occasioni in cui bisogna contare solo su se stessi.
Non si può essere definiti puntuali quando si arriva troppo presto. Io appartengo a questa categoria: ho una tale paura di arrivare in ritardo che ho immancabilmente un considerevole anticipo.
   Oggi polverizzo ogni mio record: al momento di presentarmi al check-in sono le otto e trenta. La signorina mi propone un posto sull’aereo precedente. Rifiuto.
    Cinque ore di attesa non saranno troppe dato che ho con me questo taccuino e questa penna. Io che fino ai quarant’anni ero riuscito ad evitare il disonore della scrittura, scopro che l’attività criminale porta con sé la necessità di scrivere. Poco male, visto che i miei scarabocchi esploderanno insieme a me nel disastro aereo.    
   Non mi ridurrò a proporre la lettura del mio manoscritto ad un editore, sollecitandone l’opinione con l’aria fintamente distaccata.
   Al controllo ho fatto scattare il bip. Per la prima volta ho riso. Come previsto mani maschili mi hanno palpato dalla testa ai piedi. La mia ilarità è apparsa loro sospetta, e così ho dichiarato che soffrivo il solletico. Quando hanno passato al setaccio il contenuto della mia sacca, mi sono morso l’interno delle guance per non ridere.   
   Non avevo ancora con me il materiale che avrei usato per commettere il crimine. Poi l’ho acquistato in uno dei negozi duty free.
   Adesso sono le nove e trenta, ho quattro ore davanti a me per appagare questa curiosa necessità: scrivere quello che non avrà il tempo di essere letto. Si dice che prima di morire si veda sfilare tutta la propria vita in un secondo. Presto scoprirò se è vero. Questa prospettiva mi alletta, per niente al mondo vorrei perdermi il best of della mia storia. Se scrivo è forse per predisporre il lavoro del montatore che selezionerà le immagini: per ricordargli i momenti migliori e suggerirgli di sfumare quelli che sono stati meno importanti.
  
   Se scrivo è anche per paura che questo folgorante film non esista. Non è escluso che sia tutto una fregatura e che uno muoia stupidamente, senza vedere un bel niente. L’idea di annullarmi senza questa trance riassuntiva mi dispiacerebbe. Per precauzione farò in modo che sia la scrittura ad offrirmi le immagini.
   Mi viene in mente mia nipote Alicia, quattordici anni. Quella ragazzina è piazzata davanti a MTV da quando è nata. Le ho detto che se morirà vedrà sfilare un video che comincia con i Take That per finire con i Coldplay. Ha sorriso. La madre mi ha chiesto perché aggredissi sua figlia. Se punzecchiare un’adolescente equivale ad aggredirla, non oso immaginare quale verbo impiegherà mia cognata quando conoscerà il mio ruolo nella vicenda del Boeing 747.
   Non posso fare a meno di pensarci. Gli attentati esistono solo per i commenti del giorno dopo e per i media, pettegolezzi su scala planetaria. Non si dirotta un aereo per il piacere di farlo, ma per conquistarsi la prima pagina. Eliminate i media, e tutti i terroristi si ritroveranno disoccupati. Campa cavallo.
   Penso che dalle due, diciamo due e mezza, visti i perenni ritardi, i miei addetti stampa si chiameranno CNN, AFP ecc. , la faccia di mia cognata stasera davanti al tiggì delle otto: – Te l’avevo detto io, che tuo fratello era matto!- Ne vado abbastanza fiero. Grazie a me per la prima volta in vita sua Alicia guarderà un canale diverso da MTV. Ma non me la perdoneranno lo stesso.
   Gustarmi fin da ora il piacere di immaginarmi la scena non ha nulla di assurdo: non sarò presente per assaporare l’indignazione che avrò provocato. Per valutare da vivi una reputazione postuma, non c’è niente di meglio che anticiparla per iscritto.
   Le reazioni dei miei genitori: - Ho sempre saputo che il mio secondogenito era speciale. Ha preso da me – dirà mio padre, e intanto mia madre starà già inventando ricordi autentici atti a preannunciare il mio destino: – Quando aveva otto anni , costruiva aerei con i Lego e poi li lanciava sul suo ranch in miniatura.-
   Mia sorella invece racconterà con tenerezza ricordi reali nei quali però si cercherà invano una relazione col mio gesto: - contemplava a lungo le caramelle che aveva in mano, prima di mangiarle.-
   Mio fratello, sempre che la moglie lo lasci parlare, dirà che con il nome che mi ritrovavo c’era da aspettarselo. E questa aberrazione non sarà priva di fondamento.
   Quando ero nel ventre di mia madre, i miei genitori, convinti che fossi una femmina, mi avevano già battezzato Zoé. – Un nome bellissimo, significa vita!- andavano in giro ad annunciare. – E fa rima con il tuo – dicevano a Chloé, eccitata per la futura sorellina. Erano già talmente appagati dalla serietà di Eric, il primogenito, che un secondo maschio sembrava loro superfluo. Zoé sarebbe stato il doppione della deliziosa Chloé, la stessa in formato ridotto.
   Nacqui con una smentita tra le gambe. Vi si adattarono con buonumore. Ma al nome di Zoé si erano affezionati al punto da cercare a tutti i costi un equivalente maschile: in una vetusta enciclopedia scovarono Zoile.
   E me lo affibbiarono, senza neanche preoccuparsi del significato di quello che mi avrebbe condannato ad essere un unicum.
   Ho imparato a memoria le sei righe consacrate a Zoile nel dizionario enciclopedico Robert: Zoilos sofista greco, noto soprattutto per la critica appassionata e meschina contro Omero,  fu soprannominato Omeromastix (il flagello di Omero) e questo era anche il titolo della sua opera, in cui tentava di dimostrare, alla luce del buonsenso, l’assurdità del meraviglioso omerico.
   Il nome pare fosse entrato nella lingua corrente. Goethe per esempio aveva una tale consapevolezza del proprio genio da tacciare di Zoile i critichi che lo ingiuriavano.
   In un’enciclopedia di filologia, ho perfino appreso che Zoile sarebbe morto lapidato da una folla di brava gente nauseata dai suoi discorsi sull’Odissea. Epoca eroica in cui gli estimatori di un’opera letteraria non esitavano a far fuori l’insopportabile critico.
   Insomma Zoile era un cretino odioso e ridicolo. Il che spiega perché nessuno ha mai chiamato suo figlio con questo nome dal suono bizzarro. Tranne i miei genitori, certo.
   A dodici anni, quando scoprii la mia funesta omonimia, andai a chiederne conto a mio padre che se la sbrigò con : – Ma chi vuoi che se lo ricordi. – Mia madre fece di meglio: - non ascoltare queste dicerie! –
- Mamma è scritto sul dizionario!
- Se dovessimo credere a tutto quello che è nei dizionari…
- Dobbiamo crederci! – dissi io con un tono da comandante.
   Lei scelse subito un’altra argomentazione, più scaltra e calamitosa: - Non aveva mica tutti i torti, bisogna riconoscere che nell’Iliade ci sono delle lungaggini.
Impossibile farle confessare che non l’aveva letta.
   Se proprio dovevano darmi il nome di un sofista, non mi sarebbero dispiaciuti Gorgia, Protagora o Zenone, che ancora affascinano per il loro intelletto. Ma chiamarsi come il più stupido e disprezzabile fra loro non deponeva a favore di un nobile avvenire.
   A quindici anni afferrai il toro per le corna, tanto valeva prendere in contropiede il mio distino, avrei ritradotto Omero.
   A novembre avevamo una settimana di vacanza a scuola. I miei genitori possedevano una topaia senza pretese in mezzo alla foresta dove talvolta andavamo per stare a contatto con la natura. Chiesi loro le chiavi.
- Che vai a fare laggiù tutto solo? – domandò mio padre.
- Vado a tradurre l’Iliade e l’Odissea.
- Ne esistono già eccellenti traduzioni.
- Lo so, ma quando si traduce un testo, tra il traduttore e l’opera si crea un legame ben più stretto che a leggerlo.
- Hai deciso di sconfessare il tuo celebre omonimo?
- Non so, prima di giudicare bisogna che conosca intimamente l’opera in questione.
   Raggiunsi il villaggio in treno, poi proseguii a piedi fino alla casa: una camminata di una decina di chilometri. Il peso del vecchio dizionario e dei due illustri libri nel mio zaino mi esaltava.
   Arrivai il venerdì sera tardi. All’interno della stamberga si gelava. Accesi il fuoco nel caminetto e mi rannicchiai vicino al focolare su una poltrona che sommersi di coperte. Il freddo mi anestetizzò al punto che mi addormentai.
   Mi svegliai lì, stupefatto, al mattino presto. Le braci rosseggiavano nell’oscurità. All’idea di quello che m’aspettava fui folgorato dall’esaltazione. Avevo quindici anni e per nove giorni, in assoluta solitudine, avrei penetrato con tutte le mie forze l’opera più venerabile della storia. Aggiunsi un ciocco nel caminetto e mi preparai un caffè. Accanto al fuoco installai un ripiano con il dizionario e i libri: mi sedetti, munito di un quaderno intonso e mi lanciai nell’ira di Achille.

   Di tanto in tanto alzavo il naso dal testo per bearmi di quel momento – Sii consapevole dell’immensità di quanto ti succede – mi ripetevo. Non smettevo un istante di esserlo. La mia sovreccitazione sopravvisse al passare dei giorni: la resistenza del greco rinnovava ad libitum la sensazione di una straordinaria conquista amorosa. Spesso mi accorgevo di tradurre molto meglio scrivendo direttamente. La scrittura presuppone un passaggio del pensiero attraverso un segmento del corpo, che immaginavo costituito dal collo dalla spalla e dal braccio destro, decisi quindi di arricchire il mio cervello consacrandogli il mio corpo per intero. Quando un verso mi celava il suo significato, lo scandivo al ritmo dei piedi, delle ginocchia e della mano sinistra. Non ottenevo alcun risultato. Allora canticchiavo e alzavo la voce. Ancora niente. Sfinito, andavo a cercare sollievo in bagno. Al ritorno il verso si traduceva da solo.
   La prima volta sgranai gli occhi. Bisognava fare pipì per capire? Quanti litri d’acqua avrei dovuto bere per tradurre dei mattoni di quella portata. Poi compresi che la minzione non c’entrava niente. A funzionare erano stati i pochi pasSi compiuti per andare al gabinetto. Avevo chiamato le gambe alla riscossa; bisognava dunque riattivarle, farle andare, per trovare la soluzione.   L’espressione “va che è un piacere” ha probabilmente origine da qui.
   Presi l’abitudine di passeggiare nella foresta quando calava la sera. Le grandi ombre degli alberi e l’aria gelida mi rallegravano, avevo la sensazione di affrontare un ambiente ostile e smisurato.
 Peripatetico dell’interpretazione, sentivo che l’esercizio conferiva al mio cervello la forza che gli mancava. A casa riempivo i buchi del testo.
   Ma i nove giorni non bastarono a tradurre neanche la metà dell’Iliade. Tuttavia tornai in città con una sensazione di trionfo. Avevo vissuto un idillio sublime che mi legava per sempre a Omero.
   Sono passati venticinque anni da allora e sono costretto ad ammettere che non sono più in grado di recitarne neppure un verso. Ma la mia memoria ha conservato l’essenziale: la straordinaria energia di quell’estasi. La fecondità di un cervello che gira a pieno regime e che chiama a raccolta tutta la natura, compresa la propria. A quindici anni c’è un fervore dell’intelligenza che è importante catturare: come certe comete non ripasserà mai più.



Amélie Nothomb
(CONTINUA)







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