Qui non mi trovate,
io qui non ci sono.
Sto nella stanza accanto
dove non c'è nessuno.

30.7.10

IL POETA E' SOLO


 E’ presto ancora in questo mondo, mi senti    
i mostri non sono stati domati, mi senti             
il mio sangue perduto e l’affilato, mi senti  
coltello
come ariete corre nei cieli
e delle stelle spezza i rami, mi senti
sono io, mi senti
ti amo, mi senti
ti prendo per mano, ti conduco, ti metto
la bianca veste nuziale di ofelia, mi senti  
dove mi lasci, dove vai e chi, mi senti
ti tiene per mano là sopra tra i diluvi
le gigantesche liane e la lava dei vulcani
verrà giorno, mi senti
che ci seppelliranno e poi, dopo migliaia di anni, mi senti
non saremo che pietre lucenti, mi senti    
dove si rifrangerà l’indifferenza, mi senti
degli uomini
e in migliaia di pezzi ci butterà, mi senti
nell’acqua ad uno ad uno, mi senti
conto i miei amari ciottoli, mi senti
e il tempo è una grande chiesa, mi senti
dove le icone a volte, mi senti
dei santi
piangono lacrime vere, mi senti
le campane aprono in alto, mi senti
un profondo valico per lasciarmi passare
gli angeli aspettano con ceri e salmi funebri
non me ne andrò via di qui, mi senti
o insieme tutti e due o nessuno, mi senti
questo fiore delle tempesta e, mi senti    
dell’amore
una volta per sempre lo cogliemmo, mi senti
e non potrà più fiorire, mi senti
su altri pianeti o stelle, mi senti
non c’è la terra e neppure il vento
lo stesso vento che toccammo, mi senti
e non un giardiniere che ci sia riuscito, mi senti
da inverni e bore simili, mi senti
spuntare un fiore, solo noi, mi senti
in mezzo al mare
con la sola volontà dell’amore, mi senti        
alzammo intera tutta un’isola, mi senti
con grotte, promontori e rupi in fiore
senti, senti
chi parla alle acque e chi piange – senti?
chi cerca l’altro, chi grida – senti?
sono io che grido ed io che piango, mi senti
ti amo, ti amo, mi senti. 
MONOGRAMMA
Odisseas Elitis
(1911-1996) premio Nobel per la letteratura 1979



 La poesia di Odisseas Elitis conversa con il mare. Racconta di vento, rocce, alberi di acacia, amarilli, olivi, ciottoli e sentieri. Vi si trovano templi antichi, chiesette sperdute, bianchi cortili, giovani donne con «l’età del mare negli occhi e la salute del sole nel corpo», e una solitaria, irriducibile, eversiva fede nella felicità. Figlio di genitori originari di Lesbo, Odisseas Alepudelis - questo il vero nome - nacque a Iraklion, sull’isola di Creta, nel 1911. Durante le estati di navigazione sulla barca di famiglia assorbì nel corpo e nell’anima la luce dell’Egeo: da questa infanzia all’insegna dei cinque sensi - della loro libertà informale, immediata - nasce una delle opere più «solari» del Novecento, insieme a quella di García Lorca, cui l’accomuna il tono di fierezza e di malinconica, ritmica gioia. «Gli europei e gli occidentali - diceva Elitis - trovano sempre il mistero nell’oscurità, nella notte, mentre i Greci lo trovano nella luce, che per noi è un assoluto». Intessuta dei raggi di questo assoluto è ogni riga dei suoi scritti, che non sono mai ritiro edenico, quanto piuttosto disciplina del vivere e del comporre: «La Grecia e il suo paesaggio sono l’alfabeto di elementi naturali a cui ho cercato di trovare una corrispondenza morale nella poesia».
Al cospetto di questa luminosa, impegnativa saggezza le epifanie personali del poeta - la danza di una lucertola sui marmi di Olimpia, una farfalla che si posa sul seno nudo di una ragazza addormentata al sole tra le piante di limoni, i delfini visti da un battello tra Paros e Naxos - assumono valore universale, ricomponendo anche nell’anima del lettore «i frammenti della vita che teniamo nascosta o consentiamo che ce li tengano disgiunti».

Trasferitosi a Parigi nel ’48, vi conobbe, oltre ai maggiori poeti del suo tempo, artisti come Picasso, Léger, Matisse, Chagall, Giacometti: a loro e ad altri presterà lo sguardo di un critico d’arte professionista, come testimoniano i saggi raccolti ne "La materia leggera - Pittura e purezza nell’arte contemporanea". In quegli stessi anni di vagabondaggio europeo, oltre a lavorare per la radio nazionale greca e a fornire testi al musicista Mikis Theodorakis, Elitis getta le fondamenta di Axion Estì (Dignum est), odissea interiore dell’uomo moderno e sua opera più rappresentativa. Elitis non ha mai cercato l’amore ma «il vento e dell’alto mare aperto il galoppo» e ad un certo punto si trova coinvolto in un rapporto non più limitato all’Eros, per quanto questo sia sempre stato per lui ricco di profonde risonanze paniche. 
Le sette poesie di Monogramma fissano in versi immortali, per struttura e bellezza, ciò che non può più essere definito, con parole troppo terrene, un amore infelice, non ricambiato. È piuttosto un incontro scritto nelle stelle, foriero di destino, da cui filtra una luce che allo stesso tempo ferisce e trasporta il poeta, e chi lo legge, in quello che Simone Weil chiamava, cercando di definire l’amore, un «evento dell’eternità».
Dopo il testo originale in greco di Monogramma, vengono offerte al lettore la versione italiana di Marco Vitti, primo traduttore cronologico del poeta, per poi proseguire, in direzione dell’Oriente, con quelle in spagnolo, francese, inglese, tedesco, russo, bulgaro, rumeno, chiudendosi con la traduzione italiana di Paola Maria Minucci, curatrice del volume, amica di Elitis e professoressa di Letteratura neogreca all’Università La Sapienza. «Ogni traduzione - ci dice - è anche una lettura critica, essendo quella del poeta un’opera aperta». Raramente un artista ha ricevuto omaggio più sentito, a metà strada tra le parole e il loro suono capace di commuovere al di là del significato, come accade in musica.

La poesia di Elitis appartiene al futuro. Nella sua opera - di nuovo, come nella musica - si respira tensione verso una silenziosa, indicibile pace. Il poeta la desidera, la insegue, qualche volta la ottiene, senza mai perdere la speranza che questa possa avverarsi anche per l’amata, in definitiva per tutti. Ma spesso Odisseas è solo. «Mi senti?» è l’intercalare affannoso di Monogramma.
«Mi basta bere un sorso di acqua pura e mangiare soltanto pane o pensare intensamente ad un’isola dell’Egeo nel sole di mezzogiorno e al fragore della risacca per ritrovare l’equilibrio in un sentimento che non è precisamente né fede metafisica, né autosufficienza estetica, né scorta di risorse fisiche, ma qualcosa, direi, come la certezza che esiste ancora una sufficiente riserva di luce nel mondo, che può controbilanciare le tenebre e che aiutandola ad emergere, e solo con questo, si rientra nell’armonia con l’esistenza e con il suo destino».

Tommy Cappellini
(mca ringrazia)
.

3 commenti:

  1. Cara Maria,
    attendevo la poesia che mi aveva promessa.
    Non penso fossero quelle di Neruda e Lorca, belle, ma conosciute e non sorprendenti,
    Questa invece lo è, davvero bella, e chi dice che non sia scritta ad un lui piuttosto che ad una lei.
    La sento molto mia, insomma lo”sento”, Odisseas.
    Il richiamo a Ofelia può essere puramente metaforico.
    Anche se in verità amo meglio quell’usanza di molti popoli che salutano
    dicendo “ti vedo”.
    Secondo me c’è più profondità nel vedere, anche dentro, che nel sentire, che mi pare un atto più passivo
    .
    «Ogni traduzione - ci dice - è anche una lettura critica, essendo quella del poeta un’opera aperta».
    Qui torniamo al problema della traduzione della poesia. Addirittura si dice che il traduttore debba essere anche il critico dell’opera, perché mai? La poesia è un’opera aperta per essere goduta da tutti. Il traduttore ha il compito di tradurre alla meno peggio la poesia, ma come già dissi,la poesia non à traducibile.
    Grazie ancora una volta, suo
    Amedeo Trutti-Amedei di Liscabona

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  2. mca @ Amedeo
    Grazie, lei mi onora sempre dei suoi interessanti riscontri, ancor di più per le diatribe che involontariamente sollevano.
    Dunque secondo lei "sentire" sarebbe da considerarsi facoltà più passiva di
    "vedere" e di portata inferiore rispetto alle possibilità di scandaglio dell'animo umano.
    Non sono d'accordo, come c'era da aspettarsi.
    Non fermiamoci, gentile Alf...Amedeo, alla superficie delle cose: vedere, possono vedere tutti quelli che hanno gli occhi, non implica alcun tipo di partecipazione attiva.
    ma sentire... mica sentono tutti, perchè non è così automatico, e io e lei non facciamo testo.
    Ero certa che questa poesia, di cui aspirerei ad avere scritto io stessa anche solo il titolo, le avrebbe suscitato ammirazione e turbamento: il poeta sa superare distanze incolmabili con l'uso di strumentazioni così sofisticate che bypassano cuore e orecchi.
    Quello che trasmette è una specie di sentire "cosmico" che sa tramutare il sentimento d'amore in un evento inesauribile.
    Ma forse lei questo concetto lo saprebbe esprimere con parole più precise delle mie...

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  3. Evviva, sono d’accordo con lei, mca: questa poesia ha una spaziosità cosmica,
    una temporalità che è insieme istantanea ed eterna – “una volta per sempre” dice in un passaggio - come è in realtà il tempo, che nel presente si fonda sugli avvenimenti passati ed a sua volta crea il fondamento del futuro. E’tutto già qui ed ora.
    Quando dico “vedere” intendo vedere non la massa materiale che appare agli occhi, bensì la struttura complessa che dà forma alla materia e ciò vale anche per le persone. Posso vedere lei, mca, anche attraverso le parole che scrive, quelle che non scrive,la sequenza delle frasi,le aggettivazioni,la punteggiatura: tutto ciò esprime la sua personalità più profonda,i suoi ideali, le sua fragilità, i suoi timori, anche i suoi dolori. Lo stesso può fare lei attraverso i miei commenti. Ma bisogna appunto saper vedere.
    Ho capito che mi confonde con un tale Alfredo? Alfio? Non sono colui.
    Amedeo Trutti-Amedei di Liscabona

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