Qui non mi trovate,
io qui non ci sono.
Sto nella stanza accanto
dove non c'è nessuno.

10.2.11

VERY BIUTIFUL

Da tempo si aspettava l’uscita in Italia di questo Biutiful film di Alejandro Gonzales Inarritu, premiato al festival di Cannes nel 2010.
Inarritu è un regista cinquantenne, di nazionalità messicana, che scuote gli animi e si fa largo in un panorama cinematografico con cui ha poco da condividere.
Di lui si dice tutto il bene e tutto il male, ma sono sicura che si continuerà a parlarne.
Personalmente mi sento di dirne bene, perchè il suo film 21 grammi è ancora fra i miei preferiti e ogni volta che lo rivedo mi cattura come la prima.

In Biutiful è vero, si avverte la mancanza della mano delicata di Guillermo Arriaga, co-sceneggiatore dei suoi precedenti film, con cui era nato un sodalizio artistico vincente che li aveva condotti oltre i confini del Messico.
Qui le tinte sono più forti, il taglio fa sanguinare.
Lascio da parte la storia.
I film di Inarritu si banalizzano raccontandoli, perché il loro pregio è nella circolarità data alle vicende, agli affetti e alle emozioni, una circolarità magica che alla fine dà un senso a tutto, anche a quello che sembrava non averne alcuno; ecco perché i suoi film andrebbero lasciati decantare a lungo e poi rivisti più volte prima di poterne parlare come si deve.
 In Biutiful si è afferrati subito da un senso di respingimento a cui non è facile opporsi, perché in questo film non c’è scampo, in un sovraffollamento di drammi, casuali e consequenziali, complementari alla vita di quelli che non fanno parte della nostra; si sta sempre in apnea, non c’è una nicchia dove rifugiarsi per riprendere fiato. Siete avvisati.
Che si tratti di Barcellona lo si capisce dal profilo delle guglie della Sagrada Familia che in qualche fotogramma si stagliano in lontananza con le sempiterne gru a sovrastarle. Per il resto non è la Barcellona turistica che conosciamo noi, assomiglia molto di più alle descrizioni che ne fa Ledesma nei suoi noir: schifosa, globale, corrotta, aliena dal mito che ne conserviamo ancora noi Italiani.


 

Se si sopravvive al virus letale della prima ora di proiezione si comincia a capire che in quel calderone descritto da Inarritu c’è il Mondo, quello in cui crogioliamo tutti, anche se non ci va di crederlo, e quando torniamo a casa nostra ci chiudiamo alle spalle la porta blindata.

Inarritu non fa film per farci divertire.
Se non avete paura e pensate di reggere bene il colpo, allora andate a vederlo.
Se si appartiene alla schiera degli "astemi emotivi", meglio lasciar perdere, tanto il cinema attualmente dispone di un’ampia offerta alternativa.
Non è questo il film per chi predilige l’evasione dalla verità o preferisce ridere pensando che chiodo scacci chiodo, che la vita faccia piangere già abbastanza di per se stessa senza bisogno che ci si metta anche il cinema, e ignora che piangere un po'  FA BENE, lava l’anima, si porta via i detriti tossici che accumuliamo dentro.

Volendo fare paragoni, un film ora nelle sale Hereafter, che parla della vita oltre la morte,  considerando il numero di asterischi accaparrati, sembrerebbe attualmente contendersi il pari merito con Biutiful. La differenza fra il film di Eastwood e quello di Inarritu è che il primo, adottando un linguaggio espressivo edulcorato e semplificato,  preconfezionato sul gusto del pubblico, riceve una marea di applausi dalla platea,  ma non lascia un segno indelebile.
Il secondo è un film che non vuole accattivarsi il consenso del pubblico con lusinghe, dispensando contentini e false illusioni. No: la vita è qui ed ora, brutale, e non risparmierà i buoni come non punirà mai i cattivi.
Allo scorrere dei titoli di coda, oltre alla bella musica di Gustavo Santaolalla, che meriterebbe un articolo a parte, in sala regna quel silenzio  fecondo che andrà avanti a parlare a lungo.

Grande forza e grande coraggio dimostrati da questo ispirato cineasta, qui autore esclusivo della sceneggiatura. Avesse saputo tenere meglio a bada la sua passionalità latina, non lo avrebbe portato a oltrepassare in alcune scene la giusta essenzialità espressiva e a sconfinare a tratti nella platealità. Ma forse il tempo gli darà ragione come per gli altri suoi film. Egli è molto avanti a noi, difficile giudicarlo.

Javier Bardem è un’incarnazione di Cristo moderno che sa vestire perfettamente il suo ruolo: oltre ai meriti interpretativi gli va riconosciuta una buona capacità di misurare i toni laddove la regia sembra non averli potuti controllare appieno. Meritata la sua candidatura all’oscar.
mca

 













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